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 2015  gennaio 09 Venerdì calendario

SBARDELLA, IL NONNO DELLA CUPOLONA


ROMA. Dalle Olimpiadi reali del 1960 a quelle virtuali del 2024 c’è di mezzo un fantasma. Dopo l’inchiesta della Procura su Mafia Capitale, Roma si candida ugualmente ai grandi giochi. Ma uno spettro si aggira per la Città Eterna. «Sbardella? Ma Sbardella chi?». Nel film Il Divo del premio Oscar Paolo Sorrentino c’era un personaggio da Oscar. Con tutto il rispetto, non era Andreotti, pur protagonista della pellicola. E non era il resto del suo cerchio magico, i cui sistemi di potere sono tramontati. No. Il vero premio Oscar era una figura solo in apparenza secondaria. Si chiamava Vittorio Sbardella. Il suo mondo, al contrario di quello dei sodali di allora, è ritornato al futuro.
Sbardella, con il sigaro, la faccia da boss, il sorriso da squalo, è diventato suo malgrado una metafora. Rimossa e sempre risorgente. Lui, nel dolore di un cancro che lo ha devastato, aveva deciso di sparire. «Dio perdonerà i miei peccati, in fondo è il suo mestiere» si era congedato. E invece, i nodi che ha lasciato sono sul terreno. È stato lui il primo, in largo anticipo sul sindaco Alemanno, a sdoganare gli ex fascisti, coniugandoli con la politica vera e con gli affari. Lui per primo si è alleato con coop rosse ed ex comunisti, ha infiltrato doppiogiochisti alla Odevaine nei posti di potere, ha teorizzato il «governissimo» come formula per gestire affari e istituzioni. E ancora, ha perfezionare l’idea di quei consorzi pluripartitici che hanno tuttora il monopolio di ogni opera, dalla progettazione alla consegna. Non sembra l’inchiesta Terra di Mezzo del procuratore Pignatone?
Non vedo, non sento, non parlo. Grazie a un costume largamente diffuso, i suoi anni ruggenti sembrano soltanto ieri. Sbardella seppe portare al limite il già cinico concetto andreottiano del potere. Zero colori, zero ideologie, zero bandiere. Cento per cento Borgia. Conobbe personalmente molti degli indagati di oggi. Ex borgataro, era cresciuto nelle stesse strade. Ex pugilatore, aveva combattuto con i loro padri nello stesso ring al Prenestino. Ex squadrista, aveva preparato molotov e spranghe con i loro futuri «comandanti». Poi, da politico, li ha ricevuti, consigliati, finanziati. E anche se guardiamo al di fuori dell’inchiesta, tanti sbardelliani sono ancora in sella: il suo ex autista è consigliere regionale Pd, l’ex braccio destro è eurodeputato, uno dei suoi parlamentari più fedeli ha difeso in piazza la polizia nel caso Aldrovandi. E la lista potrebbe continuare. Con il figlio Pietro, per esempio, eletto in Regione. Ha detto di se stesso: «Da giovanissimo ero sbardelliano, ovviamente».
I soldi piovevano dal cielo. Letteralmente. Pacchi di soldi. Tanti ne volarono da una finestra di via Tiepolo, zona bene del Flaminio, autunno del ’90. Esattamente 103 milioni. Li gettò una signora che disse: «È denaro sporco. Lo porta a casa tutte le sere mio marito, consigliere alla Asl». L’uomo, ex segretario di sezione del Msi, in passato era finito nel mirino dei Nar di Massimo Carminati per una faida. Ora l’uomo militava nella Dc di Sbardella. Lui lo difese: «È un bravo ragazzo». Ma era l’inizio della fine. I salotti romani ne rimasero cinicamente impressionati. Da quello in rampa Mignanelli, con vista su Trinità dei Monti, di Maria Angiolillo, vedova dell’editore del Tempo, a quello del Gianicolo di Sandra Carraro, moglie dell’ex sindaco Franco, da quello di Melania Rizzoli ai Parioli a quello di Sandra Verusio sull’Appia antica.
Eppure, quando Sbardella morì, nel settembre del ’94, i frequentatori dei salotti non vollero mancare, al funerale in Santa Maria del Popolo. C’erano i Battistoni, il gioielliere Capuano, Vincenzo Malagò, Gaetano Rebecchini, Gianpaolo Cresci, Giancarlo Rossi. E c’erano tanti della vecchia Dc: Andreotti e Colombo, Bodrato e Casini, i ciellini Formigoni e Sanese, Marino, Gasbarra (ex braccio destro, oggi nel Pd), Cursi, Salatto. Accanto a loro, sfilò la Roma stracciona. Barbara Palombelli, moglie dell’ex sindaco Rutelli, scrisse: «La Roma che corre a salutare Sbardella è un mix più misterioso della formula della Coca Cola». Facile liquidarselo come la belva, come fece Giampaolo Pansa dopo averlo adocchiato col binocolo, nella bolgia del diciottesimo congresso della Dc, che fece fuori De Mita, elesse Forlani segretario e dette vita al Caf (il patto Craxi, Andreotti, Forlani) che fu il canto del cigno della Prima Repubblica. Facile bollarlo come squalo o mostro, come fece Indro Montanelli, quando nell’agosto del ’92 ne fece inserire la foto nella sua rubrica Controcorrente, per renderne palesi i tratti lombrosiani. Mani Pulite stava spazzando la partitocrazia corrotta e Sbardella era diventato il temuto minotauro da sacrificare.
Eppure, di Sbardella, non si è mai smesso di parlare. Ne parla ancora Carminati, in una intercettazione su Tor Vergata, l’ateneo la cui prima pietra fu un edificio di proprietà di Enrico Nicoletti, il cassiere della banda della Magliana. Carminati attribuisce a Sbardella il merito dell’affare. Seguirono il primo maxiconsorzio per prolungare la metropolitana e l’avvio di un cartello di imprese per la costruzione di Tor Bella Monaca, quartiere sorto nei 180 ettari del conte Romolo Vaselli, proprietario dal nulla di 30 mila appartamenti, il cui nipote Romoletto era in affari con l’ex sindaco mafioso di Palermo Ciancimino. Di Sbardella parla oggi anche Goffredo Bettini. L’europarlamentare del Pd, motore dell’elezione di tre sindaci (Rutelli, Veltroni, Marino), alla festa in piazza Farnese per lo storico risultato ottenuto dal partito renziano alle Europee, ha rinfacciato al segretario regionale, Fabio Melilli, di avergli fatto mancare voti in favore dell’ex braccio destro di Sbardella, Enrico Gasbarra, anche lui candidato, ex presidente della Provincia, vicesindaco con Rutelli e Veltroni, parlamentare nel 2013. Bettini ha urlato a Melilli: «Ho fatto dimettere Sbardella, pensa se ho paura di te».
Una ossessione, quella di Bettini per Sbardella. Al punto che Luigi Cancrini, psichiatra di professione, tentò di spiegargliene i motivi inconsci in una missiva. Sarà Bettini, anni dopo, a rivelare l’episodio: «Penso di aver letteralmente demonizzato Sbardella. Era un uomo spietato e pragmatico nella gestione del potere. Ma in seguito ne ho costruito un profilo più equilibrato. Di un dirigente notevolmente intelligente e spesso leale con i suoi collaboratori. Era alla ricerca continua di risorse, che andavano a finire nelle casse del partito o della corrente e non nei suoi conti personali». Oggi, al contrario, Bettini sostiene che la Roma attuale è più ammalata.
Altro che squalo. Nel 2015 c’è di peggio che la belva? Ma forse quello di Bettini era l’onore delle armi all’antico nemico. Il vecchio film che mostrava il giovane Sbardella in camicia verde e cravatta nera, tanica di benzina in mano, prendere d’assalto la storica sede del Pci di Botteghe Oscure si era ormai sgranato quasi quanto il ricordo di Salò. Portandosi via tutto il passato. Era il 9 marzo del 1955. Il futuro squalo era alla guida degli squadristi di Giulio Caradonna. A difendere il Bottegone c’erano Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli e Sandro Curzi. A uno dei camerati, Mario Gionfrida, detto er gatto, saltò una mano per l’esplosione di una bomba.
A rievocare l’episodio, anni dopo, fu un altro pezzo grosso della destra capitolina, Domenico Gramazio, detto er pinguino, anche lui con un figlio in politica (Nicola, ex An, capogruppo di Forza Italia in Regione) e più volte citato nell’inchiesta (ma non indagato) per i colloqui intercettati con Carminati. Quando nel ’96 la Lega varò le ronde in camicia verde, Gramazio (famoso per aver festeggiato in Senato la caduta di Prodi con spumante e mortadella) si adontò, ricordando che quella divisa era comparsa per la prima volta nel 1953, ai funerali del gerarca Rodolfo Graziani, e che poi era stato Sbardella a vestirla, durante l’assalto al Bottegone. Corsi e ricorsi di uno squadrismo che, più della nostalgia per il Ventennio, ha amato le insegne di morte e l’iconografia del sangue dei reduci della Repubblica sociale.
A salvare Sbardella dagli anni di piombo fu l’incontro con Amerigo Petrucci, sindaco e numero due di Andreotti a Roma. Vittorio ne diventa il fedelissimo («Vittò, nun se famo conosce subito», gli dirà spesso Petrucci) e leggenda vuole che, in punto di morte, Petrucci gli consegnasse le chiavi della corrente, tesoretto compreso. Così divenne Pompeo Magno. Rastrellò 127 mila voti all’esordio in Parlamento e aprì l’ufficio nell’omonima via del quartiere Prati. Il soprannome rivelava uno stile. Sbardella riceveva tutti. E tutti aiutava. A costo di metterci del suo. I vecchi comunisti ne erano sconvolti. Sostituiva ad un tempo la solidarietà di partito, la generosità parrocchiale, il welfare statale. In pochi compresero che l’uomo stava cambiando il codice genetico della politica. Aveva portato dentro le istituzioni lo squadrismo corsaro, come se dovesse sempre assalire le Botteghe Oscure. Anticipò persino Grillo, trasformando un congresso della Dc in un vaffaday.
Ciriaco De Mita era insieme segretario del partito e presidente del consiglio. Un potere smisurato. Aveva in mano la Dc. Tranne a Roma. Qui lo scudocrociato era commissariato. Si trattava di celebrare un regolare congresso, per mettere al comando un demitiano, Francesco D’Onofrio. L’esito era scontato. Persino Andreotti era d’accordo. A presiedere le assise aveva inviato come garante il fedelissimo Franco Evangelisti. C’era silenzio, quel giorno, all’Eur. Fino al suo ingresso. Quando entrò Sbardella, un uragano da stadio investì il palazzo. E quando prese la parola, disse nel suo abituale falsetto: «Caro D’Onofrio, io oggi non sfodero le colt, perché tu sei un coniglio». Un singolo fischio venne tacitato a botte. Dal palco dovette ordinare ai suoi di fermarsi. Evangelisti ebbe un malore. De Mita non conquistò mai Roma.
La capitale divenne sbardelliana. L’uomo era tanto forte da rompere con Andreotti e imporre il suo sindaco, Pietro Giubilo, detto er monaco. In Campidoglio si cominciò a parlare di esoterismo, Ezra Pound e Mircea Eliade. Ma lui non venne meno a un dovere: aiutare Comunione e liberazione, il movimento fondato da don Giussani. Cl si aggiudicò le mense scolastiche, al termine di una contestatissima gara. Sbardella divenne anche il finanziatore del settimanale ciellino Il Sabato. In seguito gli subentrerà l’imprenditore Franco Caltagirone, titolare della Vianini. In quegli anni Caltagirone finanzierà anche il vecchio Paese Sera, di area comunista. Si inaugurò così, in era sbardelliana, la moderna versione della politica dei due forni. Ma l’incontro tra Sbardella e Cl non si limiterà a questo. Don Giacomo Tantardini, l’influente confessore dei ciellini romani, grande studioso di Sant’Agostino, scomparso nel 2012, ai funerali dello storico Augusto Del Noce, si spenderà perché Sbardella e Andreotti firmino la pace. Sarà lui a suggerire a Sbardella l’idea di un governissimo tra Pci e Dc, che Pompeo Magno sperimentò a Roma nel primo municipio, con alla guida Enrico Gasbarra. Il finale della storia avrà dell’inquietante. Nel ’92 Andreotti concorreva alla carica di presidente della Repubblica, in pieno ciclone Mani Pulite. Tre giorni prima della strage di Capaci, l’agenzia di stampa Repubblica, diretta dal giornalista vicino a Sbardella Lando Dell’Amico, annunciò un «colpo grosso», in relazione alla nomina del nuovo capo dello Stato. E l’indomani rincarò la dose, parlando di «strategia della tensione che piazzerà un bel botto esterno». Falcone saltò in aria. Andreotti non venne mai eletto.
Piero Melati