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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

LA MALEDIZIONE DELL’UNESCO


(note alla fine)

È straziante assistere all’agonia di tante città. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli e a volte per millenni erano sopravvissute alle peripezie della storia, a guerre, pestilenze, terremoti. E che ora una dopo l’altra avvizziscono, si svuotano, si riducono a fondali teatrali su cui si recita un’esangue pantomima. Ove un tempo ferveva la vita, e umani scorbutici e frettolosi si facevano largo a gomitate nel mondo e si calpestavano e spintonavano, ora fioriscono paninoteche, bancarelle ovunque uguali di prodotti tipici, di mussoline, batik, cotonine, parei e braccialetti. Quella che era una vicenda piena di grida, strepiti e furori, ora è tutta racchiusa in un prospetto d’agenzia di viaggio.
A decretarne la morte basta un verdetto, al termine di una trafila burocratica, emesso da un edificio parigino. L’edificio si trova a Place Fontenoy, nel settimo arrondissement. Questo verdetto è un label indelebile, un brand che, come dice il termine, ti marchia (a fuoco) per sempre.
Parlo dell’etichetta rilasciata dall’Unesco di «patrimonio dell’umanità» (in inglese World Heritage). Il tocco dell’Unesco è letale: dove appone il suo label, letteralmente la città muore. E sottoposta a tassidermia.
Questo vero e proprio urbanicidio non è perpetrato di proposito, anzi è commesso in perfetta buona volontà e buona fede, per preservare (appunto) un «patrimonio» dell’umanità. Ma come dice la parola, preservare vuol dire imbalsamare, o surgelare, risparmiare dall’usura e dalle cicatrici del tempo: vuol dire letteralmente fermare il tempo, fissarlo come in un’istantanea fotografica, sottrarlo quindi al cambiamento, al divenire.
Il dilemma urbanistico offerto dall’Unesco è ostico. Certo che vi sono beni che vanno tutelati e protetti, ma è anche vero che se nel 450 a.C. avessero protetto l’Acropoli di Atene come era allora, non avremmo né i Propilei, né il Partenone, né l’Eretteo. L’Unesco avrebbe starnazzato inorridito di fronte alla Roma del Cinquecento e del Seicento che ha prodotto quell’ammirabile pot-pourri di antichità, manierismo e barocco. Meno male che il Marais di Parigi non era stato dichiarato World Heritage, altrimenti il Beaubourg ce lo sognavamo.
Va trovato un equilibrio tra costruire e preservare. Noi volevamo vivere in città che includessero musei e opere d’arte, non in mausolei con annesso dormitorio: è condanna inumana spendere tutta la propria vita nella foresteria di uno sterminato museo. Sono tornato dopo trent’anni a San Gimignano: dentro le mura non c’è più un macellaio, un verduraio, un panettiere vero; d’altronde in centro, dopo l’ora di chiusura di bar, ristoranti e negozi di souvenir, non resta più a dormire nessun sangimignanese: abitano tutti nei moderni condomini fuori mura, vicino ai centri commerciali. Dentro le mura, tutto è diventato un unico set cinematografico di film medievale, in costume, con gli inevitabili prodotti di un’«invenzione della tradizione» a uso commerciale. Più piccola è la città, più rapido l’urbanicidio.
E non solo in Italia. In Laos Luang Prabang ha subito la stessa sorte e ormai il suo centro storico è un residence per turisti, le case tutte adibite ad alberghi e ristoranti, con il solito mercatino che vende – come ovunque nel mondo – collanine, borse di tela, cinture di cuoio: è paradossale che l’unintended consequence del voler mantenere l’unicità, l’irripetibilità di un sito, produce in realtà un «non luogo» sempre uguale a se stesso in tutti i siti Heritage della terra. Come per trovare i veri sangimignanesi devi uscire e allontanarti dalle mura medievali, così per trovare dove vivono davvero i laotiani di Luang Prabang, bisogna pedalare in bicicletta per un paio di chilometri su Photisalath Road, oltre la Phu Vao, per trovare la città vivente.
E se passeggiate a Porto in Portogallo, percepite subito l’invisibile frontiera dell’area dichiarata World Heritage: la variegata, eterogenea umanità che compone il tessuto urbano d’incanto cede il posto a una monotona monocultura di locandieri, tavernieri, camerieri in caccia di clienti riconoscibili dagli scarponcini da trekking indossati in città, gli orribili pantaloncini corti a scoprire gambe pelose (chissà perché gli umani in missione turistica si sentono legittimati a vestirsi come mai farebbero a casa?). Nel Regno Unito nulla è più stucchevole di Bath e di Edinburgh Old e New Town [1]. Né è un caso che Edinhurgh e Bath siano sedi di festival. Ospitare festival (o esposizioni) è la destinazione d’uso naturale di una città patrimonio dell’umanità: così Venezia ospita non solo il Festival del cinema, ma anche la Biennale di architettura, mentre Salisburgo (il cui centro storico fu dichiarato World Heritage nel 1996) era già sede del più prestigioso festival musicale; ed Avignone (il suo centro storico è World Heritage dal 1995) ospita il più importante festival teatrale; e si potrebbe aggiungere il Festival dei Due Mondi (teatro) di Spoleto in Umbria (la sua basilica di San Salvatore è World Heritage dal 2013) e Bayreuth in Baviera è sede del festival wagneriano (nella sua Margravial Opera House che è World Heritage dal 2012). Sedi di festival che diventano World Heritages perché sono già fondali teatrali di una realtà esangue, sono già nature morte pittoriche, e invece World Heritages che ospitano nuove manifestazioni teatrali o musicali per darsi una parvenza di vita.
Questo senso d’inanimazione addobbata di cartapesta pervade tutti i siti musealizzati. Nel Dodecanneso, nelPisola di Rodi, sia la città vecchia di Rodi che l’acropoli di Lindos sono World Heritages. Per come sono ridotte, per me potrebbero pure andare all’inferno. Di questo tipo di salvataggio non ce ne facciamo nulla, cura la malattia uccidendo il paziente. Salvare delle pietre non vuol dire salvare una città, una cultura urbana.
Da questo punto di vista è fuorviante il paragone tra World Heritages culturali e Parchi naturali. Mentre le riserve naturali sono fatte per moltiplicare la fauna e la flora che vi risiede, al contrario la fauna umana è costretta all’esodo dalle città patrimonio dell’umanità porcile diventa praticamente impossibile viverci, cioè compiere tutte quelle attività normalmente connesse al vivere (immaginate di dover installare servizi sanitari e un impianto di acqua corrente calda e fredda in un edificio medievale sottoposto alla tutela dell’Unesco). L’esempio più concreto della contrapposizione tra vita materiale e conservazione culturale ci viene dalla città di Dresda, «la Firenze della Germania» che nel 2004 era stata inserita, insieme alla circostante Valle dell’Elba, tra i paesaggi culturali patrimoni dell’umanità. C’era un problema: i bravi sassoni vogliono poter attraversare l’Elba senza ingorghi e hanno bisogno di un nuovo ponte, ma l’Unesco si oppone alla sua costruzione dicendo che deturpava il paesaggio. La decisione viene affidata a un referendum popolare: gli abitanti di Dresda approvano il ponte anche a rischio di perdere il label «World Heritage», che in effetti gli viene tolto nel 2009. Nell’agosto 2013 i cittadini festanti inaugurano il nuovo ponte.

Si potrebbe obiettare che 1) vi sono altri modi di uccidere le città: come mi scrive Perry Anderson, «non c’è un uguale e opposto pericolo per il caotico scompiglio della vita urbana che tu trascuri e cioè l’insensata avidità dei promotori nel demolire le strutture più vecchie per costruire orribili banche, casermoni di appartamenti, centri commerciali? L’Italia è il migliore esempio di quel che tu dici. Ma qualunque viaggio in Cina illustra l’altro flagello. In America Latina, la sola capitale che non è ancora stata bistrattata in questo modo è la decadente Avana (ma aspetta l’arrivo del capitale gusano da Miami e poi vedi), forse la parte coloniale di Quito e i beaux quartiers di Buenos Aires. A Rio Ipanema e Leblon fanno venire da piangere». La seconda obiezione è, ovviamente, che non è l’Unesco ad aver creato la città turistica, ma semmai è avvenuto il contrario. Certo che è difficile scegliere tra vivere in un museo o in una filiale di banca! Ma in realtà non è una scelta, è sempre la stessa salsa. L’ambiente in cui la corporate élite sogna la propria vita è fatto di enclave appartate in cui risiedere, di financial downtowns in cui fare denaro da un lato, e di Disneylands culturali con cui fare ancora più denaro dall’altro.
Il fatto è che la nostra idea d’industria (e quindi di finanza) è obsoleta: siamo soliti considerare che la «vera industria» è la miniera, la siderurgia, il cantiere navale, la fabbrica automobilistica, insomma, carbone, elettricità, acciaio, e vediamo il turismo come un fronzolo «postmoderno», «superstrutturale», contrapposto alla struttura «vera», all’economia reale.
In realtà l’industria più pesante, più importante, più generatrice di cash-flow del XXI secolo è proprio il turismo. Non solo il turismo stesso, ma tutti i campi connessi e correlati, a monte e a valle (sarebbe interessante impostare la matrice di Leontief [2] del turismo): senza turismo sarebbe molto meno rilevante l’industria automobilistica, come pure l’industria aeronautica e delle linee aeree (la quasi totalità degli aeroplani è costruita e vola solo per trasportare turisti), una parte della cantieristica navale (navi da crociera), una fetta rilevante dell’edilizia (costruzione di alberghi e residenze secondarie), senza contare l’incentivo turistico alla costruzione di autostrade, superstrade, e ovviamente l’industria alberghiera e ristoratrice eccetera. Già ora il turismo è la prima fonte di reddito per la città di New York, che pure è la capitale finanziaria mondiale.
La rivoluzione turistica è l’eredità più duratura del boom economico post seconda guerra mondiale. La rivoluzione ebbe inizio negli anni Cinquanta, ma accelerò e acquistò un momento irresistibile negli anni Sessanta e Settanta. Un solo esempio: «Nel 1951 la Grecia fu visitata solo da 50 mila turisti; dieci anni dopo erano divenuti mezzo milione; nel 1981 erano 5,5 milioni» [3] e nel 2007 (ultimo anno prima della crisi) erano 18,8 milioni.
Perciò non è un caso se il label «World Heritage» fu una creazione degli anni Settanta: fu nel 1972 che, dopo parecchi anni di discussione, la Conferenza generale dell’Unesco adottò la «Convention concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage» che a tutt’oggi è stata ratificata da 190 paesi: nel 1976 fu creato il World Heritage Commettee che due anni dopo, nel 1978 identificò il primo sito «patrimonio dell’umanità». Quindi quest’etichetta fu «lanciata» all’apice della rivoluzione turistica mondiale, come sua incoronazione e nello stesso tempo sua promozione.
Il label dell’Unesco permette infatti all’industria turistica d’incassare il valore di mercato dell’autentico, come avviene per le griffe della haute couture o per i grand crus DOC (e infatti i produttori di Borgogna stanno cercando di ottenere per i propri vini il label «World Heritage» [4]). Uso il concetto di autenticità nel senso discusso da Theodor Adorno [5]: in quanto «cultura di massa», il turismo è strettamente correlato con le idee della Scuola di Francoforte. Un brillante studioso americano, Dean McCannell, autore di uno dei saggi più profondi sul turismo che io abbia letto, obiettava a Walter Benjamin che l’aura dell’originale si manifesta solo quando appaiono le copie, non prima: è la replicazione tecnica che conferisce l’aura. In questo senso la funzione dell’Unesco non è altra che quella di provvedere un «certificato di aura» [6]. Quindi il problema non è se la paccottiglia preesistesse al label, è che dove c’è paccottiglia, un giorno o l’altro ci sarà label e dove c’è label inevitabilmente fiorirà il ciarpame.
Naturalmente l’etichetta Unesco non è causa del turismo, ma è il suo certificato di legittimità (e di garanzia). E la sua copertura ideologica in quanto istituzione preservazionista a fin di bene. Entriamo qui nello spazio della filosofia scolastica medievale, nel problema degli universalia, nella relazione tra i nomi e le cose. Certo che il nome, l’etichetta non è la cosa, ma, come dice John Langshaw Austin [7], le parole hanno un potere performativo e un certificato è uno strumento potentissimo (pensate al potere di un Ph.D.). Turismo ed etichetta World Heritage costituiscono insieme un meccanismo di retroazione (feedback), ognuno rinforza l’azione dell’altro. Il label «World Heritage» conferisce al turismo i suoi titoli di nobiltà, potresti chiamarlo la «nobiltà di toga» del turismo, equivalente di quel che quella nobilità fu per la borghesia francese nel XVIII secolo. O, se si vuole metterla in altri termini, il World Heritage è la componente hegelianamente «anima bella» (shöne Seele) dell’industria turistica, che conferisce buona coscienza e consente di accettare le devastazioni turistiche in nome del salvataggio.
Perciò non c’è mai stata un’antitesi preservazione contro finanza, cultura contro turismo. Non c’è e non c’è mai stato uno scontro titanico tra il perfido, spregiudicato operatore turistico che guida ombrellino in resta la carica delle barbare orde turiste alla distruzione delle antiche vestigia, e l’illuminato, minoritario, eroico salvataggio degli inestimabili tesori del nostro passato. Ma, al contrario, c’è legittimazione culturale dell’industria turistica nel promuovere la conservazione proprio di quei siti che il turismo sta distruggendo, rendendoli solo meri parchi a tema. L’etichetta ha aperto all’industria turistica una nuova meravigliosa, sconfinata terra di conquista: perché costruire nuove Disneylands quando disponi di una caterva di vere città viventi che aspettano (anzi chiedono disperatamente) di diventare parchi a tema, col semplice mummificarsi, e quindi svuotarsi?
Se appare qualche contraddizione marginale tra «preservazionisti» e «turism-isti», è solo una divergenza sull’orizzonte temporale, sul profitto più a lungo termine o sull’investimento più a breve termine. Dobbiamo sempre tenere a mente la lezione di Pierre Bourdieu sul ruolo del capitale culturale come sub-frazione dominata della frazione dominante: il capitale culturale combatte in continuazione per ottenere una maggiore autonomia, un più ampio spazio di autodeterminazione dal capitale economico e finanziario, ma senza mai dimenticare che è proprio al capitale economico che in ultima istanza esso deve il proprio potere sulle frazioni dominate della società: è una lotta tra dominanti, che non mette mai in discussione i limiti e il potere del dominio.
Per i mercati finanziari il turismo è il bancomat più inesauribile: è dal denaro turistico che gli speculatori incassano la liquidità che investono senza sosta con algoritmi ultrarapidi nei grattacieli di vetro e acciaio dei distretti finanziari. Come la perfetta settimana per un corporate manager è occupata da frenetiche transazioni di azioni nei giorni lavorativi, seguite durante il week-end dalla lettura di articoli sulla metafisica della luce o sulla mistica della Cabala nei supplementi culturali del Financial Times o del Sole-24 Ore, così, nello stesso modo, il mondo perfetto per la «corporate utopia» è fatto di financial downtowns e di città-museo-world-heritage: ambedue si svuotano al tramonto, ambedue sono essenzialmente inanimate.
Ma se funziona come diploma ideologico dell’industria alberghiera, se esibisce il volto dotto e umanitario della planetaria macchina turistica, il label «World Heritage» presenta altre aggravanti. La prima è quel che potremmo chiamare «integralismo cronologico», o «fondamentalismo temporale», per cui è più meritevole di conservazione ciò che risale a un tempo anteriore. Perché di mille anni precedente, lo scavo di un muretto di epoca romana giustifica la manomissione di un magnifico chiostro medievale (come è avvenuto nella cattedrale di Lisbona). La seconda aggravante è di ordine filosofico generale: poiché l’Unesco moltiplica i «patrimoni dell’umanità» e poiché l’umanità continua a produrre opere d’arte (si spera), se dopo tremila anni già siamo immobilizzati da tanti «retaggi», cosa accadrà tra mille, duemila anni? Andremo a vivere tutti sulla luna e compreremo biglietti per una visita sul pianeta patrimonio dell’umanità? Che senso ha? Che rapporto instauriamo tra passato e presente? È ovvio che il presente produce mostri, li ha sempre prodotti (si diceva lo stesso della Roma barocca: quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini), ma siccome il passato è stato almeno a un momento un presente, anche il passato ha prodotto mostri e, come si sa, il tempo non è gentiluomo: ha conservato un sacco di cazzate di letteratura classica e ha fatto scomparire chissà quanti capolavori, ci ha privato di tutta la pittura greca, di quasi tutte le statue equestri bronzee antiche...
Mi ricorda tanto la querelle des anciens et des modernes, quando infine Fontenelle ebbe il coraggio di pensare che les anciens avaient été modernes a leur temps e che noi siamo solo moderni che veniamo dopo e che i nostri moderni (forse) orrori di oggi non sono peggio degli orrori moderni degli antichi. Quando immagino a come dovessero essere i templi greci con i compatti tetti di legno, le colonne e i frontespizi pittati di rosso e di azzurro, diventavano pesantissimi, tozzi, dozzinali, pacchiani, altro che l’estetica solare, roba da casermoni popolari. Chi ci dice che tra duemila anni i nostri malls non verranno disquisiti come capolavori architettonici? In fondo è quel che già avviene nei libri di storia dell’arte con i magazzini portuali di Ostia antica. Senza andare tanto lontano: oggi la skyline di Parigi sarebbe impensabile senza la Tour Eiffel: ma ricordiamo quante gliene dissero al povero ingegnere Eiffel, quando la torre fu costruita per l’Esposizione universale del 1889 – che era un orrore, che deturpava il paesaggio, che era una ferita mortale alla città...
Se uno si mette in un’ottica «preservazionista», tutto diventa degno di essere conservato, come quelle persone che non riescono mai a buttare nulla e cercano di conservare tutto, con il senso che se gettano, qualcosa «andrà perduto per sempre». Così non c’è limite all’attività notarile (di censimento dell’eredità) dell’Unesco. Se il primo sito «World Heritage» è del 1978, oggi, dopo 38 sessioni ordinarie e 10 straordinarie, nel 2014 l’Unesco ha definito 1.007 siti in 161 paesi. Di questi «patrimoni dell’umanità», 779 sono culturali, 197 naturali e 31 misti.
Nei 779 patrimoni culturali sono incluse 254 città (intere, o in parte, solo un quartiere o il centro storico). La maggioranza assoluta (138) di queste «città d’arte» è situata in Europa. A sua volta, quasi la metà delle città d’arte europee si trova in quattro soli paesi: Italia (29 città d’arte compresa Città del Vaticano e Repubblica di San Marino), Spagna (17) Francia e Germania (11 ciascuna). Vista anche la sua superficie abbastanza ridotta, l’Italia è il paese al mondo a più alta densità di «patrimoni dell’umanità».
Viene in mente la conclusione del manifesto futurista pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti sul Figaro del 20 febbraio 1909: «Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri».
Pur con una certa simpatia per la sua insofferenza verso cimiteri e rigattieri, sono in disaccordo con Marinetti sia perché non condivido la sua cieca fede nel futuro, e se quindi dovessi definire la mia posizione, la chiamerei «presentismo», non certo «futurismo», sia perché non ho nulla contro molte delle «fetide» categorie da cui Marinetti voleva liberare l’Italia, «professori, archeologi, ciceroni e antiquaria. In realtà non ho nulla neanche contro i musei. Solo mi oppongo a che il museo sia la categoria universale che, per dirla con Kant, sussume (subsume) tutta la vita di un paese, di una società, di una città.
Il problema è che dal Manifesto futurista è passato più di un secolo e la musealizzazione continua a fagocitare le nostre città: infatti la marchiatura «World Heritage» non ha sosta. Uno direbbe che ormai quel che c’era da dichiarare «patrimonio» in un paese così pieno di storia come l’Italia, doveva essere già stato marchiato. E invece no: procedendo per decenni, negli anni Settanta in Italia un solo sito era stato dichiarato patrimonio dell’umanità; negli anni Ottanta se ne aggiunsero 5; negli anni Novanta la grande esplosione, con 25 nuovi Heritages, ma anche nel primo decennio del nostro millennio ne sono stati etichettati altri 14; e altri 6 nei primi quattro anni di questo decennio (per un totale di ben 52 siti, tra naturali e artistici).
Ed è tragico che città, paesi, regioni, facciano la coda e brighino per farsi imbalsamare. Come quei paesi che si candidano per ospitare le Olimpiadi, ignari di segnare la loro rovina che li trascinerà nel baratro (vedi Grecia), così i nostri sindaci, assessori, proloco si affannano per ottenere l’agognato marchio. Siamo terrorizzati alla prospettiva del nostro paese ridotto a un unico immenso museo, in cui dovremo camminare pagando il biglietto d’ingresso, cercando disperatamente una via d’uscita. Gireranno il film Escape from museum per respirare una boccata d’aria, una botta di vita, vedere città che cambiano, prima di tornare nella naftalina.

Post scriptum. In termini più generali, il problema comune alle città turistiche, alle downtowns finanziarie, alle aree di residenza agiata come Ipamena o Leblon, è che in questo mondo capitalistico post-moderno le città obbediscono ancora all’orribile e riduttivo razionalismo modernista, cioè al principio dello Zoning, che ha governato tutta la pianificazione urbana del XX secolo. Si tratta del principio di monofunzionalità delle aree urbane, per cui ogni quartiere, ogni area assolve una e una sola funzione: dove lavori non dormi, dove dormi non ti diverti, dove ti diverti non commerci. Così la città si segmenta in distretti: distretto finanziario, distretto commerciale, distretto residenziale, distretto «turistico», distretto industriale, tutti distretti che non si intersecano e non si sovrappongono mai: è la ragione per cui mai troverai un bar in un suburbio residenziale americano. Il problema con lo Zoning è che l’obiettivo per cui sono state inventate e costruite le città era esattamente il contrario: la città è nata come un’operazione multifunzionale e multi-tasking. La città è stata inventata per essere multi-zoned nella singola zona. È grazie a questa sua caratteristica che la città è sopravvissuta e sopravvive alle ripetute dichiarazioni di morte, e resiste a tutte le delocalizzazioni, al telelavoro, alle Edge Cities, alla rivoluzione informatica.
Gli umani hanno inventato le città per disporre di luoghi di snodo, di punti di articolazione tra attività umane eterogenee. L’uccisione che l’Unesco attua è da questo punto di vista assai simile a quella compiuta dai financial districts: l’urbanicidio da monocultura, da monofunzionalità, da razionalismo riduttivo. Detroit è morta mentre Chicago è sopravvissuta, perché l’una era la Motor Town, monooccupazionale, monofunzionale e dipendeva da una sola industria, quella automobilistica, mentre l’altra si basava su attività differenziate, agricoltura, svariate industrie (chimica, alimentare, siderurgica), finanza, cultura (le varie università e centri di ricerca). Ogni città che dipende da una sola industria (che sia turismo o finanza) è destinata a morire presto.*

* Pubblicato originariamente con il titolo «UNESCOcide» sul n. 88, luglio-agosto 2014, della New Left Review. Una versione italiana molto ridotta di questo saggio è già stata pubblicata, con il titolo «Urbanicidio a fin di bene», sul n. 982, luglio-agosto 2014, della rivista Domus.

Note:

[1] Nel Regno Unito l’Unesco ha dichiarato 27 siti World Heritage, ma di questi solo 3 sono quartieri di città e curiosamente uno solo in Inghilterra (Bath), uno in Scozia (Edinburgh) e uno nelle Bermude (St. George). Tutti gli altri sono castelli (Durham Castle, Blenheim Palace), paesaggi (Dorset e East Devon Coast), il Vallo Adriano, Stonehenge e simili.
[2] Le tavole input-output, introdotte da Wassily Leontief nel 1941, sono matrici quadrate che rappresentano le interrelazioni reciproche tra i vari settori di un sistema economico, mostrando quali e quanti beni e servizi prodotti (output) da ciascun settore sono utilizzati da altri come input nei loro processi produttivi.
[3] O. Löfgren, On Holiday. A History of Vacationing, University of California Press, Berkeley l999; tr. it. Storia delle Vacanze, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 181.
[4] www.thedailybeast.com/articles/2014/05/31/the-next-unesco-world-heritage-site-burgundy-s-pinot-noir-country.html.
[5] Th.W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1964, tr. it. Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, Torino 1988
[6] «L’opera diventa “autentica” solo dopo che la prima copia è stata prodotta. Le riproduzioni sono l’aura, e il rituale, lungi dall’essere un punto di origine, deriva dalla relazione tra l’oggetto originale e la sua importanza socialmente costruita», D. MacCannell, The Tourist. A New Theory of the Leisure Class (1976), University of California Press, Los Angeles 1999, p. 48 (traduzione mia).
[7] In How to Do Things With Words, Oxford Clarendon Press, Oxford 1962.