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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

PALAZZO CHIGI, TWITTER E LE REGOLE D’INGAGGIO

«I tweet sono i miei. Anche se l’account non lo gestisco da solo». Di fronte alla decima persona che gli ha chiesto conto di come il tweet in difesa della Roma fosse finito sul suo profilo, domenica Matteo Renzi ha allargato le braccia. Il nome del «responsabile», il suo collaboratore Franco Bellacci, aveva fatto già il giro del web, il tweet incriminato era stato cancellato e il premier aveva appena finito di sbollire la rabbia per l’errore altrui.
Le regole d’ingaggio, sul cui rispetto vigila il portavoce di Palazzo Chigi Filippo Sensi, ch’è noto più per il suo nickname sui social (Nomfup) che per il suo nome di battesimo, parlano chiaro. I pensieri sono tutti opera del presidente del Consiglio. E solo quando si tratta di pubblicizzare un video o un documento, solo in quei casi interviene Bellacci, l’unico — oltre al premier — ad avere le password del profilo. Nonostante ciascuno provi a darsi delle regole, per il politico «l’incidente» su Twitter è sempre dietro l’angolo.
Sempre sul profilo di Renzi, mesi fa, apparve un selfie che immortalava lo stesso Renzi con tanto di smorfia poco istituzionale. La foto venne rimossa e il colpevole mai scoperto. Un colpevole, almeno ufficialmente, è stato individuato allorquando dal profilo di Augusto Minzolini partirono insulti a raffica all’indirizzo di altrettanti utenti che contestavano il senatore forzista. «È stato mio figlio, ha trovato il profilo aperto e…».
Non aveva nessuno su cui scaricare la colpa Maurizio Gasparri quando, nel bel mezzo della trasmissione Agorà , venne sorpreso dalla conduzione a twittare contro altri ospiti in studio in attesa di prendere la parola.
Da allora il vicepresidente del Senato, noto per le sue guerre virtuali, s’è curato di far aggiungere spesso in calce ai tweet la locuzione «staff» e di dotarsi appunto di uno staff, nella persona del pubblicitario Luca Ferlaino, figlio dell’ex presidente del Napoli Corrado.
Coi social network, in politica, ci si può anche far male.
Silvio Berlusconi, ad esempio, ha uno scudo protettivo tutto suo. Non li usa. «Queste robe, secondo me, non portano manco mezzo voto», disse una volta a cena l’ex Cavaliere motivando la sua assenza in prima persona da Facebook e Twitter.
Renzi, una volta, provò a disintossicarsi. «Basta, ho tolto Twitter dal telefonino, lo controllo troppo», annunciò due anni fa l’allora sindaco di Firenze. Durò poco.
A teorizzare quanto è facile diventare vittima dei social network ci provò una volta Francesco Storace. «Ao’», disse il leader della Destra durante una pausa della trasmissione Omnibus, «Facebook era ‘na droga leggera ma Twitter è ‘na droga pesante». Poi, senza neanche rendersene conto, riprese a torturare il telefonino.
Tommaso Labate