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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

MONZON, IL KILLER DEL RING UCCISE LA MOGLIE E FINI’ ALL’INFERNO

The Day the Music Died ha una sola data riconosciuta perché fu cantato in «American Pie» da Don McLean: il 3 febbraio 1959 quando un incidente aereo nello Iowa tolse la vita a Buddy Holly e Ritchie Valens, il cantante de «La bamba». Per il giorno della morte della boxe si registrano molte candidature, fra cui la più gettonata è quella di un altro incidente aereo: il 31 agosto ‘69 in cui a Newton scomparve Rocky Marciano, l’unico campione mondiale imbattuto dei massimi. Ve ne proponiamo un’altra, l’8 gennaio 1995, la data in cui ci ha lasciati Carlos Monzon, l’indio maledetto. Sono passati esattamente vent’anni, infatti, dal vero giorno di lutto di chi nella boxe ha coltivato il culto degli eroi dannati, di quei campioni che proprio le imprese del ring hanno strappato all’inferno della vita e che in quell’inferno sono purtroppo precipitati a carriera finita.
La tragedia Il «Killer» argentino, campione mondiale dei medi e giustiziere formidabile del nostro Nino Benvenuti, è stato un eroe maledetto ben prima di Mike Tyson e dei «cattivi» di oggi. Ed è stato strappato alla vita in una torrida mattina di gennaio nella stessa maniera brutale in cui era nato, venendo fuori dal ventre della madre sdraiata su una coperta di un capanno senza pavimento di San Javier. Quel giorno, tanto per intenderci, colui che è considerato uno dei più grandi pesi medi di tutti i tempi stava rientrando nel carcere di Santa Fe, dove scontava una condanna di 11 anni, dopo aver usufruito di una delle giornate della semilibertà concessagli sedici mesi prima: sarebbe diventato definitivamente libero per buona condotta di lì a sei mesi. Percorrendo la Ruta 11, Carlos non avrebbe avuto neanche tanta fretta di rientrare nella cella a cui l’aveva costretto l’omicidio della compagna Alicia Munoz se non fosse stato in terribile ritardo: così la folle corsa della sua Renault 19, su cui viaggiava insieme a un amico e alla cognata, anziché in carcere lo riaccompagnò all’inferno da cui proveniva. Fu trovato morto nella carcassa bruciata sul ciglio di una provinciale abbandonata da Dio, in mezzo a un’erba più selvatica di lui. Perché la sua storia non sia diventata materia di film di successo come sognava il suo amico Alain Delon resta un mistero.
PREDESTINATO? Per ora accontentiamoci di questo anniversario per raccontare una favola senza lieto fine in cui proprio l’Italia ha avuto un ruolo determinante. Se esistono campioni predestinati, Carlos era proprio il contrario: Roque Monzon, becchino, e Amalia Ledesma lo fecero nascere, come sesto di dodici figli, a San Javier, sperduto villaggio agricolo a 140 chilometri da Santa Fe, e credettero di averlo già perso a 8 anni (come altri 4 fratelli) dopo il trasferimento nella periferia del capoluogo quando il tifo, quasi inevitabile da quelle parti, lo trasformò in un fantasma vivente. Ma «El flaco» della pampa, lo smilzo, non solo si riprese ma, visto che i fiori e la frutta prima di venderli li rubava, cominciò a riempire il suo certificato penale. Una storia già vista: fu un cliente a cui aveva lustrato le scarpe a indicargli a 13 anni la via della palestra che 8 anni dopo lo avrebbe portato all’esordio professionistico.
Benvenuti Oggi possiamo non credere alle 3 sconfitte, frutto di incontri pilotati, che costellarono i suoi primi 4 anni di carriera fino al titolo argentino del ‘66 ma purtroppo neanche il successivo pari col quotatissimo Bennie Briscoe suonò come campanello d’allarme per Rodolfo Sabbatini che per la miseria di 10.000 dollari (contro i 100.000 del campione italiano) l’aveva scelto dal suo amico Tito Lectoure come avversario iridato per la difesa volontaria del campione mondiale dei medi Nino Benvenuti a Roma nel ‘70. Solo quando lo vide scendere dalla scaletta dell’aereo l’organizzatore romano intuì chi sarebbe salito sul ring in quel famigerato 7 novembre nel Palaeur gremito da 20.000 persone: un mediomassimo naturale con braccia lunghissime «fuoriserie» che solo le gambe affusolate dalla malattia trasformavano sulla bilancia in un peso medio. La fama del pugile triestino, che aveva detronizzato Griffith a casa sua e pensava di dover sbrigare solo una formalità, fu calpestata in 12 round che l’Italia ricorda ancora oggi come un incubo. Che si trattasse di amarissima realtà lo dimostrò la rivincita di 6 mesi dopo a Montecarlo, l’8 maggio ‘71, quando l’olimpionico, convinto a trovare un’impossibile giustificazione alla disfatta, subì il k.o. tecnico in 3 round che gli chiuse la carriera.
La fiNE Era nato un mito, ma solo nel pugilato. I migliori pesi medi dell’epoca che per 7 anni, dal ‘71 al ‘77, cercarono di sottrargli la corona (Griffith, Bouttier, ancora Briscoe, Napoles, Mundine, Licata, Tonna) fecero meno danni della fama a cui l’indio senza cultura si trovò esposto: una mezza dozzine di fidanzate e mogli (una delle quali lo prese a pistolettate), qualche film e un’infinità di risse e feste sguaiate anticiparono il conto che gli fu presentato dopo il ritiro da campione imbattuto all’indomani della doppia memorabile vittoria di Montecarlo sul fenomeno Rodrigo Valdes. Il 14 febbraio ‘88, in preda all’alcool ormai fedele compagno della sua vita, Carlos fece volare dalla finestra di Mar del Plata l’ultima moglie Alicia Munoz, dopo aver provocato il suo svenimento. La condanna a 11 anni, quella che neanche il suo amico presidente Alejandro Agustin Lanusse riuscì a evitargli, non esaurì neanche i termini della libertà vigilata. Quella boxe, la boxe del peso medio più crudele della storia, è morta in una mattina di gennaio di 20 anni fa.