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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

L’AMORE VERO HA LE CORNA

Bocciata. Subito. Al telefono. Dagli 82 anni (li compie oggi) scanzonati di Paolo Villaggio. «Scusi – gli dico – va bene se le do del lei?» «No – ribatte –, mi dia del “voi”». «Scusi – insisto – dobbiamo pure usare i congiuntivi alla Fantozzi?» «No – risponde – se le riesce, li coniughi pure correttamente». Io speriamo che me la cavo, con lui che veste il ruolo di maestro come nel film diretto da Lina Wertmüller. Non me la cavo. Il tu diventa automatico e a quel punto anche l’intervista è conquistata. E non è impresa da poco, perché Villaggio, la sua casa romana e le sue malinconie non le apre a tutti. Lo incontro nel salotto. Tante foto di famiglia e di amici, molti libri, con una predilezione per i russi, la storia italiana, Fellini e il Corano.
Divani dai colori caldi, due labrador che mi prendono in simpatia ed Eleonor, l’aiutante colombiana dai modi gentili e ospitali. Villaggio indossa un caffetano nero e calza Crocs rosse. Occhi limpidi che entrano nei miei, un sorriso che ride. La barba bianca e una memoria che ripetutamente torna alla gioventù, con una voglia instancabile di riappropriarsene, almeno con la forza vibrante del racconto. Vive di passato e di presente, anche se avrebbe una voglia matta di futuro perché «la vecchiaia è una gran rottura di coglioni». È l’ora del the e noi la santifichiamo in tazze del servizio inglese. Lui ci aggiunge tre biscotti secchi.
Papà Ettore nato a Palermo, mamma Maria a Venezia, tu a Genova. Nel tuo Dna scorre il mare.... Cosa ricordi di quel rumore?
«A un certo punto lo dimentichi. L’ho sempre adorato il mare, più della montagna. Avevamo una casa a Cortina ma quello era il regno di mio fratello alpinista. Io mi godevo molto di più la barca a motore e la casa di famiglia a strapiombo sul mare, a San Bonifacio, in Corsica. I primi mesi a Roma sono stati tenibili. La mancanza del mare era una vedovanza incredibile. Da queste parti il mare è di quarta categoria, brutto, insignificante, non ha isole di riferimento. In Corsica ci andavo anche d’inverno, meraviglioso come in tutte le grandi isole mediterranee. Alla mia età il nuoto e la barca sono ormai sogni impossibili e nostalgici. Se vuoi continuare a vivere, il mare te lo dimentichi. Anzi ti capita di provarne fastidio, come mi è successo sull’Adriatico. Era un intruso. Non c’era nulla del libeccio ligure, quello che senti fino ad esserne stordito. A Roma, dove vivo da oltre 50 anni, quel tipo di vedovanza non ti pesa più. Qui si va al mare a magnà: il ristorante è un ovile, il punto di raccolta...»
Paolo, il mare ti ha scandito le tappe della vita...
«Il mare per me è sopratutto l’adolescenza. Allora le ragazze non le portavi al cinema, ma in spiaggia. Soprattutto di sera, verso il tramonto. Erano gli anni del boom economico. Qualcuno di noi aveva già la Topolino, eravamo di una felicità assoluta. Vivevamo il presente ma progettavamo il futuro. Lo riempivamo d’interrogativi e di desideri. Cosa fai? A Capodanno dove andrai? Perché t’iscrivi a matematica? Adesso invece i giovani hanno smesso di porsi domande. C’è sfiducia nel futuro, c’è solo voglia di far soldi. È così in tutta Europa, ma in Italia è angoscia vera. Si ribalta tutto. E gli uomini cedono autorità alla donne. Sono battagliere, non stanno zitte. Non si fanno comandare ma comandano. Un tempo a 16 anni dicevano già sì all’uomo che dava loro la possibilità di diventare moglie e fare figli. Cercavano una sistemazione. Le più belle si piazzavano con l’uomo ricco e la casa in campagna. Oggi sono autonome. Se ne fregano del ricco perché sperano di diventare ricche loro».
La donna di oggi ti fa paura?
«No, assolutamente. Ai miei tempi erano donne di una noia mortale. Pensa alla Pina, dimessa, dipendente, sempre disponibile. Ma con una grande freccia scoccata dal suo arco quando alla domanda del ragionier Fantozzi se lo amava, lei risponde: “Io Ugo ti stimo molto”. Una ferita atroce al comportamento autoritario maschilista dei mariti».
Sei uno da Guinness dei primati per la lunghezza del tuo matrimonio.
«Sì, sì, lo so. Ed è una cosa che mi fa onore. I matrimoni brevi sono di una tristezza mortale. Solitamente simulano anche un fidanzamento veloce da tanto si spera di sposare quella giusta. Tutto in fretta e dopo due mesi sono già ad accoltellarsi. Odio mortale per la persona con cui t’illudevi di voler vivere. E se ci sono figli sono loro a pagare il prezzo più alto. Il più delle volte il problema nasce dal non accettare le corna. Considero la fedeltà imposta dal matrimonio cattolico una baggianata. Io sono insieme a Maura da 60 anni. Facendo corna e subendo corna. L’ho scelta contro ogni logica del tempo, andando contro ai miei genitori. Di solito era mia mamma che sceglieva le fidanzate. E lo faceva secondo un giudizio contrario a quello della felicità, ma in base allo status sociale. E invece Maura è la mia vita, tutta la mia vita. Non sopporterei una sua assenza. L’ho conosciuta ai Bagni Lido, a Genova. Lei aveva 15 anni, io quasi 18. M’innamorai subito e il batticuorismo del nostro primo bacio resta tuttora il mio momento di felicità più alta. Una felicità personalissima, difficile da comunicare agli altri. Odore del mare. Notte senza luna. I pini che sembravano alberi di Natale. Raccolsi delle lucciole, le misi in un barattolo e le illuminai il viso. Per la prima volta mi accorsi che aveva le lentiggini e sulle sue labbra intravidi persino una leggerissima peluria. E capii che non sarei mai stato più felice. Sentivo forte l’odore di mia moglie. L’odore della felicità.»
Tu vivi intensamente gli odori. Sono venuta a teatro due sere consecutive per sentirti raccontare l’emozione dei pitosfori di cui non ne sapevo neppure l’esistenza.
«Brava! I pitosfori non li conosce praticamente nessuno. Sono alberi nani tipicamente liguri che hanno un profumo lieve, non invadente come quello della magnolia. L’odore del mare è molto forte, quello dei pitosfori c’è e non c’è. Un miraggio di profumo, uno dei più aristocratici che io abbia mai sentito. Una volta ero con Maura a Cuernavaca, in Messico. Ci sediamo a tavola con due amici. A un certo punto lei si butta dalla parte opposta della tavola. Lampeggio di lucciole, poi mi ha sorriso in modo speciale e mi ha detto: “Lo senti?”. L’odore del pitosforo, l’ho ritrovato lì perché in Liguria ormai è sterminato. Riprovare quell’emozione violentissima ci ha riportato entrambi alla notte magica del nostro amore. Brividi».
Che altri profumi ricordi?
«Quello delle labbra salate delle ragazze che ho baciato. Salate come il mare, il cui odore cambia di volta in volta a seconda di dove tira il vento. E quell’odore speciale che in Liguria solo il libeccio ti sa dare qui non arriva. Il primo odore che senti quando ti avvicini al mare è quello del fritto misto».
Il tuo amico più caro o stato Fabrizio De André, scomparso nel 1999. Come si fa a vivere tutto questo tempo nella sua assenza?
«Le persone le ricordi quando sono state importanti. Non a caso quando incontro qualche vedovo penso subito a una mia vedovanza che troverei insopportabile. Fabrizio era una presenza così spessa che non so come faccio a farne a meno. Con lui parlavo un linguaggio cifrato e sapevo esattamente al millimetro quali erano le sue reazioni. Suonare la chitarra era la cosa che lo emozionava di più. Abbiamo lavorato insieme a bordo della Federico C, nave della Costa Crociere. C’era anche il pianista Silvio Berlusconi che parlava solo di donne... De André era invece di una timidezza inaudita. Non voleva suonare, fino a quando il comandante lo prese d’imperio: “Senta mio caro, lei è qui ospite anche perché deve fare qualcosa”. “Bene, allora suono quello che voglio io” rispose. Tre classi separate: nella prima i ricchi ottantenni, nella seconda i 40enni dell’upper class, nella terza quelli con meno soldi. Beh, lui va in prima classe e si mette a strimpellare “quando la morte ti chiamerà...”. Puoi immaginare... Tutti quei vecchietti a toccarsi le palle... Era di una simpatia costruita, ma straordinaria. Con lui era un’abitudine vivere e averci a disposizione. Sì, averci a disposizione. Abbiamo litigato una sola volta... Una sera in cui c’erano anche i registi Elio Petri e Marco Ferreri. Improvvisamente Fabrizio mi urla che ha smesso di parlare bene di me. “Ma quando mai lo hai fatto?” gli rispondo incredulo. Io mi allontano, lui mi viene dietro. Sempre urlando. Inizia un inseguimento stradale. Io in auto, lui in motoretta. “Ho chiuso, ho chiuso, finalmente mi sono liberato di te” mi diceva. Nella notte telefona: “Non è vero un cazzo”. Era molto divertente. Lui aveva dei finti scatti d’ira che poi non riusciva più a controllare perché capiva che quello era il suo palcoscenico. E io il suo... subitore. Una sorta di copione teatrale. E ancora ricordo: le giornate di pioggia di fine novembre, nel 1962, in attesa che le nostre mogli partorissero. Lo hanno fatto a poche ore l’una dall’altra. Cristiano De André e il mio Pierfrancesco sono praticamente gemelli. Per ingannare la tensione lui si mise a strimpellare, ne uscì una melodia a cui io aggiunsi le parole. Ecco, così nacque “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”. Il sabato sera andavamo a fare uno spettacolo ad Albissola, nell’unico teatro della regione. Dopo dieci minuti iniziava: “Io mi rompo i coglioni qua”. E io: “Suona suona”. Abbiamo fatto delle cose non registrate eccezionali anche come ironia. Finte canzoni folk o finte canzoni sulla resistenza. Lui voleva canzoni orgiastiche, divertenti e invece poi gli applausi, sopratutto delle donne, arrivavano sui testi impegnati. Questo era lui. Al suo funerale a Genova è stata la prima volta che ho provato un’autentica commozione, avevo intuito che non l’avrei visto più. Quando il feretro è uscito dalla chiesa mi sono intenerito fino a provare una forte invidia: una piazza invasa da almeno 5mila giovani che lo applaudivano. Ecco, io mi dicevo, un funerale così affollato non lo avrò mai».
Ti hanno fatto morire già due volte...
«Non ho mai indagato ma ho il sospetto atroce che sia stata sempre la stessa persona. Un amico, ma molto invidioso di natura. Quando uno è di successo è normale che lo fermino e gli strofinino la gobba, invece così mi vedevano e si toccavano altro. Ho persino avuto la tentazione di scappare da quella falsa notizia, impiccandomi sul serio. L’arte del surreale. Mi ero già anche immaginato i presenti e gli assenti al mio funerale. Inspiegabili e irritanti le bigiate di Walter Veltroni e Roberto Benigni».
Ricordi spesso anche Massimo Troisi...
«È vero, una comicità diversa da quella di Benigni, ma due geni a modo loro. Ma lo sai? Né l’uno né l’altro sono mai riusciti a scrivere un libro. Io ne ho pubblicati trenta. E poi, anche se non fa effetto perché questo è un Paese dove si parla solo di televisione e calcio, ho vinto il premio Gogol come miglior scrittore umorista in cirillico, citato persino dall’immenso poeta Evtushenko».
Perché non hai mai concluso giurisprudenza?
«E meno male! Anche Fabrizio non l’ha finita. Diventare avvocato sarebbe stata una condanna. Mi sono fermato a 12 esami dalla laurea. Prendevo pure voti strabilianti, questione di memoria naturalmente. Tipo due 30 e lode in Storia del diritto romano, lo spauracchio del primo anno, con la terribile Loffredi, una carogna assoluta. Agli esami l’aula era sempre affollata. Tutti lì ad assistere al clima che creava questa iena. “Dove ha studiato lei?” mi ha urlato forte. A quei tempi si studiava o un libro di 200 pagine o il Bonfante che era un mostro. “Signora che domande strane che mi fa. Sul Bonfante, ovvio” gli risposi. E lì scattò quel 30 e lode che commosse anche mia moglie Maura. Mi ero iscritto a giurisprudenza non per convinzione, ma per scappare. Piero, mio fratello gemello diventato poi professore alla Normale di Pisa, era studente a ingegneria matematica. Io lo imitai, ma sin dalle prime lezioni capii che erano di una noia mortale. Resistetti un anno, poi passai a una facoltà più morbida. Ma non smisi mai di divertirmi, anche in mezzo ai secchioni. Tutta gente spietata, di grande moralismo. Mio fratello era un pazzo. Ricordo ancora un episodio. I nostri banchi erano di legno, dopo due ore ti ritrovavi con le chiappe cartonate. Un giorno sottrassi un cuscino alla poltrona di mia madre e lo affidai a mio fratello. In aula ci arrivava con una valigia gigantesca. C’era di tutto, anche il vocabolario Rocci che da solo pesava 4–5 chili. In classe riprendo il cuscino e mi siedo sopra. A un certo punto della lezione mio fratello si alza e urla al professor Campanella che un imbecillotto per stare comodo si è portato il cuscino da casa. E indica me. Il professore arriva, mi strappa il cuscino da sotto il sedere, va alla finestra e lo lancia dal primo piano. Applausi in classe. A quel punto il colpo di scena da eroe: mio fratello, alpinista e rocciatore, fa un salto nel vuoto, va a recuperare il cuscino e rientra da trionfatore nell’euforia generale».
Hai 74 film al tuo attivo. Il primo, “Eat it” di Francesco Casaretti, lo hai girato nel 1968 all’inizio della protesta studentesca.
«Non me lo ricordo neppure quel film. Il mio essere studente era finito da un pezzo. Ho frequentato il liceo classico D’Oria a Genova, cercavo di non dormicchiare e di sopportare l’insopportabile. Spesso inventavamo permessi per una commissione esterna e ce ne andavamo al mare. Non ai Bagni Lido, chiusi d’inverno, ma ai Bagni San Giuliano, quelli popolari. Ci tuffavamo anche a temperature rigide, eravamo abituati. Le lezioni erano sempre più deserte. Il preside aveva capito che i permessi erano per andare al mare e pretese non solo che fosse specificato il motivo, ma che avessero la firma dei genitori. La situazione diventò drammatica. Mia madre era di un moralismo... Ma dici davvero? 74 film? Ma è mostruoso... Maestri che non dimenticherò mai... La genialità di Monicelli, la dolce intelligenza di Fellini, l’irriducibile stakanovismo della Wertmüller, la poesia di Olmi...»
Hai vinto due David di Donatello, un Leone d’oro, un Nastro d’Argento, due premi Flaiano ma la verità è che tutti ti collegano a Fantozzi.
«Perché Fantozzi è il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità. Subisce, incassa, non reagisce ma partecipa sempre. È un simbolo, e non a caso il termine fantozziano è entrato nei nostri dizionari. È una storia e un personaggio vero. Nasce dalla mia esperienza d’impiegato alla Cosider, poi Italsider. Noia mortale. Scappavamo al mare in Lambretta. Lunghe nuotate fino alla boa, con la complicità di Amanda, una bellona. Lei in azienda era incaricata di farci sapere se qualche superiore ci cercava. In quel caso telefonava al bagnino Osvaldo con cui avevamo instaurato dei segnali in codice. Lui sventolava la bandiera rossa se dovevamo correre alle scrivanie, bianca se tutto era tranquillo. Era praticamente una gara a non fare. C’erano dei 40enni che si vedevano solo nella pausa caffè e applausi scroscianti a chi orgogliosamente dichiarava di non aprire una pratica da 22 anni».
Tu, quindi, prima di recitare Fantozzi sei stato Fantozzi...
«È proprio così. Nasce tutto da lì. La servitù, la povertà, il ricatto, le mogli ripugnanti. Già, me le ricordo ancora... Il sabato a mezzogiorno arrivavano a prendere i compagni di vita. Loro uscivano e dicevano: “Porca put... c’è sempre lei, ancora lei... mia moglie”. Il cinismo ligure. Io non ho mai sentito dire: “Sono innamorato di mia moglie”».
Il primo Fantozzi è del 1978. Mio nipote Pietro, a 7 anni, sa tutto di lui. Non ti fa impressione che il tuo ragioniere abbia attraversato il tempo e le mode?
«Caro Pietro, tu ami Fantozzi perché lui non è morto. C’è sempre, ti tiene compagnia. Da qualche anno ogni domenica Sky trasmette due film della saga e un Fantozzi o un Fracchia infrasettimanali. La popolarità e l’affetto che ho adesso non li avevo ai tempi di Fantozzi. Anzi allora mi dicevano, sopratutto, le donne, che erano film tristi, non c’erano storie d’amore. Ero apprezzato molto nei cineclub, da chi andava a vedere film di qualità. I primi due Fantozzi erano molto belli, gli altri mediocri, alcuni anche peggio. Però non avevo assolutamente l’adesione dei bambini. Ora invece i piccoli sono stabilmente parcheggiati di fronte al televisore, Fantozzi lo hanno visto e rivisto. Quando sono in giro vedo questi marmocchi molto timidi che hanno un foglietto in mano e mi chiedono l’autografo. Mentre gli anziani mi dicono che ho allietato la loro gioventù. Prima mi dicevano che in Ugo rivedevano un loro parente o il vicino di caso, ora mi ringraziano perché ho raccontato proprio la loro esistenza rassegnata. Fantozzi è stata un’operazione terapeutica aiutata tanto dai libri che la gente ancora comprava. Il primo ha venduto un milione e mezzo di copie, il secondo 700 mila. I bimbi non leggono e non vanno al cinema, ma mi adorano perché mi trovano abitualmente in tv. Oggi siamo succubi della dittatura televisiva».
I bimbi scelgono di vederti...
«Fantozzi è un personaggio, sfortunato, timido, sfigato come dicono loro. Lo amano perché è il loro vendicatore e alla fine manda a tutti un bel vaffa. È il loro sogno segreto nella timidezza che li avvolge. Fino a 10 anni sono silenziosi, subiscono senza reagire. Fantozzi è il loro supereroe. E ridono come matti allo sbotto della cagata pazzesca dopo la corazzata Kotiomkin. Una liberazione. La loro liberazione. Poi c’è la magia infantile della parolaccia. Ma quella “cagata.” è anche una forte picconata alla stupida arroganza del potere. E fatta dall’inferiore Fantocci è un’immagine memorabile. Il kolossal originale l’ho visto in un cinema di Mosca con mio padre, mio figlio e altre 10 mila persone in occasione di una commemorazione di Nikita Kruscev. Una noia mortale».
Siamo circondati da cagate pazzesche. Ma non tutti hanno il coraggio di esporsi...
«Bene e allora io ti dico che il libro Cuore, tanto idolatrato dall’infanzia fascista, è una cagata pazzesca. E poi ci aggiungo il Petrarca, un letargo senza fine. Sai invece qual è un capolavoro? Pinocchio, superiore anche ad Alice nel Paese delle meraviglie. Sublime è l’Inferno di Dante, mentre se fai una domanda sul Paradiso neppure quelli che parlano molto sanno rispondere».
Hai detto che sei un ateo che vorrebbe credere.
«Tutti noi lo vorremmo, sarebbe come vivere nella felicità assoluta. Era la certezza anche di chi pagava le indulgenze per cancellare i peccati e assicurarsi il meglio dopo la morte. “Io vorrei andare in paradiso”. “Ma sa quanto costa?” “Io al massimo posso permettermi il purgatorio”. “Aahahaha... pensa di farla franca così? Lei se non paga va dritto all’inferno”. La Chiesa non ci ha mai aiutato, non ha mai dato indicazioni precise. L’unico che lo ha spiegato in maniera mirabile è stato Dante con una Commedia di assoluta fantasia. Ecco, io dico che se qualcuno ha un senso profondo dell’aldilà può già considerarsi un santo. Naturalmente per arrivare in Paradiso valgono anche i trucchi dell’astuzia... Quanti ne ho visti rimettersi in carreggiata con l’arrivo della vecchiaia...».
Papa Francesco sta ricostruendo il concetto di Chiesa e di speranza.
«Questo Papa è abile perché ha ripescato il linguaggio del popolo. I papi una volta pregavano e parlavano in latino. Quando è stato eletto ha augurato un buon pranzo a tutti. L’emanazione di Dio che dice “buon pranzo. Inoltre ha fatto quello che i suoi predecessori avevano sempre scantonato: pulizia all’interno di una Chiesa devastata da gay e pedofili. Ed è aperto al dialogo anche sui temi più scottanti, come quello del celibato dei preti. Se segue questa strada il cattolicesimo può davvero fare una concorrenza spietata all’Islam che giustifica la guerra santa al punto che se ti fai esplodere uccidendone 80 vai diritto in Paradiso. La Chiesa invece insiste sul giudizio universale, tutti qui ad aspettare all’infinito il suono di quelle trombe che separeranno i buoni dai cattivi».
E tu dove andrai?
«Temo da nessuno parte, come tutti. E un po’ mi dispiace che finisca questa meraviglia assoluta che è la vita. Non ho paura della morte ma del momento in cui prendi coscienza che sta per finire tutto. Quella è la vera disperazione, la cosa più spaventosa. Meno male che c’è Dante: ha scritto un Inferno dove uno vorrebbe andare. Per starci. Io con Paolo e Francesca. Tutta la vita. Beh no, tutta la morte...».