Sylvain Bourmeau, L’Espresso 9/1/2015, 9 gennaio 2015
L’INCUBO DI HOUELLEBECQ
[Colloquio con Michel Houellebecq] –
Siamo nel 2022. La Francia ha paura. Il Paese è da tempo in preda a disordini misteriosi. E le elezioni presidenziali hanno un risultato clamoroso: il leader del giovane partito della Fraternità musulmana, Mohammed Ben Abbes, batte nettamente Marine Le Pen al ballottaggio. Dall’oggi al domani la Francia cambia. Le donne indossano lunghe bluse su pantaloni larghi e lasciano in massa il lavoro, le università diventano islamiche: chi non è musulmano è obbligato alla pensione o alla “Sottomissione”. È questo il titolo del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, pubblicato in Francia da Flammarion il 7 gennaio tra le polemiche (in Italia esce il 15 per Bompiani).
Nel suo sesto romanzo, l’autore di “Le particelle elementari” si mette improvvisamente e atrocemente a somigliare a quegli editorialisti politici di serie B - Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Renaud Camus... - che nei loro bestseller preelettorali hanno agitato lo spauracchio dell’invasione dell’Islam. E lo fa con quello che si deve decisamente definire un vero suicidio letterario. Perché l’abiezione politica e la debolezza letteraria sono in questo libro strettamente legate. Un romanzo arido e triste, approssimativo, mal documentato, senza dialoghi e senza poesia: “Sottomissione” suona falso da cima a fondo e non è certamente degno di apparire nella bibliografia di quello che rimane comunque uno dei più importanti scrittori contemporanei di lingua francese. Parola mia, cioè del critico che negli ultimi vent’anni ha più spesso intervistato Houellebecq: per questo l’autore aveva deciso di dare a me la prima intervista su “Sottomissione”. Ci siamo incontrati il 19 dicembre nell’ufficio di Flammarion.
Houellebecq, perché questo libro?
«Per molti motivi, penso. Non amo usare questa parola, ma ho la sensazione che questo sia il mio “mestiere”. Ho vissuto a lungo in Irlanda e quando sono tornato in Francia ho trovato grandi cambiamenti, cambiamenti che non sono specificamente francesi, del resto, ma dell’Occidente in generale. Secondo motivo, forse, il mio ateismo non ha veramente resistito alla serie di perdite che ho subito. Le ho trovate insopportabili, in realtà».
Allude alla morte del suo cane e dei suoi genitori?
«Sì. Sono state molte perdite in un arco di tempo ristretto. Il tutto forse è stato aggravato dal fatto che, contrariamente a ciò che credevo, non ero un vero ateo, ma un vero agnostico. Riesaminando alla luce di ciò che so la faccenda dell’esistenza di un creatore, di un ordine cosmico, di qualcosa del genere, mi sono reso conto che non mi sentivo in grado di rispondere né sì né no. Questa seconda motivazione è stata probabilmente più forte della prima nello scrivere questo libro. C’è un terzo motivo per il quale ho scritto questo libro, ed è che l’inizio mi è piaciuto moltissimo. In pratica, in una volta sola, di getto, ho scritto tutta la prima parte fino alla pagina 26. E l’ho trovata molto convincente… Il mio progetto originario però era molto diverso. Non doveva intitolarsi “Soumission” ma “La conversion” (La conversione). E inizialmente, nei miei piani, il narratore si convertiva sì, ma al cattolicesimo. Poi però non ci sono riuscito. Perché non funzionava».
Definirebbe satirico questo romanzo?
«No. La definizione di “fantapolitica” mi sembra la migliore. Al massimo, ma solo molto parzialmente, è una satira del giornalismo politico. Della classe politica, forse, un po’ di più. Ma i personaggi principali non sono una satira».
Come le è venuto in mente di inventare un ballottaggio tra Marine Le Pen e un musulmano?
«Beh, per Marine Le Pen mi pare del tutto verosimile che ci arrivi già nel 2017. Quanto al partito musulmano, qui siamo al nocciolo della questione. Ho cercato di calarmi nei panni di un musulmano e mi sono reso conto che i musulmani in verità vivono in una situazione del tutto alienata. È evidente che sono molto lontani dalla sinistra, e ancor più dagli ecologisti. E non si vede perché mai dovrebbero votare per la destra, o per l’estrema destra, che li rifiutano con tutte le forze. Che cosa può fare quindi un musulmano che vuole votare? Si trova in una situazione impossibile, perché non è rappresentato. Di conseguenza, secondo me, l’idea del partito musulmano è plausibile».
Ma da qui a immaginare che un partito del genere tra sette anni possa trovarsi a vincere un’elezione presidenziale…
«Sono d’accordo, questo è poco plausibile. Per due ragioni principali. La prima è la più difficile: i musulmani dovrebbero riuscire a mettersi d’accordo tra loro. Dovrebbero trovare una persona estremamente intelligente e di un talento politico eccezionale, qualità che io ho dato al mio personaggio Ben Abbes. Poco probabile, ma supponiamo che esista: questo partito potrebbe compiere passi avanti, ma servirebbero più di sette anni. Se si considera il metodo utilizzato dai Fratelli Musulmani, notiamo una rete sul territorio fatta di associazioni di beneficenza, di luoghi di aggregazione culturale, di centri di preghiera, di vacanza, di cura… Un po’ l’equivalente di quello che aveva fatto il Partito Comunista. In un Paese nel quale la miseria dilaga tutto ciò potrebbe effettivamente convincere anche più gente dei musulmani “normali” – se così posso dire – perché oltretutto non ci sono soltanto i musulmani “normali”, ma anche i convertiti, persone che non sono di origine maghrebina… Un tale processo, in ogni caso, richiederebbe parecchie decine di anni. In realtà, a questo proposito il sensazionalismo mediatico riveste un ruolo negativo. Alludo, per esempio, a come è stata accolta la storia della conversione di un tizio che abitava in un piccolo villaggio della Normandia, francese al cento per cento, e che per di più non aveva alle spalle una famiglia disgregata. Beh, si è convertito ed è partito per combattere in Siria. In effetti, è ragionevole supporre che per uno così ci siano svariate decine di persone che si convertono senza partire per la Siria. Combattere il jihad in Siria non è divertente. In fin dei conti, quindi, fa presa soltanto su individui fortemente motivati dalla violenza. Ovvero, una minoranza».
Si potrebbe anche dire che ciò che interessa a queste persone più che altro è partire per la Siria, non convertirsi…
«Non credo. Io credo che esista un bisogno reale di Dio, e che il ritorno del sentimento religioso non sia uno slogan, ma una realtà».
Questa ipotesi è fondamentale per il suo romanzo, ma è risaputo che in realtà è smentita da tempo da numerosi studiosi che hanno dimostrato che stiamo assistendo a una fase di graduale laicizzazione dell’Islam.
«Non è quello che vedo io. Del resto non è solo l’Islam a giovarsi di questo ritorno della spiritualità, e non riguarda solo la Francia: in America del Nord e del Sud sono gli evangelisti a giovarsene. Così accade in Asia, anche se non sono molto informato in proposito, mentre in Africa si vanno affermando sempre più due grandi forze religiose: l’evangelismo e l’Islam. In buona parte sono rimasto kantiano e non credo che una società senza religione possa durare».
Ma perché ha deciso di “drammatizzare” le cose, se anche per lei è inverosimile che nel 2022 possa essere eletto un presidente musulmano?
«Beh, qui forse è entrata in gioco la parte di me che adora far presa sul grande pubblico, che ama il thriller».
La drammatizzazione assume la forma di descrizioni molto vaghe di avvenimenti che accadono senza che si capisca chiaramente di che cosa si tratta. È la politica della paura?
«Forse sì. Sì, un po’ di paura c’è. In effetti sfrutto il fatto di incutere paura».
Quindi lei sfrutta coscientemente la paura che nasce dal parlare di un Islam che conquista la maggioranza?
«In realtà, non si sa bene di che cosa si ha paura. Tutto resta nell’ombra».
Si è chiesto quali conseguenze può avere un romanzo che contiene un’ipotesi simile?
«Nessuna. Nessuna conseguenza».
Non crede che contribuirà a rafforzare l’immagine di una Francia sulla quale l’Islam incombe come una spada di Damocle?
«Già ora i media non parlano d’altro. Non potrebbero parlarne più di così. Quindi il mio libro non avrà nessuna conseguenza».
E questa constatazione non le fa venire voglia di scrivere d’altro? Di non inserirsi nel flusso del conformismo?
«No, oggettivamente fa parte del mio lavoro parlare di ciò di cui parla la gente. Io vivo nella mia epoca».
In questo romanzo lei sottolinea che gli intellettuali francesi hanno una propensione particolare a non sentirsi mai responsabili. E la sua responsabilità di scrittore?
«Ma io non sono un intellettuale. Non mi schiero, non difendo alcun regime. Respingo ogni responsabilità, rivendico l’irresponsabilità, senza mezzi termini. A eccezione di quando nei miei romanzi parlo di letteratura, nel qual caso mi assumo la responsabilità del critico letterario. In verità, sono le opere di saggistica a cambiare il mondo».
Non i romanzi?
«Forse sì. Ma non quelli grossi. Anche “Il Capitale”, ho la sensazione che fosse troppo grosso: a essere letto e ad aver cambiato il mondo penso sia stato il “Manifesto del Partito Comunista”. Se si ha intenzione di cambiare il mondo bisogna dire chiaramente: “Ecco, il mondo è così e questo è quanto va fatto”, senza perdersi in considerazioni romanzesche. Perché non serve a niente».
Nel libro lei riprende contrapposizioni discutibili come quella tra antirazzismo e laicità.
«È innegabile che ci sia una contraddizione».
Io non la vedo. Anzi, molte persone sono allo stesso tempo militanti antirazzisti e ferventi difensori della laicità, e le loro radici risalgono alla filosofia dei Lumi.
«Beh, sulla filosofia dei Lumi possiamo anche tracciare una croce: finita. Vuole un esempio calzante? La candidata col velo nella lista Besancenot, di estrema sinistra. Ma non sono soltanto i musulmani a trovarsi in una situazione di alienazione di questo tipo: a livello di quelli che in genere si chiamano valori, le persone di estrema destra hanno più cose in comune con i musulmani che con la sinistra. Tra un musulmano e un ateo c’è più opposizione innata che tra un musulmano e un cattolico. Mi sembra evidente».
Lei dice che nel suo libro non c’è una contrapposizione razziale, ma certamente ce n’è una religiosa: la religione cattolica è sostituita dall’Islam.
«È in atto un processo di distruzione della filosofia nata dal secolo dei Lumi, che non ha più senso per nessuno, o lo ha per pochissime persone. Il cattolicesimo, invece, pare che oggi sia abbastanza in forma. Io sostengo effettivamente che un’intesa tra cattolici e musulmani è possibile. Lo abbiamo già visto. E può ripetersi».
Lei, che è agnostico, vede di buon occhio questa distruzione della filosofia nata dall’Illuminismo?
«Sì. Doveva succedere e tanto vale che succeda adesso. Su questo punto torno a essere kantiano. Eravamo in quella che egli chiamava la fase metafisica, iniziata nel Medio Evo e che aveva come unico scopo la disintegrazione della fase precedente. Di per sé, essa non può produrre nulla, se non il nulla e il dolore. Quindi sì, sono contrario a questa filosofia nata dall’Illuminismo, occorre dirlo chiaramente, senza mezzi termini».
Con questo romanzo lei prende un ruolo da Cassandra: ne parla anche nel testo...
«Ma non si può definire “Sottomissione” una predizione pessimista. In fin dei conti le cose non vanno poi così male...».
Forse non per gli uomini, ma per le donne...
«Ah, quello è un altro problema...».
Comunque il libro è davvero triste.
«Sì, c’è una tristezza sottintesa, fortissima. A mio parere l’ambiguità culmina nell’ultima frase: “Non avrò nulla da rimpiangere”, quando in realtà si ha l’impressione che sia vero il contrario».