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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

ARTICOLI SULL’ASSALTO A CHARLIE HEBDO DAI GIORNALI DELL’8 GENNAIO 2015


STEFANO MONTEFIORI, CORRIERE DELLA SERA -
La più spaventosa ed efficace azione terroristica che la Francia abbia conosciuto è cominciata con un errore. Il commando è formato dai fratelli Said e Chèrif Kouachi, e Ahmid Mourad. Uno resta nella Citroën C3 nera, gli altri due escono dall’auto per andare a compiere la strage ma sbagliano numero civico, vanno al 6 di rue Nicolas-Appert, nel quartiere della Bastiglia. «È qui Charlie Hebdo?», gridano. No, non è lì. Gli assassini non si perdono d’animo, si spostano di pochi metri al numero 10, quello giusto. Dopo il passo falso iniziale l’operazione ricomincia. Senza esitazioni. In pochi minuti 12 persone verranno uccise: 8 giornalisti, un inserviente, un ospite della redazione, due poliziotti. La libertà è sotto attacco, la Francia è sconvolta.
Sono all’incirca le 11 e 30 del mattino. I due terroristi con il volto coperto, armati di un kalashnikov e un fucile a pompa, forse con i giubbotti anti-proiettile, entrano nei locali del settimanale satirico e si imbattono in una postina. «Ero nel palazzo, in fondo al corridoio - racconta -. Ho visto due uomini mascherati e armati che cercavano la redazione di Charlie Hebdo, a un certo punto si sono messi a sparare in aria per spaventarci. Volevano sapere dove fosse l’ingresso. Sono riuscita a scappare». Nel palazzo ci sono tre piani e molti uffici, i due uomini vogliono arrivare immediatamente al loro obiettivo. François Molins, il procuratore di Parigi, dice che a questo punto i terroristi prendono di mira uno dei due inservienti all’ingresso, lo costringono a dire loro dove si trova la redazione, a quel punto sanno che Charlie Hebdo è al secondo piano e lui non serve più. Lo uccidono. Si chiama Fredéric Boisseau, ha 42 anni. È la prima vittima del massacro.
I terroristi salgono al secondo piano, incrociano la disegnatrice Corinne Rey, la firma «Coco» del giornale, che era andata a prendere la figlia all’asilo. Con le armi puntate addosso, Coco avrebbe digitato il codice di accesso per aprire la porta del giornale. «Hanno sparato su Wolinski. Cabu… - ha raccontato all’Humanité -. Io mi sono rifugiata sotto una scrivania. Sarà durato tutto cinque minuti. Parlavano un francese perfetto, dicevano di essere di Al Qaeda».
I terroristi potrebbero avere scelto con cura il momento in cui entrare in azione, perché ieri, mercoledì, a quell’ora si tiene la riunione di redazione del settimanale, quella che serve per impostare il numero successivo. Intorno al grande tavolo del giornale ci sono quasi tutti: il direttore Stéphane Charbonnier detto Charb, la guardia del corpo che a turno con altri lo protegge dal 2006, e le altre firme: Wolinski, Cabu, Tignous, Philippe Honoré, l’economista Bernard Maris, la psicologa Elsa Cayat, il correttore Moustapha Ourad, che aveva appena ottenuto la nazionalità francese.
All’interno della redazione, il primo a morire è l’agente di scorta del direttore. Viene ucciso con più colpi, immediatamente, non ha il tempo di reagire. Poi tocca a Charb, l’obiettivo principale, da anni nella lista dei bersagli di Al Qaeda. Secondo alcuni testimoni, i terroristi chiedono ai giornalisti di dire il loro nome, poi sparano a colpo sicuro. Un vicino, Bruno Leveillé, dice di avere sentito almeno una trentina di colpi per circa 10 minuti. Questa sarebbe la durata totale dell’operazione all’interno del giornale. Nel frattempo, i dipendenti degli uffici vicini hanno trovato rifugio sul tetto, uno di loro, Martin Boudot, ha twittato sull’assalto in corso. Nella redazione muore anche una persona che si trova lì per caso, Michel Renaud, ex direttore di gabinetto del sindaco di Clermont-Ferrand e fondatore del festival «Rendez-vous du carnet de voyage». Secondo il quotidiano locale «La Montagne», Renaud era andato in visita a Charlie Hebdo per incontrare Cabu e restituirgli dei disegni che questi gli aveva prestato per l’ultima edizione del festival, nel novembre scorso. Cabu lo aveva invitato ad assistere alla riunione di redazione. Con Renaud c’era l’amico Gérard Gaillard, che è riuscito a salvarsi.
Il giornalista di inchiesta del settimanale, Laurent Léger, ha capito per primo che i terroristi stavano entrando e si è gettato sono il tavolo. Sarebbe stato lui a chiamare la polizia con il telefonino, mentre sibilavano le pallottole.
Effettuato il massacro, i due terroristi sono tornati in strada e si sono diretti verso la Citroën dove c’era il terzo uomo ad aspettarli. Nei video girati con il telefonino dalle finestre e dal tetto, li si sente gridare «Allah Akbar!», «Allah è il più grande», e «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo!», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto!».
Nel 2006, Charlie Hebdo fu il giornale che in Francia decise di ripubblicare le vignette satiriche su Maometto del giornale danese Jyllands Posten, che avevano provocato manifestazioni e incidenti a Copenaghen. Da allora Charlie Hebdo, il «giornale irresponsabile» come si legge sotto la testata, ha vissuto sotto la minaccia dei terroristi islamici. Nel 2011 una molotov distrusse la precedente redazione, i giornalisti vennero ospitati per qualche mese dai colleghi di Libération, e nel 2012 si sono trasferiti nella sede attuale, al numero 10 di rue Nicolas-Appert.
«Allah Akbar!», gridano ancora i terroristi per strada, dopo avere scaricato decine di colpi sul parabrezza di un’auto della polizia, con gli agenti all’interno miracolosamente indenni. «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo», ripetono, e sembrano sul punto di rientrare in auto quando vedono avvicinarsi un agente di polizia in bicicletta, lungo il boulevard Richard Lenoir.
Con movimenti che lasciano suggerire un addestramento militare, e una freddezza che lascia sgomenti, i terroristi si allontanano dall’auto e decidono che il lavoro non è ancora finito. Sparano raffiche contro il poliziotto, che cade a terra. Corrono senza agitarsi verso di lui. Il ferito sembra immobile, poi si volta leggermente e alza un braccio, un gesto che sembra un’implorazione. In quel momento, viene finito con un colpo alla testa. È forse l’immagine più insostenibile del massacro, quella che riassume meglio l’orrore. A noi sembra inumanità, ma forse è proprio la spina dorsale che fa stare in piedi, ed esalta, quegli esseri.
Il poliziotto freddato a terra si chiamava Ahmed Merabe, aveva 42 anni. Lavorava al commissariato centrale dell’XI arrondissement. Ahmed è un nome musulmano che significa «il più degno di lodi». Non era quindi un «francese autoctono», secondo la terminologia in uso nelle polemiche di queste settimane in Francia su Islam e integrazione. Ahmed era però abbastanza integrato da fare parte della polizia francese, e da morire in quanto francese sotto i colpi sparati in nome di una religione che era anche la sua. Il sindacalista della polizia Rocco Contento dice che viveva con una compagna.
La guardia del corpo di Charb si chiamava Franck Brinsolaro, aveva 49 anni. Abitava fuori Parigi, a Bernay, si era da poco sposato con una giornalista, e la coppia aveva una bambina di un anno. Secondo il rappresentante della polizia, negli ultimi giorni Charb era oggetto di minacce sempre più pesanti. Ma nello scorso settembre il sistema di protezione del giornale si era fatto più discreto, anche se una pattuglia continuava a tenere d’occhio periodicamente una sede giudicata ancora «obiettivo sensibile».
«Sapevamo che la minaccia era reale, ma non vivevamo nella paranoia», dice a Libération Antonio Fischetti, giornalista a Charlie Hebdo che si è salvato perché si trovava a un funerale e non ha partecipato alla riunione di redazione. «Le minacce contro Charlie sono ricorrenti, abituali. C’era l’ipotesi di farsi ammazzare, magari, un giorno. Ma non avremmo mai pensato a un massacro di questa ampiezza, no… I miracolati sono quelli che erano in ritardo, come Luz o Catherine Meurisse, o gli assenti, come me».
Dice Fischetti che «la sorveglianza si era allentata. Da qualche tempo, un mese o due, non c’era più l’auto della polizia ferma davanti all’ingresso del giornale. Devono essersene accorti. Hanno veramente aspettato il momento buono».
Dopo l’estate il governo francese ha moltiplicato gli allarmi sul terrorismo e ha chiesto più volte ai cittadini di esercitare la massima vigilanza. Nelle settimane scorse il premier Valls ha dichiarato che «mai il rischio di un attentato terroristico è stato così alto», e ieri sul luogo della strage il presidente François Hollande ha rivelato che diversi attentati sono stati sventati. A dicembre a Joué-lès-Tours, Digione e Nantes, ci sono stati episodi violenti per i quali si è parlato di pista islamica perché alcuni testimoni hanno dichiarato di avere sentito il grido «Allah Akbar!», ma poi almeno per gli ultimi due casi le autorità avevano parlato di «gesti di squilibrati». Stavolta la matrice islamica è lampante, l’attentato che molti si aspettavano si è verificato ma pochi, a parte i giornalisti della rivista, immaginavano che a farne le spese sarebbe stato Charlie Hebdo.
Stefano Montefiori

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MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA –
Gli assassini che volevano vendicare il Profeta potrebbero essere figli della città invisibile. I fratelli Said e Chérif Kouachi, di 34 e 32 anni, e il loro presunto complice Hamid Mourad, classe 1996, nel corso della notte diventati i principali sospettati della strage al Charlie Hebdo, vengono dalla banlieue di Gennevilliers, avamposto della sterminata periferia che si estende a nord di Parigi, con tanto di fermata del metrò ma in realtà lontana quasi fosse un altro mondo.
Li hanno trovati nel quartiere della Croce rossa di Reims, a 150 chilometri dalla redazione di Charlie Hebdo . E le immagini che arrivano dall’operazione ancora in corso mentre scriviamo indicano qualcosa di definitivo, con i tiratori scelti a presidiare ogni incrocio e le teste di cuoio che si muovono a gruppi e a scatti mentre accerchiano un edificio in quella che viene definita come la zona araba del capoluogo dello Champagne. La rete americana Nbc si spinge a parlare di un morto e due arresti, mentre i media francesi predicano prudenza. Ancora non c’è prova della loro colpevolezza, tutto andrebbe declinato al condizionale. Ma se davvero fossero loro, se davvero i due fratelli di etnia franco-algerina appartengono alla legione sempre più numerosa dei jihadisti d’Occidente, rientrati dalla Siria appena in tempo per preparare una strage senza senso, la Francia laica e tollerante si ritrova davanti a uno specchio che riflette tutte le sue peggiori paure.
I fratelli Kouachi hanno tutto per incarnare lo spettro tanto temuto del terrorismo domestico. Sono nati entrambi nel X arrondissement, che nella parte più vicina al centro della città contiene la passeggiata romantica sul canal Saint Martin ma subito dopo diventa il quartiere cuscinetto tra XVIII e XIX, banlieue domestica, porta d’ingresso della grande periferia nord. «Piccoli delinquenti che si sono radicalizzati» dice una fonte di Polizia. Chérif, il più piccolo, aveva da poco finito di scontare tre anni di carcere con la condizionale. Apparteneva alla cosiddetta filiera del parco de Buttes Chaumont, dove ieri è stata ritrovata la Citroen nera usata per la fuga dopo la strage. Preparavano le giovani reclute francesi al combattimento in Iraq. All’epoca Chérif consegnava pizze a domicilio. Lo avevano arrestato poco prima della partenza. Ma non si era perso d’animo. Appena tornato in libertà avrebbe tentato di partire per la Siria, questa volta accompagnato dal fratello Said, anche se non ci sono ancora certezze su quest’ultimo viaggio.
«Sono nel 93». Al posto di blocco di boulevard Richard Lenoir il gendarme si volta dando le spalle a place de la Bastille e al Marais. Con il dito indica una linea immaginaria che risale il viale in direzione opposta alla città da cartolina, al salotto del turismo culturale o commerciale. Il X arrondissment e poi oltre, nella banlieue più emarginata. «E dove altro potrebbero nascondersi», mormora il militare alzando le spalle. Al massimo è mezz’ora d’auto all’interno di Parigi ma è come se fosse un altro mondo.
La Citroen nera è ripartita verso il XIX arrondissement, uno di quei quartieri dalla gentrificazione molto difficile, ormai fallita. Entrando a tutta velocità in Place Colonel Fabien hanno sbattuto contro una Volkswagen rossa guidata da una donna. Hanno provato a proseguire comunque in direzione della porte de Pantin prima di arrendersi al fumo che usciva dal cofano. In rue de Meaux, una strada dove molti negozi hanno insegne con scritte in francese e in arabo che scorre lungo il parco de Buttes Chaumont hanno abbandonato la Citroen. A fucili spianati hanno fatto scendere il conducente di una Clio che arrivava dall’altra parte della carreggiata, e sono entrati a Pantin.
Sono nel 93, ed è come mettere un’etichetta. Sulla carta geografica è il numero che indica il Dipartimento di Seine-Saint Denis, ma è diventato un modo di dire. Significa banlieue , la periferia dove i poliziotti, non possono entrare perché la loro presenza significa scontri, tensioni, e allora meglio un mutuo patto sociale. Genervilliers, dove sarebbero cresciuti i tre presunti membri del commando, Clichy, Pantin, La Courbe voile. Sono i quartieri degli immigrati di seconda generazione, diventati famosi per il film «L’odio» che ne raccontava la polveriera sociale, per gli incendi e le rivolte del 2005. Alle 16.30 nessuno può entrare o uscire dalla banlieue. Gli elicotteri della polizia sorvolano a decine l’area, i blindati dell’esercito vengono messi di traverso sulle vie di accesso alle case popolari.
La prima perquisizione viene fatta in un appartamento di Pantin, e qualcosa cambia. All’improvviso si chiude il rubinetto delle indiscrezioni. La banlieue diventa la tappa di partenza di una caccia all’uomo senza precedenti. Il «93» è stato solo una sosta, forse un ritorno alla base per poi tentare la fuga definitiva. Ancora oscuro il legame con Reims, la tranquilla città dominata dalla celebre cattedrale, provincia profonda che diventa scenario di una incursione delle teste di cuoio, i corpi scelti dell’esercito. La traccia che avrebbe fatto risalire all’identità del commando è la carta d’identità dei maggiore dei frattelli Kouachi ritrovata nella Citroen abbandonata. Questa mattina sapremo se Said, Chérif e Hamid, nati e cresciuti qui, nella città dei lumi, sono davvero il volto nascosto di una Francia buia, che nessuno ha mai voluto vedere.
Marco Imarisio

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DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA -
Gli assalitori commettono già nei primi minuti un errore nel piano accurato. Sbagliano indirizzo, un paio di numeri civici: irrompono al 6 di rue Nicolas Appert, urlano «è questo Charlie Hebdo ?», sono gli archivi del settimanale satirico, non è il loro bersaglio.
Con i kalashnikov già imbracciati, i volti coperti dai passamontagna, corrono verso il 10 della stessa via ed entrano nella sede del giornale, salgono al secondo piano dove si sta tenendo la riunione di redazione. Il primo sbaglio non li ha confusi, hanno raggiunto l’obiettivo della carneficina. Sono rimasti calmi.
È quella calma a colpire gli esperti, che parlano di addestramento militare dopo aver analizzato alcuni video dell’attacco ripresi dai testimoni con i telefoni cellulari. «Dimostrano sangue freddo in tutte le fasi», commenta una ex guardia del corpo all’agenzia France Presse .
Nervi solidi e attenzione ai dettagli: uno degli attentatori corre per recuperare una scarpa da tennis caduta dall’auto usata nell’operazione, non vuole lasciare tracce. Ma non si accorge di dimenticare una carta d’identità nella macchina poi abbandonata. Nervi solidi e ferocia: un poliziotto viene ammazzato con un colpo alla testa mentre è già ferito a terra, il terrorista spara in corsa senza neppure fermarsi. «Non sprecano proiettili — fa notare la stessa fonte all’agenzia Afp —, è chiaro che sanno maneggiare i fucili mitragliatori».
Il kalashnikov è l’arma più diffusa in Medio Oriente, gli estremisti lo considerano così facile da usare «che anche un bambino potrebbe premere il grilletto». I due attentatori lo tengono vicino al corpo, non sventagliano a casaccio, i fori nella vetrata sono precisi, uno vicino all’altro. «Sono in totale controllo delle loro emozioni e delle loro armi», spiega alla televisione francese René-Georges Querry, già capo di una squadra anti-terrorismo della polizia. Bill Roggio, che pubblica il Long War Journal , per il centro di ricerca Foundation for the Defense of Democracies arriva a ipotizzare che siano ex militari.
Thomas Gibbons-Neff, veterano dei Marine americani, è più scettico. Evidenzia sul Washington Post che i caricatori portati avvolti sul petto sono del tipo in dotazione agli eserciti e riesce a riconoscere dal rumore degli spari due differenti versioni di fucile mitragliatore: l’Ak74 e l’Ak47.
L’esperienza gli permette di notare però un’imprecisione nei movimenti del commando: mentre risalgono la strada e si preparano alla fuga, gli uomini incrociano i loro passi, «un gesto che viene sconsigliato alle reclute perché riduce l’area tenuta sotto tiro».
Anche se gli investigatori e gli esperti concordano sulla preparazione professionale, non sono ancora in grado di ricostruire in quale dei campi d’addestramento sparsi tra la Siria, l’Iraq e il Nordafrica (qualcuno non esclude la Francia stessa) gli attentatori se la sarebbero procurata.
Gli uomini localizzati nei dintorni di Reims dalla polizia sono tre (come aveva sostenuto qualche testimone) e sono nati a Parigi, due di loro sono fratelli. Sarebbero andati a combattere in Siria, eppure gridano: «Dite ai giornali che apparteniamo ad Al Qaeda nello Yemen».
Un altro elemento che non combacia emergerebbe da uno dei video. Un attentatore avverte l’altro: «Allontanati, è finito» (si riferisce al poliziotto) e l’ordine sarebbe scandito con un’intonazione strana. Sul loro accento francese non c’è concordanza: alcuni testimoni dicono di non aver sentito inflessioni, altri sostengono che non parlassero bene la lingua.
I giovani di origine francese andati a combattere in Siria con le milizie dello Stato Islamico sono almeno 700, il gruppo più numeroso tra gli europei, calcola uno studio del King’s College di Londra. L’arruolamento di nordafricani e occidentali è considerato il più massiccio dai tempi della guerra in Afghanistan contro i sovietici: gli «stranieri» sarebbero almeno dodicimila in tre anni, sulle montagne attorno a Kabul arrivarono in totale a ventimila.
I servizi segreti in Europa hanno lanciato l’allarme sul pericolo rappresentato dal ritorno a casa di questi combattenti. Difficili da controllare, spesso pianificano gli attacchi nel chiuso di una stanza, mettono insieme piccoli gruppi come quello di Parigi. Non devono aspettare il via libera dai capi all’estero, non c’è bisogno che arrivi un ordine dall’alto. È già stato dato: l’Occidente è un bersaglio.
Davide Frattini

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LUIGI OFFEDDU, CORRIERE DELLA SERA -
«Oggi loro sono i nostri eroi. Questi uomini, questa donna, sono morti per l’idea che avevano della Francia, e cioè per la libertà». All’ora di cena, dagli schermi della televisione di Stato, Francois Hollande, presidente socialista di un grande Paese mai apparso così fragile, esalta i 12 caduti che adempivano alla missione più antica delle democrazie – dopo il voto popolare - e cioè alla libertà di critica, anche dura: una libertà più delicata ancora di quella di informazione.
I negozi nel centro di Parigi hanno chiuso dal mattino le saracinesche, decine di migliaia di persone si stanno riunendo in protesta o in preghiera a Grenoble, a Nantes, a Bruxelles, a Berlino, in mezza Europa. «Io sono Charlie» (dal nome del giornale Charlie Hebdo ), scandiscono in coro.
Domani lutto nazionale, poi 3 giorni di bandiere a mezz’asta. Sabato, a Parigi, «marcia repubblicana» convocata dal centrosinistra socialista insieme con il centrodestra di Nicolas Sarkozy, che pure ha avuto parole di dolore e rabbia dalla Tv: «È stato un attacco diretto e selvaggio ad uno dei principi della Repubblica francese che ci sono più cari: la libertà di espressione.E’ stata attaccata la nostra democrazia, dobbiamo difenderla senza debolezze. L’unica risposta è l’assoluta fermezza». E ancora: «Stiamo uniti, bisogna presentare un fronte unito contro il terrorismo e la barbarie di questi assassini».
Ma dire che questa Francia intera è in lutto è un eufemismo. È in lutto, certo, e però è soprattutto smarrita e confusa, aggrappata a quell’Occidente di cui si sente parte e bastione, e che tuttavia avverte cambiare dentro di sé: dalle parti della Bastiglia qualche ragazza piange per strada, ma davanti alla stazione centrale di Strasburgo sono stati visti due giovani in jellaba, la tipica tunica dei Paesi musulmani, che dalla loro auto offrivano dolcetti ai passanti; è il macabro gesto di festeggiamento che si vede a Gaza, quando Tel Aviv o Gerusalemme sono colpite da qualche attentato islamista.
Ma oggi è vero anche che nella stessa Strasburgo, e a Parigi, e a Nizza, I capi delle comunità islamiche hanno chiamato apertamente la strage «una barbarie e un tradimento dell’Islam».
Sul video, il presidente Hollande appare fragile e pallido come non mai, ben più vecchio di come appariva nelle foto sugli scandali più o meno rosa dell’Eliseo. Può dire poco, promettere ancor meno: questo non è gossip di Palazzo, è la tragedia di una nazione, e dell’intera Europa.
I tre sospetti attentatori sono stati identificati, ma solo a nove ore dall’attacco nel centro della capitale. Ed è l’ammissione, nonostante tutte le promesse di giustizia, del fatto che un Kalashnikov imbracciato dall’odio può molto più dei droni, degli elicotteri Apache, di certi proclami di buona volontà, e della grandeur celebrata nei secoli. Di «grande» non c’è che Allah, dicono quegli altri.
«La libertà sarà sempre più forte della barbarie. La nostra migliore arma è la nostra unità, vinceremo la sfida», ha proclamato Hollande su Twitter, prima ancora del discorso televisivo. Ma da mille blog già gli rispondono: è proprio così? Che tipo di unità si sta saldando nelle banlieu di Tolosa o di Marsiglia, dove un passante su tre, a volte due, è musulmano praticante, forse integralista, e non gioisce se i bombardieri francesi volano sulla Siria e l’Iraq? E non veniva dalla Francia il terrorista islamico che ha sparato al museo ebraico di Bruxelles?
Luigi Offeddu

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BERNARDO VALLI, LA REPUBBLICA –
Al numero 5 di rue Nicolas Appert, quasi di fronte al numero 6 di quella vecchia strada c’è un teatro, La Comédie Bastille. Uno dei tanti nel quartiere, l’11° arrondissement, dove c’è lo storico Faubourg Saint-Antoine. Chi passava o sostava davanti al teatro ha visto sull’altro marciapiede due uomini mascherati e con tute nere di foggia militare infilarsi nell’ingresso del numero 6. Non ha avuto il tempo di accorgersi delle armi che imbracciavano né di notare l’auto nera dalla quale erano usciti. Poi quei due uomini sono scattati fuori come molle, come se avessero sbagliato indirizzo, e si sono infilati nell’edificio a pochi metri, il numero 10. E dopo pochi istanti è cominciata la sparatoria nella redazione di Charlie Hebdo. Così è iniziata quella che potrebbe essere una dichiarazione di guerra.
PARIGI
Non lo sporadico attentato di fanatici kamikaze rassegnati a morire con le loro vittime. Ma un’operazione condotta secondo precisi ritmi militari. Ed eseguita nel cuore di Parigi, quando erano all’incirca le 11 del mattino, con le strade piene di gente e il traffico intenso della metropoli. L’11° arrondissment, dominato dal vecchio centro artigianale di Faubourg Saint-Antoine, è una delle nobili immagini di Parigi, cuore d’Europa.
L’operazione dei due assassini in nero mi ha subito fatto pensare a un 11 settembre francese. Forse meno spettacolare di quella di New York del 2001, ma simile per i simboli colpiti e l’audacia con cui è stata compiuta. E al tempo stesso unica perché i due uomini neri non hanno lasciato la loro vita sul posto. Non hanno agito da kamikaze ma da jihadisti del califfato. Freddi come i tagliatori di teste. E addestrati. Il loro obiettivo era tuttavia l’equivalente europeo delle due torri newyorkesi. Se quest’ultime erano l’espressione dell’opulenta potenza americana, Charlie Hebdo , giornale satirico, libero, laico, irrispettoso, carico di un humor dissacrante, era l’espressione della libertà di stampa ed anche di uno schietto spirito repubblicano francese. I due uomini in nero hanno voluto punire il giornale che aveva pubblicato delle caricature di Maometto, ma hanno colpito il più nobile principio della democrazia europea, la libera opinione.
Charlie Hebdo , giornale senza tabù, la rappresentava. A fondarlo, col nome iniziale di Hara Kiri Hebdo, fu François Cavanna, grande inventore di parole, sfacciato e sentimentale. Aveva avuto una madre dell’Auvergne , terra della Francia profonda, del terroir, e un padre emigrato dalla collina piacentina. Il padre non parlava il francese e la madre non parlava l’italiano. Si capivano esprimendosi con i loro rispettivi dialetti. Cavanna ha scritto Les Ritals ( sinonimo di italiani) che è la sua storia di ragazzo italo-francese. Morto anni fa, parlava e scriveva un francese ricco, colorato, innovatore, geniale, ma quando passava all’italiano finiva in un groviglio di dialetti in cui c’erano tracce dell’emiliano del padre e dell’ auvergnat della madre. Un idioma incomprensibile.
I due armati di kalasnikov, e in tuta nera, hanno ucciso quelli che potevano essere considerati i suoi discepoli. Wolinski, Cabu, Tignous, Charb, i grandi disegnatori umoristi di Charlie Hebdo, e altri, erano tutti là per una riunione di redazione. Gli uomini in nero gli hanno scaricato addosso più di 30 pallottole. E’ difficile contare i colpi delle raffiche. E’ invece semplice contare i morti: 12 finora. Ma il numero potrebbe aumentare alcuni feriti sono gravi.
Di che razza erano gli assassini? Dopo avere vuotato i caricatori sui giornalisti sorpresi e inermi, hanno esclamato : «Abbiamo vendicato il Profeta ». E ancora : «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo ». Poi il tradizionale omaggio musulmano a Dio, Allah Alkhbar . Avrebbero anche detto di appartenere ad Al Qaeda. Il loro accento francese è apparso autentico. Lo afferma la disegnatrice Corinne Rey : «Ero andata a cercare mia figlia all’asilo e arrivata davanti alla casa in cui si trova il giornale due uomini mascherati e armati ci hanno minacciato. Volevano entrare, salire e ho dovuto fare il codice che apre la porta. Hanno sparato subito su Wolinski, su Cabu…E’ durato cinque minuti…Mi sono rifugiata sotto una scrivania … parlavano un francese perfetto. Hanno rivendicato la loro appartenenza ad Al Qaeda». Questo spiega la sosta dei due uomini al numero 6, dove hanno atteso che qualcuno componesse il codice per aprire la porta del numero 10. Corinne Rey è servita a questo. La sua testimonianza sul francese “ perfetto” degli assassini accende tante ipotesi: molti immigrati arabi parlano un buon francese. Ma si può escludere che si trattasse di autentici francesi convertiti all’Islam, come quelli che hanno raggiunto il califfato in Siria? Stando alle ultime notizie si tratta di tre uomini, due fratelli di 34 e 32 anni, e un giovanotto di 18, franco-algerini con una lunga esperienza in Siria e Iraq.
Lo stile terrorista, nonostante il richiamo ad Al Qaeda, è più simile a quello di Daesh, il califfato. C’è la sinistra teatralità che vuole ferire i sentimenti occidentali, impaurire la società e suscitare l’adesione dei virtuali jihadisti. Ai gruppi sparsi che si richiamavano un tempo ad Al Qaeda, che non erano diretti ma ispirati dall’organizzazione di Bin Laden, sono succeduti probabilmente gruppi ispirati dal califfato. Il quale con i video delle decapitazioni e i successi militari in Siria e in Iraq colpisce molto più gli islamisti sparsi nel mondo.
Charlie Hebdo era un obiettivo spettacolare. Come sinistramente spettacolari erano le gole tagliate mostrate al mondo intero. Ma quel che stupisce è il rigido comportamento degli assassini, dietro il quale c’è un addestramento che fa immaginare un’adeguata organizzazione. E non il fanatismo dei kamikaze finora protagonisti degli attentati.
Dopo avere compiuto la strage i due uomini in nero hanno dimostrato, appunto, il sangue freddo di militari preparati ad azioni di commando. Non sono saliti sull’automobile con la fretta di chi fugge. Uno di loro ha raggiunto un poliziotto ferito mentre li inseguiva. Era steso sul marciapiede e il terrorista gli ha sparato alla nuca. Il secondo terrorista deve avere perduto una scarpa, perché ne ha raccolta una di tela sull’asfalto. Poi sono saliti in macchina e si sono diretti verso la Porta di Pantin, dove hanno rapinato un’altra macchina e con l’autista ancora a bordo si sono dileguati. Era tutto calcolato. Avevano scelto l’itinerario da seguire per sfuggire alla caccia scatenata dalla polizia. Alle spalle si sono lasciati gli 11 cadaveri, poi diventati 12, e 8 feriti dei quali alcuni gravi.
Nel parlare delle vittime Corinne Rey nomina per primo Wolinski. E’ stato il primo ad essere colpito ? Georges Wolinski aveva 80 anni ed era un disegnatore celebre da tempo. Le sue caricature erano forti. Era un simpatico provocatore. Quando cronista lo trovavo su un avvenimento alla ricerca di un’ispirazione per i suoi disegni mi rimproverava di essere un moderato. Leggeva l’italiano. La madre era un’italo- francese di Tunisia e il padre un ebreo. Se stentava a fare un disegno ed era colto dalla collera gettava il foglio contro il computer e diceva : « Sbrigatela con lui ». Jean Cabut, detto Cabu, aveva 76 anni. Bernard Verlac, detto Tignus, ne aveva 57. Stephan Charbonnet, direttore del giornale, che firmava le caricature con lo pseudonimo Charb, ne aveva 10 di meno. Erano i disegnatori più famosi di Charlie Hebdo . I quali non risparmiavano le caricature di Maometto ai musulmani, ma neppure quelle del Papa ai cattolici, e quelle dei rabbini, o dei dirigenti israeliani, agli ebrei. Erano uomini che praticavano humor e sfacciataggine con l’obiettivo di suscitare risate. Un modo per relativizzare i fatti della vita, e in particolare della politica. Così praticavano la laicità. Non mancavano di coraggio perché le minacce piovevano sul loro giornale da anni. Il loro giornale era una trincea avanzata della libertà d’opinione. I poliziotti di guardia alla redazione non erano una protezione rassicurante. Tra i morti ci sono anche 2 agenti.
Il presidente della Repubblica è accorso in rue Nicolas – Appert, quando i feriti venivano ancora curati sul posto, e ha subito lanciato un appello all’unità nazionale. Poi ripetuto in serata in un discorso televisivo rivolto alla nazione. Hanno imitato François Hollande i rappresentati delle varie religioni a porte chiuse, nel palazzo dell’Eliseo. Quelli musulmani hanno pubblicamente condannato con forza la strage e ribadito la loro fede repubblicana. I musulmani in Francia sono 6 milioni. La cifra non è ufficiale perché non ci sono censimenti sull’ appartenenza religiosa dei cittadini. Sono proibiti. L’islamofobia cresce tuttavia e si traduce spesso in successi elettorali per l’estrema destra. Il Front National di Marine Le Pen, pur avendo sfrondato il linguaggio del vecchio Jean Marie, il padre fondatore che non rinunciava al razzismo, antisemitismo compreso, ha conservato una netta posizione anti-immigrati. Come la Lega italiana di Salvini, sua alleata. La strage nella redazione di Charlie Hebdo non può che favorire la crescita del Front National, al quale viene già aggiudicato un 30 per cento virtuale alle prossime elezioni presidenziali.
La caccia agli assassini si è estesa a tutta la regione parigina. Le periferie popolate di immigrati musulmani non sono state certamente trascurate. Ma la preoccupazione maggiore è di risparmiare un’eccessiva frustrazione dei milioni di magrebini dispersi nel paese. E di evitare soprattutto incidenti tra comunità. Le piazze di molte città, da Lione a Tolosa, si sono riempite per esprimere solidarietà a Charlie Hebdo . La folla agitava cartelli su cui erano scritti, insieme al titolo del settimanale, i nomi dei disegnatori uccisi. Il trauma nazionale è forte. Le misure di sicurezza adottate in molte scuole e istituzioni pubbliche hanno dato la sensazione che la minaccia di altri attentati sia reale. Del resto lo stesso Hollande ha detto che negli ultimi giorni ne sono stati sventati parecchi.
La strage di Charlie Hebdo è avvenuta in un momento in cui il problema della presenza islamica in Francia viene dibattuto con passione. Il libro del giornalista Eric Zemmour , dal titolo Suicidio francese , descrive la presenza dei musulmani una calamità, di cui sarebbe bene liberarsi. Il saggio panfletario ha venduto più di 100mila copie, tallonando le opere del Premio Nobel, Patrick Modiano. Un romanzo di grande successo già dalle prime ore di uscita nelle librerie, Sottomissione di Michel Houellebecq, descrive una Francia governata nel 2022 da un presidente musulmano, che con spirito tollerante sopporta l’opposizione del Front National, solo partito sopravvissuto a quelli tradizionali. La democrazia musulmana non esclude la poligamia, l’emarginazione della donna, ed altri precetti del Corano, adeguati alla società europea, rassegnata al nuovo potere. Il paradossale talento di Houellebecq occupava nelle ore precedenti alla strage di rue Nicolas-Appert radio e televisioni sollevando dibattiti : contestazioni e approvazioni : e attizzando i timori, le paure, di milioni di ascoltatori e telespettatori non tutti esenti dall’angoscia suscitata dalla presenza islamica, presentata come un suicidio della Francia o una Sottomissione europea, come dicono i titoli di Zemmour e di Houellebecq. Le due opere, di diverso valore, appaiono adesso come un commento preventivo alla strage.

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ANAIS GINORI, LA REPUBBLICA -
«Dimmi che non è vero. Stéphane non è morto». La moglie di Stéphane Charbonnier cammina sul sangue, riesce a fendere i cordoni di sicurezza. Chiede di salire negli uffici di Charlie Hebdo, al secondo piano. «Lo voglio vedere. Fatemelo vedere». Suo marito, alias Charb, era il direttore del settimanale satirico. Aveva 48 anni. «Meglio di no, madame» risponde un poliziotto che subito tace. Dovrebbe aggiungere: non è più una redazione, madame, è un campo di battaglia. I primi soccorritori sono rimasti sotto choc. «Non abbiamo potuto fare nulla, erano tutti morti», racconta Solange, che partecipa all’accoglienza delle persone ferite sulle scale, nell’androne, in strada. L’ospedale di emergenza è allestito in un popolare teatro. Ieri mattina un infame regista ha voluto calare il sipario sulla Francia.
La Comédie Bastille, proprio di fronte alla sede di Charlie Hebdo, è diventata l’unità di crisi di medici e investigatori che smistano testimonianze, organizzano i prelievi, raccolgono i bossoli a terra. Gli psicologi dovrebbero dare supporto ai sopravvissuti, ma anche loro vacillano. Non esistono parole giuste. Offrono coperte termiche, forse pensando che aiuti a sopportare una misteriosa calamità, qualcosa di umanamente incomprensibile. La rue Nicolas Appert, vicino a Bastille, è una piccola strada a traffico limitato. Un posto dove i bambini del quartiere vengono a giocare. «All’inizio pensavo fossero petardi di ragazzi» spiega Sandrine Tolotti, caporedattrice del mensile Books. «Mi sono affacciata alla finestra e ho capito ». È entrata pochi istanti dopo la sparatoria nella redazione in un silenzio irreale. I colleghi di Charlie Hebdo sono sempre pronti a scherzare, offrire un caffè, una scapigliata famiglia. «Non c’era più nessuno, a parte i cadaveri». La palazzina di proprietà del comune è una cittadella di media. Proprio di fronte a Charlie Hebdo, c’è la sede la redazione dell’agenzia Première Ligne. Martin Boudot ha sentito un collega entrare urlando: «Kalach!, kalach!». «Abbiamo sbarrato la porta con sedie e tavoli — continua — e siamo saliti sul tetto».
L’intero perimetro è ormai transennato, operatori e fotografi sono tenuti fuori. François Hollande arriva davanti al palazzo, non sale. Si fa raccontare tutto dai poliziotti. «Presidente, è il più grave attentato dal dopoguerra», dice un agente. Un altro funzionario chiosa: «È il nostro 11 settembre». Un dirigente del ministero dell’Interno sente che c’è un video in cui è filmata l’esecuzione del secondo poliziotto. «Me ne sbatto del video. Voglio trovarli, hanno ucciso giornalisti e poliziotti. Hanno attaccato i simboli della Francia ». Alain, che ha un atelier al pianoterra dell’edificio, era uscito a prendere un caffè. «In un attimo, è stata la guerra».
Un commando militare. «Erano così professionali che li ho scambiati per forze speciali che inseguivano trafficanti di droga» spiega Richard, venuto a fare una vista medica nel palazzo. Gli attentatori sapevano che ogni mercoledì mattina si svolge la riunione del settimanale. Andavano a colpo sicuro. Intorno alle undici mettono in atto il loro piano, compiendo un primo errore: due uomini entrano al civico 6 e non al 10. Un terzo uomo resta in strada. Minacciano il portiere, lo uccidono, si dirigono verso la sede del giornale. In fondo a un corridoio c’è la porta blindata. Ha un codice di sicurezza. I due uomini s’imbattono nella vignettista Corinne Rey, che si firma Coco. «Ero andata a cercare mia figlia all’asilo — racconta — . Tornando in redazione, davanti alla porta del palazzo del giornale, due uomini incappucciati e armati ci hanno brutalmente minacciato». La donna presa in ostaggio li porta in redazione. «Volevano entrare. Ho aperto la porta con il codice numerico ». La sala di riunione è all’ingresso, sulla sinistra. Gli attentatori cercano Stéphane Charbon- nier. «Dov’è Charb? Dov’è Charb?», ripetono chiamandolo con il nome di penna. Colpiscono Charb e la sua guardia del corpo. La raffica di kalashnikov prosegue. Intorno al tavolo non sopravvive nessuno: i vignettisti Georges Wolinski, Jean Cabut, in arte Cabu, e Bernard Verlhac, detto Tignous. Almeno una trentina di colpi nella redazione. Muore anche un grafico, l’economista Bernard Maris che collaborava con il gior- nale e un lettore invitato. Gli attentatori urlano “Allahu Akbar”, Dio è Grande, e “Abbiamo vendicato il Profeta”. La disegnatrice Coco ricorda: «Mi ero rifugiata sotto la scrivania. Parlavano perfettamente francese. Dicevano di essere di Al Qaeda».
Gli attentatori scendono in strada. Comincia la sparatoria con la polizia, ripresa in un video di giornalisti di Première Ligne rifugiati sul tetto. La Citroën nera avanza fino a boulevard Richard-Lenoir. Un agente viene ferito. Cade a terra. Uno degli attentatori si avvicina. Gli spara addosso il colpo di grazia. Nel video ripreso da un abitante del quartiere si sente che ripete «abbiamo vendicato il Profeta » e «abbiamo ucciso Charlie Hebdo». Gli attentatori proseguono verso nordest, l’auto ha un primo tamponamento in place du Colonel Fabien. La macchina viene abbandonata in una strada adiacente. Il commando sequestra un’altra auto privata, una Clio grigia. Alle 13 si perdono le loro tracce. In serata arriva la notizia di tre persone identificate a Jennevillieres.
In rue Nicolas Appert scende la nebbia. A tarda sera, Delphine posa a terra una rosa. È una fedele lettrice di Charlie Hebdo. Partecipa anche lei al pellegrinaggio laico vicino alla sede del giornale, ancora circondata dai poliziotti. «È sconvolgente », dice. «Come si può attaccare un giornale che difende i nostri valori repubblicani?». Sulla facciata del palazzo di fronte alla redazione di Charlie Hebdo c’è un gigantesco graffito. Forse Charb e gli altri “eroi”, parole di Hollande, guardavano spesso dalle loro finestre questo affresco: un porticato oltre il quale si intravede il mare. Un orizzonte di libertà mai così prezioso.

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PAOLO BERIZZI, LA REPUBBLICA -
Hanno attaccato come i cobra e sono fuggiti come lepri braccate. Per tutto il giorno li davano rintanati in un buco del «93», Seine-Saint-Denis, la banlieue più criminale di Francia. Invece erano già lontano dalla suburra parigina, perché sapevano che era lì che avrebbero iniziato a dargli la caccia: 3 mila uomini armati fino ai denti, poliziotti, gendarmi, le unità speciali dell’esercito. Li hanno stanati dieci ore dopo il massacro i boia con il passamontagna in testa e il fucile sguainato a mo’ di scimitarra. Li avrebbero identificati da un documento abbandonato nell’auto usata per la fuga. Un sito israeliano e fonti Usa citate da Nbc — ma la polizia francese smentisce — dicono che due sarebbero stati arrestati, uno ucciso.
Eccoli, i sospettati sono i fratelli franco algerini, Said e Chérif Kouachi, 34 e 32 anni. Sono nati a Parigi e hanno gravitato a Jennevilliers, nella regione dell’Île-de-France come il loro complice, Hamid M., un diciannovenne senza fissa dimora. Sul loro profilo si sa ancora poco. Una cosa sarebbe confermata: si sono fatti le ossa in Siria, nei feudi del califfato. Terroristi spietati, addestrati per fare una strage. Per lavare col sangue l’onta di Charlie Hebdo. A sera le teste di cuoio hanno individuato gli attentatori a Reims, 140 chilometri da Parigi. Un’operazione, in tre luoghi diversi, nel quartiere Croix Rouge dove la polizia ha circondato un edificio vicino a un liceo e a Charleville-Mezières dove è stata fermato un familiare dei sospettati. Uno dei tre terroristi era già noto alla polizia: nel 2005 è stato arrestato — mentre stava partendo per Damasco — nel corso di un’operazione contro una filiera jihadista irachena con base nel 19mo arrondissement di Parigi. Lo stesso luogo dove ieri a mezzogiorno gli assalitori hanno fatto perdere le loro tracce.
Chi sono? Come hanno agito? Si vede che sono cecchini abituati al combattimento a corto raggio, il più ravvicinato: avanzano, piombano sulla vittima, la falciano, e si ritraggono. Un primo assalto. Poi ancora. Cinquanta metri dopo. Scatenano l’inferno dosando la scansione dei tempi, la velocità del sangue: prima fulminei, da piano terra al secondo piano della redazione di Charlie Hebdo. Riscesi in strada rallentano, una molla che ripiega, freddi, calmi nella loro ferocia, mai in confusione. Scaricano una pioggia di proiettili sull’auto della polizia: siamo ancora su rue Nicolas Appert. Gli agenti sono costretti a indietreggiare, e intanto c’è un altro «agnello», l’agente di polizia Ahamed, che sta andando incontro alla morte distribuita dai «vendicatori del profeta Maometto». Tre, secondo il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. I due franco-algerini e un terzo giovane che li ha aiutati. Spostiamoci in boulevard Richard Lenoi. Lì, nel video girato dall’alto, li vedi bene. L’agente Ahamed è a terra, ferito dalla prima sventagliata di kalashnikov. Loro mollano la Citroen C3 nera in mezzo alla strada e «prendono» la scena, il fronte. Sparano a alzo zero. Uno dei due plana sul poliziotto e finisce il lavoro con un colpo in testa. Adesso possono tornare in macchina, senza troppa fretta.
«E’ gente che è stata formata nei territori siriani», dice nel pomeriggio l’esperto di terrorismo Claude Moniquet. Tengono i fucili vicini al corpo protetto da tenute antiproiettile; li maneggiano con una destrezza impressionante. Non importa se parlano perfettamente il francese – come ha riferito la vignettista Coco – o se, ed è la sensazione acustica che si ricava ascoltando le voci nel video che ha ripreso pezzi del massacro, il loro è un francese «sporco».
Terroristi dell’Isis? Esecutori di Al Qaeda? «La vendetta per il profeta Maometto è solo agli inizi — ha twittato in serata uno jihadista del califfato nero — andremo avanti fino a quando non li avremo sterminati tutti, assieme all’ultimo dei loro governi». Per i media arabi, ma tutto è ancora da riscontrare, è il testo della «rivendicazione della strage». Una macelleria che si consuma dentro 40 minuti di follia. Fino all’ultima immagine. Ore 12,30: Porte de Pantin. Nord-Est di Parigi. Dopo una corsa a 200 km all’ora per le strade della città, la Citroen nera degli attentatori tampona una Volkswagen e investe un pedone. Siamo al confine con il 19esimo arrondissement. Dove inizia a affacciarsi una delle possibili tane, magari per un primo “passaggio”: quella banlieue Seine-Saint-Denis che verrà setacciata per tutto il giorno anche dai reparti speciali delle forze di sicurezza. Il commando molla la prima auto in rue de Meaux: scatta la staffetta con una Renault Clio grigia. E qui le tracce dei terroristi sfumano. Parigi è una città blindata, paralizzata dalla paura. Gli agenti della brigata «anti-gang» perquisiscono appartamenti a Jennevilliers e a Pantin. È trascorsa la lunga notte del 7 gennaio. La drammatica profezia di Stéphane Charbonnier, direttore del «Charlie», «Charb», come si firmava, si è compiuta. «Ancora niente attentati in Francia» recitava ieri mattina la sua ultima vignetta. Sotto, la risposta di un terrorista islamico con il fucile in spalla: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per farvi i nostri auguri».

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PAOLO LEVI, LA STAMPA -
«Allah è grande: siamo qui per vendicare il Profeta»: incappucciati, vestiti di nero, come l’auto nera che li ha portati a insanguinare Parigi, con la Francia colpita al cuore dalla strage più sanguinaria degli ultimi cinquant’anni e oltre centomila manifestanti in tutte le piazze della République a piangere i suoi «eroi».
Sono le 11,30 quando la Citroën C3 dei terroristi - due franco-algerini, di 32 e 34 anni, rientrati quest’estate dalla Siria, con un complice di 18 anni - arriva davanti alla sede di Charlie Hebdo, il settimanale satirico minacciato per le sue vignette sull’Islam e Maometto.
Azione militare
Un’operazione fredda, come questo cupo inizio d’anno parigino, da commando militare, che ha portato alla morte di dodici persone - tra cui otto giornalisti - e undici feriti, di cui 4 gravissimi. Sotto i colpi sono caduti anche l’economista Bernard Maris, che aveva una rubrica su Charlie Hebdo, un addetto alla portineria, un poliziotto accorso in bicicletta dal commissariato vicino e un altro che era di guardia all’interno della redazione per proteggere il direttore. Pochi minuti, un’azione precisa, letale.
«Dov’è Charlie Hebdo? Dov’è Charlie Hebdo?», gridano Said e Cherif Kouachi, franco-algerini già noti ai servizi, prima di mietere la loro prima vittima, il portiere dell’edificio della Rue Nicolas Appert, dove ha sede la rivista.
Nella moderna palazzina a due passi dalla Bastiglia, è l’inizio della mattanza. «Allah Akbar! Allah Akbar! siamo qui per vendicare il Profeta!»: le urla dei killer colgono di sorpresa i giornalisti durante la prima riunione di redazione dopo le feste. Il direttore Charb (Stéphane Charbonnier) e i tre vignettisti Georges Wolinski, Cabu (Jean Cabut) e Tignous (Bernard Verlhac) cadono sotto il fuoco dei kalashnikov, insieme ad altri quattro giornalisti, all’agente incaricato della sicurezza del direttore e all’economista Maris. Come in una tragica profezia, nella sua ultima vignetta lo stesso Charb aveva ritratto un fondamentalista islamico con barba e fucile a tracolla. Titolo: «Ancora nessun attentato in Francia». Commento del fondamentalista: «Aspettate, abbiamo tempo fino a fine gennaio per presentare gli auguri».
I minuti del terrore
In redazione, la carneficina dura pochi minuti, alcuni riescono a fuggire sui tetti, altri si nascondono dove possono, poi il silenzio. I due attentatori prendono poi la fuga, infilandosi nell’auto nera. Segue un violento scontro a fuoco con le volanti della polizia che finisce con la tragica esecuzione di un agente.
La Citroën continua la sua corsa verso il Nord di Parigi, investendo violentemente un’altra auto a place du Colonel Fabien, nei pressi del parco della Villette. I terroristi sono costretti ad abbandonare il veicolo, poi sequestrano con la violenza una Renault Clio e proseguono la fuga.
E ieri notte alla periferia di Reims - dove si sono nascosti i terroristi - è scattato il blitz delle forze speciali francesi.
In tutto il Paese comincia la caccia all’uomo e le piazze cominciano a riempirsi di manifestanti. Trentacinquemila a Parigi, oltre dodicimila a Lione. E poi Marsiglia, Rennes, Brest, Bordeaux, Lille, ma anche Bruxelles e Roma, con una fiaccolata silenziosa organizzata davanti all’ambasciata di Francia in piazza Farnese. I messaggi di solidarietà arrivano in un flusso continuo da tutto il mondo: il presidente Usa Barack Obama, Ban Ki-Moon, Angela Merkel, Matteo Renzi, Cameron.
La Francia piange gli «eroi»
In piazza molti hanno cartelli con la scritta «Je suis Charlie», o messaggi di sostegno ai giornalisti e alla libertà di espressione. Qualcuno porta dei fiori, soprattutto rose bianche, deposti ai piedi della statua che raffigura la République. Tantissimi brandiscono penne e matite, «le nostre armi di oggi»: la stessa impugnata dai vignettisti e dai giornalisti caduti sotto i colpi di kalashnikov degli attentatori. «Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio», disse una volta Charb. «Questi uomini sono morti per l’idea che avevano della Francia, e cioè per la libertà»: ha detto il presidente Hollande, che ha definito le vittime «i nostri eroi» e ha decretato il lutto nazionale.
In mattinata, davanti alla sede del settimanale, Danil Boubakeur, presidente dei musulmani di Francia, aveva condannato «l’orrore di questo crimine indicibile», chiedendo di non fare amalgama tra la sua religione e questi barbari assassini.

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ALBERTO MATTIOLI, LA STAMPA -
Ieri sera, in place de la République gremita da 35 mila persone che si erano autoconvocate su Twitter con l’hashtag #jesuischarlie, «io sono Charlie», a un certo punto della veglia una donna ha alzato una matita. E subito si sono viste decine, centinaia e poi migliaia di mani fare lo stesso. Messaggio chiaro: le matite contro i kalashnikov sono la ragione contro il fanatismo, la libertà contro l’intolleranza. «Ma bisognava farlo vedere, se no sarebbero morti invano», mi ha detto una donna che portava il badge «Je suis Charlie» sul soprabito. Poi si è messa a singhiozzare.
Assassinati in redazione
Quelle che tutti sperano non siano morte invano sono le dodici persone assassinate ieri nella redazione di Charlie Hebdo, dov’era il giorno della riunione per decidere i contenuti del prossimo numero. È stato l’11 settembre della stampa. Con un paradosso: che sono morti da martiri i giullari, che oggi fanno piangere quelli che hanno sempre fatto ridere. Charlie Hebdo era un settimanale di satira a fumetti, un po’ Linus e un po’ Cuore, con qualche scivolata sul Vernacoliere: talvolta volgare, spesso divertente, sempre irrispettoso.
Firme senza nomi
Era (ed è) difficile collegarlo con una tragedia. Castigava i costumi, ma ridendo. E infatti le sue firme non avevano nome, a parte quello d’arte che si erano scelte: i morti ammazzati al grido di «Allah è grande» sono i disegnatori Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, più l’economista e azionista Bernard Maris, che per i lettori era «l’oncle Bernard», lo zio Bernardo. Come si poteva prendere sul serio questa banda di zuzzurelloni, che non prendeva sul serio niente, e nemmeno se stessa? Eppure, come ha detto Hollande, sono «eroi morti per l’idea che avevano della Francia, cioè la libertà».
Contro tutti i poteri
«Figlio del Sessantotto e dell’irriverenza», il giornale sparava su tutti i poteri, purché fossero costituiti: la politica (più a destra che a sinistra), l’Armée, la Chiesa. E ultimamente l’Islam. E qui sono cominciati i guai. Perché nel 2006 Charlie Hebdo aveva ripubblicato le vignette su Maometto che erano uscite sul giornale danese «Jyllands-Posten» e avevano suscitato l’ira globale del mondo islamico. Il numero vendette 400 mila copie, il quadruplo del consueto, ma non tutti gradirono. L’allora presidente Jacques Chirac parlò di «manifesta provocazione», le organizzazioni dei musulmani francesi fecero causa (e la persero). Allora a firmare la querela fu Mohammed Moussaoui, che ieri era dal Papa e che ha condannato inorridito una strage che farà molto male anche all’Islam francese.
L’attacco con molotov
«Charlie» tirò dritto perché, spiegava il suo direttore Charb, se si esclude dalla satira qualche soggetto perché fa paura, in quel momento muore la satira e, con lei, la libertà. Così nel 2011 il giornale uscì con un numero speciale dal titolo «Sharia Hebdo» e, di nuovo, Maometto in copertina. La risposta, nella notte fra l’1 e il 2 novembre, fu una molotov che distrusse la redazione. Charb si fece intervistare con il giornale in mano fra i detriti ancora fumanti e «Libération» mise a disposizione la sua redazione perché «Charlie» potesse uscire ancora (idem ieri: i media hanno offerto ai giornalisti di «Charlie», almeno a quelli ancora vivi, tutti i loro mezzi «umani e tecnici» perché possano lavorare ancora).
Di nuovo nel mirino
Passò un anno, e nel ’12 «Charlie» finì ancora nel mirino. Aveva pubblicato delle vignette ispirate al film-bufala «L’innocenza dei musulmani», una misteriosa pellicola semiamatoriale che ottenne l’unico risultato (forse voluto) di scatenare proteste e violenze in mezzo mondo. All’epoca, sui social circolò l’invito a decapitare Charb. E pochi mesi dopo «Inspire», il magazine di Al Qaeda, mise il direttore di «Charlie» in una lista di nove nomi da eliminare, aperta da quello di Salman Rushdie. Loro, quelli di «Charlie», andavano avanti come sempre: ridendo. Ma era un riso amaro. Le minacce continuavano, con mail e telefonate anonime. Qui le testimonianze divergono. C’è chi sostiene che le intimidazioni stessero aumentando, chi invece che fossero meno violente. Probabilmente, la verità è che quelli di «Charlie» ci si erano abituati, come a vivere scortati.
La vignetta profetica
Nell’ultimo numero in edicola, una vignetta di Charb suona sinistramente profetica. Sotto il titolo «Sempre nessun attentato in Francia», un tagliagole islamico armato di kalashnikov dice: «Aspettate, per fare gli auguri c’è tempo fine alla fine di gennaio». È lo stesso Charb che, intervistato dopo la molotov, disse: «Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio».

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MARCO MOUSSANET, IL SOLE 24 ORE -
Il settimanale Charlie Hebdo vende soltanto 30mila copie ed è in perenne crisi finanziaria, ma in Francia è da oltre quarant’anni il simbolo – ancor più del ricco colosso Canard Enchainé – di un giornalismo totalmente irriverente e provocatorio, di una satira feroce che non risparmia nulla e nessuno. È nato nel 1970, con una testata che richiama il Charlie Brown di Schultz, dalle ceneri di Hara Kiri, costretto alla chiusura dopo una famosa copertina che ironizzava pesantemente sul balletto di politici al funerale del generale Charles de Gaulle.
Due dei vignettisti (giornalisti ed editorialisti) di Charlie uccisi ieri arrivano proprio da quell’esperienza e nonostante l’età non avevano perso nulla della verve di allora. Il più noto al grande pubblico era senz’altro Georges Wolinski, nato 80 anni fa a Tunisi da un padre polacco (assassinato quando lui aveva solo due anni) e una madre di origini italiane (la famiglia era di Livorno). Erotomane dichiarato (amava dire che avrebbe chiesto alla moglie di gettare le sue ceneri nel water, per continuare a vederne il sedere per sempre), pessimista e cinico, grande appassionato di vecchie Jaguar con casa a Saint-Germain-des-Prés, ha pubblicato 80 album, era stato premiato al Festival di Angoulème e la Biblioteca nazionale di Francia gli aveva dedicato una retrospettiva (a dimostrazione di quanto la vignetta è importante nel Paese).
L’altro era Cabu, nom de plume del 76enne Jean Cabut, vera colonna di Charlie (e proprio del Canard), padre del cantante Mano Solo (morto di Aids nel 2010), che aveva esordito insieme a gente come Reiser e Topor e aveva come unico rammarico quello di non essere abbastanza feroce nei suoi disegni. Il nome di un suo personaggio, Beauf, è entrato nei dizionari, per identificare il francese medio, conservatore, un po’ gretto, grossolano e maschilista.
Nel massacro hanno perso la vita anche Bernard Maris, 68 anni, stimato economista (professore a Paris VII e membro del Consiglio generale della Banca di Francia) che non disdegnava delle incursioni nel mondo libero e marginale di Charlie Hebdo, e il direttore (anch’esso vignettista) Charb, nome d’arte di Stéphane Charbonnier: 43 anni, era da tempo sotto protezione per le minacce ricevute dopo la pubblicazione delle vignette su Maometto. Tempo fa aveva ricordato che «su 1.058 numeri di Charlie Hebdo solo tre hanno suscitato un vero scandalo e sempre in occasione di copertine sull’Islam». «Ma andremo avanti – aveva spiegato – perché l’attacco alle religioni e la loro banalizzazione sono nel nostro Dna». Sull’ultimo numero del settimanale c’è una sua vignetta che sembra quasi un segno premonitore: il titolo è «ancora nessun attentato in Francia», e vi si vede un jihadista che dice «pazienza, abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare i nostri auguri».
Charlie Hebdo era nel mirino degli estremisti islamici fin da quando, nel 2006, ripubblicò le 12 vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Ma la situazione si è fatta ancora più tesa da quando, nel 2011, uscì con la testata modificata in Charia Hebdo. Lo stesso giorno un incendio doloso distrusse la sede, costringendo il settimanale a traslocare. Nonostante questo, le minacce (anche personali) e le incursioni informatiche, il giornale ha continuato ad andare dritto per la sua strada. L’edizione di ieri aveva in prima una vignetta sullo scrittore Michel Houellebecq e sul suo libro che immagina la sottomissione (questo è peraltro il titolo) della Francia all’Islam e la vittoria alle presidenziali del 2022 del leader del partito della Fratellanza musulmana.

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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE –
Determinati, sanguinari, addestrati con la precisione omicida di un commando militare, al grido di “Allah è grande” gli uomini in nero hanno portato la Jihad nel cuore dell’Europa parlando non in arabo ma in un francese fin troppo sciolto e corretto. Un atto di guerra che incendia il dibattito sull’Islam e l’islamofobia.
In attesa di una conferma che siano tre franco algerini gli autori della strage, l’impressione è che la nuova Guerra Santa recluta qui, in Europa, magari tra i reduci della Siria e dell’Iraq, tra ex militari e combattenti convertiti al radicalismo, tra gruppi mercenari e criminali che insanguinano la Sponda Sud: a migliaia con un passaporto europeo in tasca sono accorsi in questi anni sui campi di battaglia del Medio Oriente.
Per questo la Nuova Jihad appare ancora più insidiosa e ha fatto scattare l’allarme sicurezza ovunque, anche in Italia.
L’obiettivo era il settimanale satirico parigino Charlie Hebdo, una vendetta per le vignette dissacratorie su Maometto, ma si è trattato di un attacco generale all’informazione, ai valori fondanti della democrazia, la libertà di stampa e di espressione.
Le reazioni internazionali di condanna sono state unanimi: in gioco sono i princìpi della convivenza civile. Alle opinioni, anche le più diverse e non condivisibili, non si risponde con le pallottole.
Qual è, se esiste, la strategia? Questa è una prova di forza di un terrorismo che con un’azione devastante prende di mira non solo un giornale ma un intero Paese con una forte e storica presenza di milioni di musulmani: un terreno ideale di propaganda del messaggio jihadista e radicale perché la Francia è considerata la culla della laicità ma anche la nazione dove con l’ascesa della destra lepenista sta diventanto sempre più acceso lo scontro politico sull’immigrazione, sulla presenza di gruppi e fasce sociali che non condividono gli stessi valori repubblicani e secolaristi della Francia illuminista.
Ed è proprio a questi valori che si è richiamato il presidente Francois Hollande accorso sul posto dell’attentato.
Il terrorismo irrompe sanguinosamente nel dibattito infuocato sui valori nazionali e tenta di sfruttare gli spazi di un sistema democratico che intende comunque difendere a ogni costo la sua libertà di critica e di coscienza.
L’obiettivo è polarizzare la società, trascinarla in uno scontro tra fronti contrapposti, destinati ad alimentare la tensione, ad alzare sempre i più i toni fino all’esasperazione, inghiottendo anche i moderati verso posizioni sempre più radicali, in un senso o in un altro.
Con la violenza, feroce e inaudita, il terrorismo fa la sua avvelenata campagna di opinione in Europa per cogliere e sfruttare le contraddizioni del sistema democratico. Nel mirino non ci sono soltanto i valori occidentali in quanto tali ma gli stessi musulmani che una minoranza vuole mettere spalle al muro. Questo può apparire un gioco rudimentale ma fa parte proprio del messaggio della Jihad e dell’Islam radicale.
I mezzi di comunicazione di massa, web e social media sono il potente strumento di propaganda di parole d’ordine che servono a reclutare adepti o simpatizzanti.
E magari a innescare un processo imitativo e moltiplicatore per mettere in azione i terroristi fai da te, i lupi solitari, coloro ai quali ha rivolto un appello in un messaggio qualche tempo fa lo stesso portavoce del Califfato per colpire i miscredenti a casa loro. “Se non avete armi usate coltelli e pietre, se non avete pietre usate le vostre auto per ucciderli” ha dichiarato Ansari.
Come rispondere alla Nuova Jihad? Con le misure di sicurezza e l’intelligence ma soprattutto con una politica più accorta che eviti di dividere il campo tra buoni e cattivi nel tentativo, anche questo rozzo e assai miope, di risolvere problemi e alleviare frustrazioni che hanno poco a che fare con la religione o lo scontro tra civiltà.
E poi magari anche con una buona politica estera europea che sappia richiamare gli stati alle proprie responsabilità di controllo (quei pochi ancora in piedi in Medio Oriente) ed eviti di strizzare l’occhio all’islamismo radicale per ottenere lucrose contropartite dai suoi sponsor arabi e musulmani.
«Meglio morire in piedi che in ginocchio» aveva dichiarato due anni fa Stéphane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, rispondendo alle minacce per avere pubblicato le vignette su Maometto.
Una lezione di coraggio che ha pagato con la vita.
Ma l’impressione, al di là della grande emozione del momento, è che qui non siamo “tutti Charlie”.

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FRANCESCO PIERANTOZZI, IL MESSAGGERO -
Avevano scelto il nome, Charlie Hebdo, pensando a Charlie Brown, perché dissacrare, rompere le scatole, vedere altrimenti, è anche una forma di poesia. Era il 1970, Charlie Hebdo, che ieri hanno cercato di ammazzare col kalashnikov, nasceva sulle ceneri di Hara Kiri, il giornale che aveva dovuto chiudere per una vignetta molto irriverente sulla morte del generale De Gaulle. Da allora è stata una missione: commentare l’attualità, ma dando fastidio, colpire dove fa male, senza badare a niente, alla morale, al buon gusto, ai sentimenti. Poco importa le minacce, le denunce - tonnellate, mettono regolarmente a rischio la sopravvivenza del giornale - Charlie Hebdo è diventato un male necessario alla libertà d’espressione in Francia, le vignette più «cattive» erano, sono, qui.
IL SILENZIO
Ieri è stato lo sgomento, il silenzio. Persino tra i cronisti arrivati davanti alla redazione del settimanale, pochi minuti dopo l’attentato, quando si deve lavorare, cercare le notizie, le conferme, e non c’è tempo per la commozione, invece c’era silenzio, dolore, incredulità. Un minuto di silenzio è stato osservato nei giornali francesi e Serge July, l’ex direttore di Libération, ha lanciato subito l’idea: formare un comitato direttivo di personalità del giornalismo francese per far vivere il giornale, che ieri i terroristi hanno decapitato. Unica voce fuori dal coro, ma chissà, forse a Charlie Hebdo avrebbero stati capaci di apprezzarla, quella del Financial Times, che in un editoriale ha denunciato la «stupidità editoriale» del settimanale francese. «Sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà - ha scritto il Financial Times - quando invece provocano i musulmani».
Alle minacce, la redazione e i disegnatori di Charlie Hebdo erano abituati. «Minacce costanti ci sono fin da quando abbiamo pubblicato le caricature di Maometto - ha detto ieri Richard Malka, l’avocato del settimanale- Sono otto anni che viviamo sotto le minacce, ci hanno anche assicurato protezione, ma quando i barbari vengono con i kalashnikov, non c’è niente da fare».
Nel 2006 è lo scandalo: Charlie decide di pubblicare le caricature già diffuse dal danese Jyllands-Posten, che hanno provocato manifestazioni in tutto il mondo musulmano, Charlie affronta e vince i processi. Nel 2011, di nuovo: un numero intero ribattezzato «Charia Hebdo», capo redattore: Maometto. Il giorno dell’uscita, la redazione è colpita da un lancio di molotov ed è distrutta dalle fiamme. Charb, il direttore, che ieri i terroristi hanno cercato e ammazzato, aveva spiegato che l’islam non era per niente il loro obiettivo principale: «Abbiamo criticato molto più gli integralisti cattolici - aveva detto - In 19 anni, abbiamo avuto tredici processi con i cattolici e uno solo con i musulmani».
LA CARICATURA
Charb, poco mediatico, quasi timido con la parola, doveva sempre spiegare che «no, non siamo andati troppo oltre: siamo un giornale satirico di attualità, il nostro mestiere è parlare dell’attualità. E il nostro modo di parlarne, è la caricatura». E a chi li accusava, magari indirettamente, magari con fastidio, di andarsela a cercare, rispondeva che le loro armi erano la penna e il pennarello. Fare satira vera, senza concessioni, non si vende sempre bene: una media di 30mila copie a settimana, non abbastanza per navigare in acque sicure. Ma in redazione c’erano - ci sono - abituati, e qualche settimana avevano lanciato un nuovo appello alla sottoscrizione per salvare il giornale.
Francesca Pierantozzi