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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

COCCOLE VIRTUALI


Una volta, per tenersi informati su amici e parenti, si usavano i metodi più svariati: si parlava con i colleghi a pranzo, si prendeva un caffè con gli amici e si restava a chiacchierare con i vicini da un lato all’altro del giardino. Oggi basta dare un’occhiata a Facebook. Un collega è diventato papà, un’amica ha lasciato il fidanzato, il vicino sta per compiere 50 anni.
Ed è utile sapere tutto questo per navigare senza incidenti nei rapporti sociali. Così non stupisce che circa 26 milioni di italiani visitino Facebook almeno una volta al mese. Sul popolare social network gli utenti condividono gioie e dolori legati agli eventi più importanti della propria vita: secondo quanto riferiscono i gestori di Facebook, gli argomenti principali comprendono matrimoni, nascite, animali domestici, viaggi, traslochi e lutti.
Ma proprio come le chiacchiere al bar, anche mantenere i contatti virtuali richiede tempo. Secondo una ricerca eseguita dall’agenzia We Are Social all’inizio del 2014, gli internauti del nostro paese passano in media 4 ore e 42 minuti al giorno navigando on line attraverso un computer tradizionale. Il 46 per cento della popolazione usa Internet in mobilità per circa due ore al giorno. Inoltre, il 54 per cento degli italiani usa i social media in media per due ore e mezza al giorno. Così molti mantengono centinaia di contatti: per lo più con chi conoscono già nella vita «reale», ma a volte anche con persone conosciute on line e mai incontrate dal vivo.

Cresce anche il nostro cervello?
Il nostro cervello però non è fatto per tenere i rapporti con centinaia di persone, almeno secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar, dell’Università di Oxford. Attraverso un confronto con i cervelli e le dimensioni dei gruppi, per esempio nei primati, ha concluso che possiamo mantenerci in contatto solo con circa 150 nostri simili.
Ai tempi di Facebook, però, il cosiddetto numero di Dunbar deve essere rivisto. Da un lato il numero dei veri amici non può aumentare a dismisura, dato che ogni rapporto intenso richiede tempo e attenzione, due risorse limitate. Dall’altro però le banche dati virtuali dei social network non dimenticano: fungono da memoria esterna al nostro cervello, possono ridurre il carico delle nostre capacità cognitive e ampliarle. Così oggi manteniamo senza fatica anche conoscenze superficiali, che forse una volta avremmo dimenticato o abbandonato da tempo.
E può darsi che con queste nuove forme di relazione cresca anche il cervello. Nel 2011, la psicologa Lisa Barrett e i suoi colleghi hanno dimostrato che in media nelle persone con reti sociali estese è più grande anche l’amigdala, una struttura a forma di mandorla che svolge un ruolo di primo piano nei sentimenti e nei ricordi importanti sotto l’aspetto emotivo. Secondo Barrett, questo ci permetterebbe di «capire meglio i segnali delle altre persone, oltre a cooperare e competere in modo più efficace». La psicologa ritiene anche che questo risultato sia in sintonia con le teorie della biologia evolutiva: in passato l’amigdala dei primati potrebbe essersi sviluppata grazie allo stimolo di strutture sociali sempre più complesse.
Non è chiaro però se nel corso della vita l’amigdala «cresca di pari passo» col numero di contatti o se viceversa sia l’anatomia del cervello a determinare le abilità sociali e quindi l’ampiezza della cerchia di amici. Sarebbero possibili entrambe le ipotesi. Secondo scoperte recenti, un cervello adulto può formare nuovi neuroni per un’intera vita, almeno nell’ippocampo, un’area cerebrale strettamente legata all’amigdala che partecipa alla memorizzazione dei ricordi. Mantenere i contatti con 300 «amici», reagire alle loro novità e decidere cosa condividere sono esigenze che potrebbero stimolare la formazione di nuove cellule.
Questa ipotesi è suffragata dai risultati di uno studio eseguito nel 2012 all’University College di Londra. Il team del neuroscienziato Ryota Kanai ha cercato segnali biologici che distinguano chi ha contatti on line più o meno intensi. A questo scopo i ricercatori hanno misurato con la risonanza magnetica una serie di regioni cerebrali di un gruppo di partecipanti allo studio. Ed ecco i risultati: mentre una cerchia di amici più ampia nella vita reale è legata «solo» a un’amigdala più grande, nei soggetti con molti amici in Facebook erano più estese anche altre tre regioni del lobo temporale. Queste contribuiscono tra l’altro alla memoria associativa, che collega tra loro persone, oggetti e le loro caratteristiche.

Un bonus per l’ego
Secondo i ricercatori, la maggiore massa cerebrale in queste regioni potrebbe servire a ricordare le particolarità dei numerosi amici. Ora si tratta di vedere, spiega Kanai, «se queste strutture cambiano col tempo». E questo contribuirebbe a far capire se Internet effettivamente modifichi il nostro cervello.
Le possibili conseguenze a lungo termine di queste trasformazioni ovviamente non riguardano solo i centri della memoria. I ricercatori che studiano le implicazioni dell’uso di Facebook stanno osservando anche un’altra rete neurale: il centro della ricompensa. I neuroni del cosiddetto sistema della ricompensa trasmettono sensazioni di felicità, soprattutto in situazioni come l’ingestione di cibi con grassi e zuccheri, il sesso, ma anche il consumo di droghe e la vincita al gioco d’azzardo. E fa parte di questo gruppo speciale anche il feedback positivo, che viene elaborato nello striato ventrale cui appartiene il nucleus accumbens, la sede centrale del sistema della ricompensa.
Quindi molti accedono a Facebook tutti i giorni perché provano euforia per i «mi piace» e i commenti dei loro amici?
Un team dell’Università libera di Berlino, guidato da Dar Meshi, ha esaminato l’attività neurale di soggetti che frequentavano Facebook più o meno spesso. I partecipanti in un primo tempo sono stati filmati mentre rispondevano a domande su di sé – come «Le piace vivere a Berlino?» oppure «Che cosa fa nel tempo libero?». Il giorno seguente, mentre si trovavano nello scanner cerebrale, hanno ricevuto la (falsa) notizia che le loro risposte e quelle degli altri partecipanti erano state valutate da una giuria che aveva guardato i filmati delle interviste.
Come previsto, nei partecipanti il nucleus accumbens ha avuto una reazione in media più forte quando le lodi erano rivolte a loro stessi invece che agli altri. Ma il fatto sorprendente è che il surplus di felicità destinato all’ego fosse tanto maggiore quanto più a lungo i partecipanti erano stati in Facebook. Per gli utenti più assidui quindi l’«ego-bonus» neurale è maggiore che per quelli occasionali. In altre parole, coloro che più apprezzano le «coccole» sociali sono anche quelli che trascorrono più tempo on line a rincorrerle.
Diana Tamir e Jason Mitchell, della Harvard University, hanno esaminato questo lato egocentrico del cervello con una serie di esperimenti. A questo scopo gli psicologi hanno chiesto ai partecipanti, sottoposti a risonanza magnetica, di illustrare idee proprie o di valutare opinioni altrui. Quando i soggetti davano informazioni su di sé, l’attività del nucleus accumbens era nettamente più intensa, così come quella dell’area tegmentale ventrale, un’altra struttura del sistema della ricompensa.

Irrazionale, ma condivisibile
La voglia di parlare di sé può perfino compensare la perdita di denaro. In un esperimento successivo, nel quale le risposte venivano pagate, i soggetti preferivano le domande su di sé nonostante potessero guadagnare di più rispondendo con la propria opinione su terzi o più generali – «A Barack Obama piacciono gli sport invernali?», «La Gioconda è stata dipinta da Leonardo da Vinci?». Così hanno rinunciato in media al 17 per cento del proprio guadagno potenziale.
Irrazionale, certo, ma condivisibile. D’altronde la maggioranza delle persone parla volentieri di sé. Tamir e Mitchell però si sono chiesti se per i partecipanti al loro esperimento l’importante fosse occuparsi di sé o comunicare qualcosa su di sé agli altri. A questo scopo hanno ideato un altro test: i soggetti ancora una volta potevano esprimere le proprie opinioni o riflettere su quelle degli altri, e potevano scegliere se tenere per sé questi pensieri o comunicarli tramite un computer a un amico che li aveva accompagnati.
Dalle loro osservazioni Tamir e Mitchell hanno dedotto che «tanto la riflessione su di sé quanto la comunicazione di qualsiasi pensiero sono stimoli che portano a rivelarsi»: in entrambi i casi si attivano infatti le due aree della ricompensa. La rivelazione di sé offre numerosi vantaggi: aiuta a stringere legami sociali, ricevere feedback e sapere di più su sé stessi e sugli altri.
I social network sono piattaforme adatte a questo obiettivo: la possibilità di raccontarsi ed esprimere le proprie opinioni è la forza di Facebook e Twitter. Oltre a narcisismo, auto-rappresentazione e feedback, per il sé ci sono altri vantaggi: i confronti sociali. In Facebook per esempio si può mettere in evidenza chi accumula molti «amici» e «mi piace». E qui inoltre ciascuno può trovare gruppi di suoi simili che condividono le proprie idee e preferenze, per quanto assurde possano essere.
Le sensazioni di euforia e i relativi picchi di eccitazione nella rete della ricompensa nascondono però anche un rischio: quello di sviluppare dipendenza dalle coccole virtuali.
Il substrato biologico di ogni dipendenza si trova nelle reti neurali del sistema di ricompensa e memoria. Quindi, come per un alcolizzato vedere una bottiglia di birra, per il Facebook dipendente ogni stimolo che ricorda Facebook potrebbe provocare reazioni nel sistema della ricompensa. E queste possono lasciare tracce di lunga durata, «in seguito a un’attività cerebrale intensificata nelle reti della dipendenza». È quanto hanno dedotto Daria Kuss e Mark Griffiths, esperti di Internet-dipendenza della Nottingham Trent University, in uno studio del 2012 basato sulle scoperte della ricerca neuroscientifica. I due psicologi concludono che «il cervello si modifica in seguito ad attività eccessive in Internet» e si adatta al comportamento dipendente, fino a diventare meno sensibile verso le altre ricompense.
Per ora non ci sono dati attendibili su quanti utenti dei social network siano davvero dipendenti dalla navigazione quotidiana. Che si tratti o no di una dipendenza, tutto ciò che spingiamo all’eccesso lascia tracce nel cervello. Le conseguenze nel lungo periodo non sono ancora valutabili: d’altronde chi ha mantenuto amicizie in Facebook fin dal primo giorno di scuola non è ancora diventato adulto. I genitori della generazione Facebook però non dovrebbero preoccuparsi più di tanto: in fondo molti di loro sono cresciuti con i videogiochi e la televisione commerciale, e sembra siano sopravvissuti senza riportare danni cerebrali evidenti.