Antonio Gnoli, il Venerdì 9/1/2015, 9 gennaio 2015
DIALOGO – [L’ITALIA, LA STAMPA, VERITÀ E BUGIE]
[Umberto Eco ed Eugenio Scalfari]
ROMA. L’Italia contemporanea vista e raccontata da Umberto Eco nel suo nuovo romanzo: Numero zero (edito da Bompiani). Poco più di duecento pagine per descrivere gli aspetti inquietanti e i riti misteriosi del potere: le stragi quasi sempre rimaste inspiegate; i morti, spesso eccellenti, senza un colpevole; i furti, la corruzione e la politica sempre più affaristica e sporca. C’è anche una data emblematica: 1992. La ricordate, no? Sembrava che l’Italia dovesse finalmente cambiare. E invece peggiorò soltanto. Sullo sfondo di questa vicenda si staglia la nascita di un giornale. A dirigerlo un personaggio cinico, opportunista e ammanicato con il peggior potere, quello «che vuole entrare nel salotto buono della finanza, delle banche e magari dei grandi giornali». Nel gergo giornalistico numero zero è la simulazione di un quotidiano prima che vada in edicola. E visti gli argomenti, i due piani della vicenda che si intersecano, ci sembrava naturale porre a confronto Umberto Eco ed Eugenio Scalfari.
Che impressione hai ricavato dalla lettura del libro di Eco?
Scalfari. Premetto che a me il romanzo è piaciuto. Ho gradito l’intreccio tra storia italiana e giornalismo, sul quale più volte mi è capitato di riflettere. Ma leggendo mi sono chiesto, preliminarmente, cosa ci fosse nella testa del romanziere Eco. Non il saggista. Ma lo scrittore di romanzi. Qui ho l’impressione che, in qualche modo, Umberto si trasformi.
Come un dottor Jekyll e Mr. Hyde?
Scalfari. Come uno scrittore che deforma la realtà. Tu prima ricordavi i due piani: quello del romanzo con la sua storia, i suoi personaggi, che possiamo indicare, e l’Italia che è quella che è. La conosciamo, no? Con tutti i guai che la affliggono e che non sono solo il frutto della responsabilità delle singole persone, ma soprattutto del modo in cui questo Paese è stato costruito nel tempo. Quando alludo alla deformazione intendo la capacità espressionistica con cui Umberto descrive certi caratteri e certe situazioni. È come se la realtà, ai suoi occhi, non fosse più narrabile in modo lineare e piano.
Eco. Ogni narratore, a suo modo, deforma ciò che descrive. Anche Flaubert ha deformato la provincia francese. Nei miei romanzi mi è capitato di premere il pedale del grottesco. Il pendolo di Foucault è la rappresentazione grottesca degli occultisti e di quel mondo di visionari che crede che la storia sia il frutto di congiure segrete. Se vuoi anche nel Cimitero di Praga c’è una deformazione grottesca seppure tragica, visto che la sindrome del complotto qui si interseca con l’antisemitismo. In questo nuovo romanzo ho dato certamente una rappresentazione grottesca di un giornale. Non è la foto fedele del giornalismo in generale. È un giornale come l’ho immaginato io. Quando Flaubert, per restare a Madame Bovary, descrive Homais non vuole dire che tutti i farmacisti sono come lui. Però Homais è un farmacista.
Scalfari richiamava anche il Paese con la sua storia complicata, segnata dagli attentati, e dal fatto che non si riesce mai ad ottenere un grado di verità accettabile.
Eco. Ho scelto una data, il 1992, attorno alla quale si svolgono alcuni eventi della politica italiana. Il romanzo va anche indietro, sino alla fine del fascismo, e abbraccia così un pezzo significativo della storia italiana del Novecento. Però non è che volessi fare un surrogato manualistico. Tanto è vero che gli eventi li ho messi in bocca a un personaggio paranoico. E a questo punto mi è successa una cosa abbastanza curiosa. Sapevo perfettamente che tutto quello che racconta Braggadocio, il paranoico al quale alludevo, è vero. Sono veri i fatti di piazza Fontana e piazza della Loggia, è vero tutto quello che è accaduto tra gli anni Sessanta e il 1992. Tu, Eugenio, parlavi di ritratto deformato di un Paese, ma in questo Paese sono successe le cose più incredibili: attentati, tentativi di colpi di Stato, avvelenamenti. E la cosa più sorprendente è che la gente ha lasciato che tutto questo accadesse come se niente fosse. Tutto sembra confluire sul 1992, dopo di che sarebbe iniziato il ventennio del grande sonno.
Qual è la cosa curiosa che ti è accaduta?
Eco. È che di tutto questo mi sono reso conto solo raccontandolo. Molte volte in un romanzo i personaggi ti obbligano a far fare loro delle cose che tu non pensavi di volergli far fare. Tu gli dai una piccola testa e poi loro vanno per conto proprio, pensano in maniera indipendente da te. Il libro è sempre più intelligente del suo autore. Scrivendo tu non sai in che direzione stai andando. Il romanzo ci va. Quindi il ritratto del Paese all’inizio non era nelle mie intenzioni. Me lo sono ritrovato, lo hanno costruito i miei personaggi.
Che cosa è che ci rende così diversi dal resto del mondo?
Scalfari. Ti risponderò tra un attimo. Ma prima consentimi una deviazione che mi nasce dall’ultima considerazione di Umberto, dove si scorge il brillante semiologo. Quando dice che i personaggi si rendono autonomi dal loro autore mi viene subito in mente Lector in fabula. In quel libro della fine degli anni Settanta tu, Umberto, cercavi di mostrare come un romanzo si componga di meccanismi che si generano da sé. Dove l’intervento esterno, quello dell’autore appunto, finisce in secondo piano. Tutto questo cosa dimostra? Che la letteratura ha il potere di renderci consapevoli di cosa accade nella realtà? Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Quanto al Paese, due cose preciserei. La prima è che qui da noi non è mai stato possibile creare un ricambio politico vero. Questo è un Paese, come è stato osservato, prevalentemente di centro e di destra. Dove la sinistra è sempre stata minoritaria. La seconda è che fin dalle origini ancor prima dell’unità d’Italia si è avuto un atteggiamento ostile nei riguardi dello Stato. Lo si è vissuto, in massima parte, come una forma indebita di occupazione. È toccato al Piemonte dar vita a quella unità. Ma con quali risultati? Con quale sentimento verso le istituzioni che ne sono conseguite? Alla fine è prevalsa una forma di indifferenza.
Eco. Franza o Spagna purché se magna.
Tornerei al romanzo dando qualche dettaglio ulteriore al lettore. Una redazione raccogliticcia di un giornale si specializza nel ricatto. Apprende come si crea e si mette in moto la cosiddetta «macchina del fango». Se c’è un’accusa, come dice il direttore Simei, basta delegittimare l’accusatore. Nella redazione spicca la figura di Braggadocio, il paranoico, ci ricordava prima Eco, che rilegge tutta la storia italiana alla luce di un’ipotesi piuttosto bizzarra: Mussolini non è stato fucilato a Dongo, ma ha continuato ad agire nell’ombra. E ad essere l’origine di tutti i misteri italiani.
Eco. A proposito di Mussolini sono partito da un dato reale. Il Duce scappa da Milano e va verso Como, dove ad attenderlo c’è la sua famiglia. Lui non vuole incontrarla. E mi sono chiesto perché? A quel punto ho scatenato la fantasia malata di Braggadocio, di un complottardo. Non sono io che racconto questa storia, ma un mio personaggio, il quale immagina che persino la morte misteriosa di papa Luciani dipenda dal fatto che il Duce non è morto fucilato.
E Braggadocio, che ha raccolto alcuni elementi, pensa di ricavarci una storia che sarà lo scoop della sua vita.
Scalfari. Ma il giornale del commendator Vimercate non vedrà mai la luce. A questo proposito trovo interessante che tu abbia voluto dare un’immagine del giornalismo così deprezzata. Potrei quasi dire che i tuoi personaggi ti abbiano letto nella mente.
Eco. Il mio giornale è come un quadro di Arcimboldo. Si compone con una pera, una banana, una pesca, un melograno, un pomodoro. Cioè, fuori dalla metafora ortofrutticola, tutti gli elementi che fanno parte di alcuni aspetti del giornalismo italiano. E allora che cosa si nota? Vedi spuntare varie tecniche: la tecnica del fango, del tritacarne, della smentita. Poi, naturalmente, ho messo tutti questi elementi insieme e il quadro grottesco che compare è un certo tipo di giornalismo. Dove c’è perfino uno nella redazione che lavora per i servizi segreti. Ma è possibile immaginare un giornale solo con queste caratteristiche e soprattutto perché si è giunti a tanto?
Eco. Di solito si dice che la colpa sia del giornalismo. Credo, invece, che sia una colpa attribuibile alla società mediatica nel suo insieme. Pensa all’America. Una volta se un presidente non piaceva fosse Lincoln o Kennedy succedeva che gli sparavano. Già con Nixon e poi con Clinton, si è visto che si può distruggere un presidente tirando fuori le intercettazioni oppure parlando di cosa ha fatto la sera, con chi è andato a letto. Tutta la nostra politica è ormai su questo piano. Il comandamento è: bisogna distruggere, delegittimare, sputtanare. E la stampa spesso corre dietro a queste cose.
Ti convince il ragionamento di Eco?
Scalfari. Mi convince e lo condivido. Noi lo abbiamo battezzato «circuito mediatico». Ma potremmo chiamarlo anche «circo» visto che tutto quello che vi accade sembra avere le caratteristiche di uno spettacolo, dove la gente è felice se l’acrobata si sfracella o il domatore viene sbranato dalle tigri. Mi ricordo ancora che, a un certo punto, Carlo Levi – l’autore di Cristo si è fermato a Eboli – ormai avanti negli anni, si mise in testa di fare un giornale. E lo raccontò alla sua compagna di allora. La quale si stupì molto e reagì dicendogli: che giornale vuoi fare? Tu non hai niente a che vedere con quel mondo lì. No, no, insistette Levi. Voglio fare un giornale perché mi sono stancato di fare il pittore e lo scrittore. E ho anche trovato il titolo: Le buone notizie. Poi, il giorno dopo, andò dal suo edicolante e, senza dirgli che era lui l’ideatore, gli chiese: un giornale così concepito che pubblichi solo buone notizie pensa che andrebbe esaurito? Non venderebbe neppure una copia e io non lo esporrei. La gente non vuole le buone notizie, vuole solo le cattive, concluse l’edicolante.
Eco. Questo apologo mi fa venire in mente che le nonne e i nonni leggono solo gli annunci funebri sui giornali.
La questione che pone Scalfari ha una sua radicalità: i media sono attratti dal male e dal gossip. Oscillano tra queste due esperienze.
Eco. Sì, solo che c’è stata un’esagerazione soprattutto sul piano del gossip. Non c’è quasi più discrimine con la vita privata. Quanto al «male» spesso viene amplificato grazie alle tecniche allarmistiche. Basta che i miei giornalisti costruiscano una pagina di notizie diverse, ma tutte sotto il segno della tragedia, perché si crei uno stato d’ansia nel lettore. Voglio dire che non è necessario dare notizie false, basta impaginare quelle vere in un certo modo perché si provochi tensione.
Scalfari. Il tuo circuito mediatico ho l’impressione sia alquanto perverso. Non so pensare ai giornali solo in questa prospettiva.
Eco. Sono d’accordo. Persino nei casi peggiori non credo che esista un giornale totalmente simile a quello del mio romanzo. Però credo che i difetti di questo giornale si distribuiscano con una certa equità e secondo certe proporzioni sui giornali esistenti. Per un verso, posso constatare che esistono giornali specializzati nella macchina del fango. Per un altro, so che i giornali perbene rifiutano questa tecnica, ma anch’essi quando smentiscono la smentita si comportano come i miei giornalisti.
Scalfari. Devi lasciare al lettore la possibilità di scegliere e questo è possibile solo se le testate si differenziano tra loro.
Eco. Questa speranza gliel’ho lasciata. Non viene meno, neppure davanti a questo pezzo di storia italiana.
Che a te, in modo particolare, affascina. Sei attratto dagli enigmi della storia, dai suoi sottofondi, dai misteri che la circondano. Al punto che mi verrebbe da pensare che il tuo nuovo romanzo è una variante del Pendolo di Foucault.
Eco. Ma sai, nel Pendolo sono tutte fantasie di allucinati. Mentre qui sono tutte cose vere rilette da un allucinato: la strage alla Banca dell’Agricoltura è vera, così quella dell’Italicus o di piazza della Loggia. Sono veri la P2 e Licio Gelli.
Scalfari. Il punto è proprio questo: è tutto vero, ma è come se fosse visto con una lente deformante.
Eco. Internet è piena di gente che rilegge i fatti storici in questa maniera.
Che cosa ti attrae di queste figure psichicamente contorte?
Eco. Il falso.
Cioè?
Eco. Ho sempre teorizzato che il segno è quella certa cosa che ci permette di mentire. Se ci servisse solo per dire: «il gatto è davanti alla stufa» o «Parigi è in Francia», finiremmo col parlare pochissimo. Il segno ci permette di inventare, di parlare di cose lontane, di mentire. Ma ci permette anche di dire il vero.
Eco. Certo, non puoi parlare di falso se non sai che c’è anche qualcosa di vero. Il falso mi ha sempre interessato, perché è un parametro per capire che c’è qualcosa che non è falso. È il problema della verità, che un filosofo non può non affrontare.
Scalfari. Questa tua attrazione per il falso è un po’ dentro a tutta la tua narrativa, ma anche nella saggistica, nei pastiche con cui ti divertivi in Diario minimo a mettere in scena i falsi.
La data 1992 è tutt’altro che falsa. È il segno che serve a dividere due Italie: una possibile, nuova, e una vecchia, corrotta e adusa a ogni compromesso.
Scalfari. È appena accaduto il fatto di Mario Chiesa e del Pio Albergo Trivulzio. Si annuncia un’inchiesta sul mariuolo di cui in quel momento si ignorano le proporzioni. Gli effetti. E l’origine di Tangentopoli, che terremota la vita politica e distrugge i grandi partiti e in parte lo stesso Pci. Poi c’è la discesa in campo di quel signore che possiede televisioni e giornali. Prima fa finta di appoggiare i giudici contro Tangentopoli, poi nel 1994 viene eletto. Conquista il potere. Ne ha bisogno perché sa che si stanno aprendo molte istruttorie su di lui. A quel punto inizia la sua guerra privata contro i giudici. Si entra nel ventennio del sogno e del sonno. Conclusione? Siamo un Paese che non è mai riuscito a portare a termine una rivoluzione.
Eco. Il golpe interruptus.
Tu hai fondato e diretto sia L’Espresso che Repubblica. Che effetto ti ha fatto leggere le considerazioni di Eco sul giornalismo?
Scalfari. Quelle pagine del romanzo mi hanno fatto riflettere. Mi sono chiesto fino a che punto noi abbiamo tradito la verità. Umberto parlava prima del rapporto che intercorre tra il falso e il vero. Proverei a dirlo il maniera diversa. Cos’è che rende differenti Leopardi nichilista da Nietzsche, anche lui nichilista? Leopardi pensa che il nulla sia la condizione stessa nella quale viviamo. Leggi quella poesia straordinaria A se stesso. Ci mostra la fine delle illusioni: «la vita, altro mai nulla», scrive. È la sua filosofia. Nietzsche invece pensa che il nichilismo, condizione nella quale lui e i suoi simili si trovano quando scrive, sia il terreno solido da cui spiccare un balzo. Verso dove? Verso il relativismo. Che cos’è allora la verità? Io so cos’è la mia di verità. E non la verità in assoluto.
I giornali dunque sono soggetti al relativismo?
Scalfari. È il loro Dna. All’Espresso – che realizzò soprattutto Arrigo Benedetti – ne eravamo consapevoli. So che un giornale – anche quello più fedele all’idea di verità – porta una sua versione dei fatti. Mi ricordo quando Lamberto Sechi – il primo direttore di Panorama – diceva che i fatti vanno separati dalle opinioni. È una balla. I fatti sono come li vede un giornalista. Sono già influenzati dal suo punto di vista, dalle sue opinioni.
Eco. Mi torna alla mente un’antica polemica che ebbi con Piero Ottone, anche lui convinto che i fatti si possono separare dalle opinioni. No, i giornali non separano quei due mondi. Nel mio giornale c’è, però, qualcosa di più. C’è il gioco della falsificazione dei fatti. Dell’occultamento. Ho raccontato il peggio.
Scalfari. C’è anche il morto. Devo dire che il finale mi è piaciuto particolarmente. Quando Colonna – che è il protagonista insieme a Braggadocio – si innamora di Maia e si sente dire da questa ragazza: adesso che tutto è finito e che abbiamo un po’ di soldi, andiamocene in qualche bella isola del centro America. Dove tutto è trasparente. Lì i Paesi sono senza misteri. E lui le risponde: aspettiamo ancora un po’, magari diventeremo come loro e anche noi avremo la corruzione autorizzata e il mafioso in Parlamento.
Eco. Alla storia d’amore non avevo pensato. È venuta fuori senza volerla. Tutto il romanzo ha un tono di involontarietà. È scritto da un ottantenne che prova qualche disagio nel vivere quel che accade. D’altro canto mi sentivo un po’ coinvolto dal disgusto che prende i miei personaggi. La palude nella quale affondano.
È l’Italia senza più speranza, quella che racconti. Di un popolo di pugnali e veleni.
Eco. Capisco che è poco consolatorio. D’altra parte anche Dostoevskij non lo era e non per questo lo butti nel cestino.
Scalfari. Hai raccontato questo Paese scegliendo la brevità.
Eco. Un fatto dietro l’altro, senza perdermi in deviazioni filosofiche. È un romanzo twitter. Non sono su facebook né su twitter, ma so cosa significa la rapidità.
Scalfari. Un romanzo in 140 battute. Che vuoi di più e di meglio?
Eco. Ci pensavo stamane. Si può raccontare in meno di dieci parole tutta la Divina Commedia: un viaggio nell’oltretomba tra inferno, purgatorio e paradiso. E, come direbbe Peppino De Filippo, hai detto tutto.
Antonio Gnoli