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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

MERKEL, CAMERON E LA QUESTIONE BRITANNICA

In occasione della sua visita a Londra in queste ore, la cancelliera Angela Merkel andrà a vedere la bella mostra sulla Germania allestita al British Museum. Sarebbe utile una mostra sulla Gran Bretagna in un museo di Berlino. Infatti non è la questione tedesca a impegnare l’Europa oggi, bensì la questione britannica. «Dov’è la Germania?» si chiedevano Goethe e Schiller, ma era tanto tempo fa. Oggi la domanda è: «Dov’è la Gran Bretagna?». Come la questione tedesca un tempo, anche la questione britannica oggi si pone da un punto di vista “esterno” (la Gran Bretagna uscirà dalla Ue?) e “interno” (come gestire le istanze di autogoverno a seguito delle maggiori autonomie ottenute dalla Scozia?) Se i britannici fossero tedeschi affronterebbero entrambi i termini della questione con una serie di accordi costituzionali espliciti e logici, indicanti tutti i passi da compiere a livello europeo, federale (britannico), di nazione costituente (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord), regionale, comunale, locale. Personalmente credo che il nostro obiettivo dovrebbe essere un regno federale britannico in seno ad un’Unione Europea confederale. Tuttavia, come osservava nell’Ottocento il primo ministro conservatore Benjamin Disraeli, l’Inghilterra non è governata dalla logica, ma dal Parlamento.
Tutto dipende quindi dal Parlamento che verrà eletto il 7 maggio. Saranno elezioni imprevedibili quanto mai prima, almeno a mia memoria, per via dei possibili flussi elettorali verso e tra i partiti minori, ossia i Liberaldemocratici, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), il Partito nazionalista scozzese (Snp), i verdi, i nazionalisti gallesi e i partiti nord irlandesi. Avremo quindi una fase pre-elettorale di stampo tedesco, dominata cioè dal dibattito su numerose possibili ipotesi di governo. Quando ero piccolo esisteva una sola alternativa: governo conservatore o laburista. Non è più così.
La maggior parte degli analisti prevede un hung parliament , un “parlamento in stallo”. Bisogna dire che in Europa continentale molti parlamenti sono abitualmente “in stallo”, ossia privi di una maggioranza assoluta, per cui producono governi di coalizione o di minoranza. Se il nostro Parlamento “in stallo” (come accade sempre più spesso in Europa) non produrrà un governo stabile, si ventilano nuove elezioni. Ian Birrell, ex “penna” di David Cameron, ha persino ipotizzato un “governo di unità nazionale” formato dai due maggiori partiti. Una soluzione del tutto familiare ai tedeschi, che lo definiscono “Grande coalizione”.
La massima preoccupazione degli elettori in questa tornata non sarà certo il futuro costituzionale del paese. Verranno prima l’economia, i posti di lavoro, l’immigrazione, il servizio sanitario nazionale, la spesa pubblica, il deficit e il debito. Ma per quanto riguarda gli elettori inglesi, l’esito delle urne potrebbe ruotare proprio attorno alla questione britannica.
Apparentemente per ora sono i conservatori di Cameron ad avanzare le proposte politiche più interessanti per gli elettori inglesi. La risposta cameroniana alla questione britannica è il referendum sull’adesione alla Ue da tenersi nel 2017 e, a livello interno, lo slogan “ English votes for English laws ” che riassume la proposta di limitare ai soli parlamentari inglesi il diritto di voto sulle questioni relative all’Inghilterra. In questo caso, i conservatori agitano lo spettro di un partito laburista che in seno al parlamento di Westminster impone all’Inghilterra le proprie politiche grazie al voto dei parlamentari scozzesi nazionalisti guidati da Alex Salmond (i conservatori dispongono invece di una solida maggioranza di parlamentari in rappresentanza dell’elettorato inglese). Lo slogan “Voti inglesi per leggi inglesi” si presta anche a una lettura in chiave etnica, “l’Inghilterra agli inglesi”. Se gli elettori lo leggeranno solo come un no all’immigrazione poco importa, servirà a recuperare i voti conservatori confluiti nell’Ukip.
Ho detto che i conservatori apparente- mente avanzano proposte politiche migliori perché, come molte altre iniziative provenienti da Cameron che in passato ha lavorato come responsabile della comunicazione di una rete televisiva, la pubblicità fa la parte del leone. Ma se guardiamo dietro gli annunci patinati troviamo cartone, nastro adesivo e pentole arrugginite da scoperchiare. È assurdo ad esempio pensare di poter risolvere nell’arco di pochi mesi un rompicapo su cui i politici britannici si arrovellano dalla fine dell’Ottocento: cosa significa esattamente autogoverno per l’Inghilterra e come si concilia con l’autogoverno altrui?
Una proposta politica seria implica la delega dei poteri non solo in orizzontale, ma anche in verticale, alle città, alle contee e alle amministrazioni locali inglesi. Impone anche la completa riforma della Camera dei Lord. Ma anche in questo caso c’è qualcuno tra i “Tories” che pensa in grande. L’editorialista conservatore Charles Moore ha commentato sul Daily Telegraph una interessante proposta di Lord Salisbury, ex leader del gruppo “tory” alla Camera dei Lord. Per salvare il Regno Unito, la Camera dei Comuni dovrebbe diventare il parlamento inglese e al posto della Camera dei Lord andrebbe istituita una Camera alta elettiva per l’intero Regno Unito, deputata esclusivamente alle questioni che non siano oggetto di devolution, quelle cioè riguardanti la difesa, la politica estera e il bilancio nazionale (o federale?). Il primo ministro prenderebbe posto nella nuova Camera al- ta. Questa è la proposta del rampollo di una delle maggiori dinastie di conservatori del paese, quella del terzo marchese di Salisbury, il leader di partito che ha lottato in difesa dei poteri della Camera dei Lord, e del quinto marchese di Salisbury, che ha contribuito nello stile di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (“se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”) alla sopravvivenza della Camera dei Lord, limitandone le prerogative dopo il 1945. In che tempi viviamo se il settimo marchese di Salisbury avanza una proposta di riforma costituzionale più radicale di quelle avanzate nella storia dai vertici laburisti?
Può anche darsi che il Labour in realtà sia una fucina di grandi idee sulla questione britannica, ma se a me non dà questa impressione, dubito che la dia agli elettori indecisi. Sul tema “Europa”, il Partito laburista sostiene che si debba restare nella Ue, adoperandosi per una riforma dall’interno ed evitare un referendum fino a quando non si dovrà decidere su una questione significativa, ad esempio un nuovo trattato Ue. Quanto all’Inghilterra, Miliband è a favore di una assemblea costituzionale che esamini adeguatamente tutti questi complicatissimi temi. Sono entrambe posizioni del tutto ragionevoli, intellettualmente coerenti, con le quali simpatizzo. Ma non avranno un forte impatto sull’emotività degli elettori inglesi insoddisfatti. Sulla Scozia Miliband avrà del filo da torcere, perché il Labour scozzese, ovviamente, ha urgenza di recuperare i voti andati ai nazionalisti. Come reagirà il leader laburista alla richiesta di escludere in anticipo di poter andare al governo con il tacito sostegno dei nazionalisti scozzesi? Dirà che si rifiuta di esprimersi su questioni ipotetiche? Non sarà convincente.
C’era una volta un primo ministro laburista di nome Gordon Brown talmente ansioso di affrontare la questione britannica che arrivò a definire l’identità nazionale un esercizio tradizionalmente reputato poco britannico. Era un genere di introspezione che lasciavamo volentieri ai tedeschi. Come diceva Nietzsche, i tedeschi non smettono mai di interrogarsi su cosa è tedesco. Ma ora i ruoli si sono invertiti. I tedeschi pensano più a vincere sui campi di calcio che a definire la loro identità nazionale. Mentre i britannici non smettono di chiedersi cosa è britannico. A meno che il Labour non produca una proposta politica più chiara, credo che i conservatori conquisteranno voti sulla questione britannica, coniugandola all’inglese.
(traduzione di Emilia Benghi)