Gigi Garanzini, La Stampa 5/1/2015, 5 gennaio 2015
L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DEL GOL
Da stasera all’Olimpico romano, domani al più tardi nel caso gli attacchi di Lazio e Samp facessero cilecca, si ricomincia con i gol pesanti. In alternativa, pesantissimi. Vigliacco se si segna più un gol leggero, lieve, di quelli che accarezzano la rete regalandole un fruscìo sottile. No, solo roba da pesante a pesantissima, per il risultato, per la classifica, per il rilancio delle ambizioni piuttosto che per le sorti dell’allenatore. Ma anche per noi telespettatori, che in capo a una giornata calcistica di ordinaria spalmatura da pay-tv finiamo per accusare a nostra volta il peso di tutti quei gol, nel frattempo rimandati in onda senza soluzione di continuità, come se li avessimo subiti di persona.
Reti? Un tanto al chilo
Chissà chi sarà stato il primo a definire pesante un gol. Niente di male in sé, anzi un’immagine che rende abbastanza felicemente l’idea dell’importanza di quel gol. Ma anche il primo che battezzò da dimenticare un tiro particolarmente sballato usò un’espressione azzeccata. Peccato che da quel momento in poi siano diventate da dimenticare non solo le conclusioni abbondantemente fuori dai pali ma anche quelle che li sfiorano. O è gol, o è quasi sempre un tiro da dimenticare. E se è gol, sta tra il pesante e il pesantissimo.
Le parole del Maestro
C’era una volta il calciolinguaggio di Gianni Brera. Che era nato sulla carta stampata, ma era poi stato adottato anche da radio e telecronisti per la buona ragione che trattavasi, per l’appunto, del linguaggio del calcio. E lo è ancora, a distanza di cinquanta, sessanta, settant’anni. Quando si dice, o si sente dire, centrocampista, goleador, libero, pretattica, melina, rifinitura, pallagol non c’è da sbagliare: il copyright è di gioanbrerafucarlo, che sta alla storia del nostro calcio come Verdi a quella della nostra musica. In materia di telecronache, sino a che il calcio televisivo è stato un evento, il modo di raccontarlo è andato di conseguenza, nel senso innanzitutto del paludato. Da quando è diventato routine, o meglio overdose, ha svoltato inevitabilmente verso il pop. Sia dal punto di vista dell’enfatizzazione, perché la partita, qualunque partita, prima ancora che una cosa da raccontare è un prodotto da vendere. Sia da quello lessicale, perché il calcio si è evoluto e il modo di viverlo e narrarlo è cambiato di conseguenza.
Le seconde voci
Il primo segnale di cambiamento, ricorderete, fu la ripartenza. Che era ed è il caro, vecchio contropiede ma a chiamarlo col suo nome un po’ suonava retrò e un po’ richiamava il catenaccio, e il profeta Arrigo arricciava il naso e non gradiva. Da allora, e parliamo ormai di un quarto di secolo fa, è buona norma ripartire anziché fiondarsi in contropiede, e poi un po’ alla volta attaccare lo spazio, o meglio ancora la profondità, e non semplicemente smarcarsi e scattare in direzione della porta. È diventato necessario fare densità e curare la fase di transizione, gestire il possesso palla per evitare ripartenze devastanti, quando non sanguinose, e non perdere mai di vista le diagonali che sono il pane quotidiano delle seconde voci, soprattutto di quelle che la vita precedente se la sono giocata da difensori, tipo Bergomi, Adani, Panucci. A proposito di Adani, è abbastanza noto il suo recente no-grazie all’offerta di Mancini di fargli da secondo all’Inter: anche perché, sostengono le malelingue, ha provveduto lui a farlo sapere in giro. Ma è vero che c’è stato un tempo in cui l’ex calciatore e soprattutto l’ex allenatore interpretavano la ribalta televisiva, soprattutto targata Rai, come un ufficio di collocamento. Il caso di Adani, che ai suoi esordi in studio aveva tutta l’aria di una voce rubata all’agricoltura ed è invece diventato molto, ma molto bravo, è nel suo genere un segnale di inversione di tendenza.
Ricambio generazionale
Poi va a gusti, si capisce. Per i miei vale più un silenzio corrucciato di Boban che non un intervento articolato di Panucci. O di Di Canio. Ma altro è il ruolo della spalla, che si trasforma poi in opinionista, altro quello di chi apparecchia e poi gestisce la telecronaca. Ed è qui che si misura il cambio generazionale. Con le dovute eccezioni, nel bene (Pizzul) e nel male (Borghi), quelli di oggi sono più bravi di quelli di ieri. Se solo strillassero, e in qualche caso berciassero, meno, lo sarebbero ancor più nettamente.