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 2015  gennaio 09 Venerdì calendario

SFORTUNATO QUEL PAESE...

Stampa e televisione hanno celebrato con soddisfazione l’esito del salvataggio del Norman Atlantic. Ci sono stati morti e dispersi, ma nel complesso le operazioni di soccorso sono state efficienti. In particolare i media si sono soffermati sul caso del comandante Argilio Giacomazzi che, dopo aver diretto le operazioni di soccorso a bordo, si è salvato per ultimo. Il caso non poteva che colpire, dato il precedente episodio di un “abominevole uomo delle navi”, ma in certi resoconti ha cominciato ad affiorare l’appellativo di “eroe”.
Non si può frenare l’enfasi dei media che, quando qualcuno ha affermato che non è d’accordo su qualcosa, si dice che “tuona”, come se fosse un Giove Olimpico. La gente più non “dice” o si trova nei pasticci, ma tuona ed è nell’occhio del ciclone (il che tra l’altro è un errore, perché nell’occhio del ciclone regna la calma, ma il pubblico va emozionato).
RITORNIAMO AL CAPITANO Giacomazzi. So benissimo di dire cose in ritardo perché idee con cui concordo ha già espresso per esempio Luciano Canfora nel quotidiano online “Lettera 43” del 2 gennaio. Ma non sarà male tornare ancora sull’argomento. Il capitano Giacomazzi è sicuramente una degna persona (anche se fosse poi provato che aveva qualche corresponsabilità nelle origini dell’incidente) e si auspica che ogni capitano in futuro si comporti come lui. Ma non è un eroe: è un uomo che ha compiuto onestamente e senza viltà il suo dovere. È nelle regole d’ingaggio di un capitano che debba abbandonare la nave per ultimo e che questo dovere comporti certamente un pericolo, come è nelle regole d’ingaggio di un paracadutista che possa morire in un conflitto a fuoco.
Chi è un eroe? Se ci atteniamo alla teoria degli eroi di Carlyle, è eroe ogni grande uomo dotato di grande carisma che ha lasciato una impronta nella storia, e in tal senso sono eroi sia Shakespeare che Napoleone, indipendentemente dal fatto che eventualmente fossero (absit iniuria) dei gran paurosi. Ma dell’idea di Carlyle hanno fatto giustizia sia Tolstoj che, più tardi, gli storici della vita materiale, che hanno dato meno importanza ai grandi eventi e hanno studiato piuttosto le strutture economiche e sociali, o le tendenze collettive. Invece, se si va per dizionari ed enciclopedie, emerge sempre che un eroe è colui che compie un atto eccezionale, che non gli era richiesto, a rischio della propria vita, per giovare agli altri. Eroe era Salvo D’Acquisto: nessuno gli chiedeva di accollarsi una responsabilità non sua, e di andare davanti al plotone d’esecuzione per salvare gli abitanti del suo paesino; ma, al di là di ogni suo dovere, lo ha fatto, ed è morto. E per essere eroe non è necessario essere un soldato o un condottiero: è eroe chi a rischio della propria vita salva il bambino che sta annegando, o il compagno in miniera, o rinuncia a un tran-tran tranquillo in un ospedale in patria e va a rischiare la vita in Africa tra gli ammalati di Ebola. D’altra parte pare che lo stesso Giacomazzi, intervistato al suo ritorno, abbia detto: «Gli eroi non servono a niente, il pensiero è solo per le persone che non ci sono più». Un modo sensato per sfuggire alle santificazioni mediatiche.
PERCHÉ PER UNA PERSONA, certamente dotata di coraggio e sangue freddo, che compie il proprio dovere, si parla di eroe? Brecht ci ricordava (nel suo “Galileo”) che sfortunato è quel Paese che ha bisogno di eroi. Perché è sfortunato? Lo è perché difetta di persone normali che fanno quanto si erano impegnati a fare, in modo onesto, senza rubare o rifuggere dalle proprie responsabilità, e lo fanno (si dice banalmente oggi) “con professionalità”. Mancando di cittadini normali, un Paese cerca disperatamente un personaggio “eroico”, e distribuisce medaglie d’oro a destra e a manca.
Un Paese sfortunato è dunque quello in cui, nessuno sapendo più quale sia il suo dovere, cerca disperatamente un capopolo, a cui conferire carisma, e che gli ordini ciò che deve fare. Il che, se ben ricordo, era una idea espressa da Hitler in “Mein Kampf”.