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 2015  gennaio 06 Martedì calendario

LA PRIMA GUERRA D’INTERDIPENDENZA DELL’EUROPA

Sono passati quasi sette anni da quando la prima reazione tedesca alla crisi greca fu l’idea di togliere ad Atene il diritto di voto nel Consiglio europeo. Dietro la proposta c’era una scarsa attenzione per le esigenze di democrazia, ma anche una denuncia di istituzioni europee paralizzate dal requisito di voto unanime. Da allora le decisioni che hanno interessato l’euro area sono scivolate lungo un piano inclinato. Si sono allontanate dai principi di solidarietà e di democrazia e si sono riparate dentro costruzioni intergovernative, basate sui rapporti di forza, regolate da meccanismi tecnici e sorvegliate da istanze giuridiche. La politica – o come sostengono alcuni, la necessità di unione politica – è stata tenuta fuori dalla porta. Nel 2015 sta rientrando dalla finestra, nella forma delle incerte elezioni greche, spagnole e portoghesi, ma anche del sottostimato potenziale di interdizione formato dagli euroscettici nei Paesi meno vulnerabili, a cominciare dalla Germania, dal suo partito anti-europeo e dai nuovi movimenti xenofobi e anti-sistema sempre più vibranti.
È ora di uscire dalle ristrettezze intellettuali con cui gli economisti cercano di ricondurre ogni analisi della crisi a un calcolo di costi e benefici. Se così fosse, i greci dovrebbero essere accondiscendenti. In fondo il servizio del loro enorme debito pubblico costa in percentuale sul Pil meno di quanto paghino italiani o irlandesi e più o meno quanto pagano gli americani. Bisogna capire piuttosto che cosa nella politica europea ostacola la formazione di consenso tra popoli diversi su problemi comuni.
La crisi dell’euro area è stata ricondotta a una crisi dell’idea europea. Troppo diversi i Paesi, troppo distanti le culture civiche dei cittadini, quasi irriconciliabili le loro preferenze politiche. In realtà la radice dei problemi non sono le differenze, ma un’uguale incapacità in tutti i paesi di fare i conti con l’interdipendenza delle economie. Attraverso la crisi i governi nazionali si sono comportati come se gli stati fossero, o dovessero diventare, autosufficienti. L’idea stessa di autosufficienza è radicata nell’antica visione di stati nazionali esposti all’eventualità delle guerre. L’autosufficienza, cioè la non dipendenza da economie straniere, era necessaria e perfino vitale negli ultimi 220 anni durante i quali gli stati hanno combattuto circa 150 guerre e oltre 500 battaglie sul suolo europeo. Il fatto che la crisi, la diffidenza, abbia resuscitato un riflesso di autodifesa se non di ostilità è particolarmente imbarazzante per tedeschi e italiani che hanno fatto del ripudio della guerra uno dei pilastri delle loro leggi fondamentali, attribuendo come altri paesi all’Europa l’obiettivo di costruire un’integrazione pacifica e stretta, cioè una visione positiva dell’interdipendenza. Durante la crisi è riemersa invece la volontà di isolarsi e di isolare. Ciò ha reso impossibile sviluppare solidarietà e infine risolvere una crisi dietro la quale insiste un’ombra che non vogliamo chiamare per nome, ma che sappiamo ricordarci le ostilità del passato europeo. La scelta di isolarsi è prevalsa fino dall’autunno 2008, ben prima dell’ammissione greca di aver falsificato i conti. Ogni stato ha cercato di proteggere le proprie banche, nonostante l’interdipendenza finanziaria fosse evidente. Successivamente l’idea che ogni stato fosse autosufficiente ha ispirato una politica economica che ha richiesto che ogni paese avesse un bilancio pubblico e una bilancia dei pagamenti in pareggio in modo da non avere necessità di importare risparmi dagli altri paesi. Quest’idea di uno “stato chiuso” risale alla filosofia politica di fine Settecento, ma è contraria alla logica di un’area integrata economicamente nella quale i capitali devono essere liberi di circolare cercando l’allocazione migliore, qualunque sia il pese di origine o di destinazione. Essere autosufficienti non è per sé affatto una cosa negativa. L’enfasi tedesca su questo principio a livello sia individuale sia collettivo corrisponde a una forte etica intesa a evitare che individui consapevoli dei propri limiti – disposti a vivere al di sotto dei propri mezzi – evitino gli eccessi di un passato fatto di crimini, povertà, debiti e inflazione. Ma quando l’autosufficienza si pone in contrasto con l’interdipendenza, ripropone quella scelta tra guerra e pace che il cancelliere Kohl vedeva come il monito sempre attuale della questione europea. Non perché il sangue possa tornare a scorrere, ma perché scegliere tra autosufficienza e interdipendenza può riempire o al contrario svuotare lo spirito di cooperazione politica tra i paesi. Una volta imposta la regola dell’autosufficienza, la gestione della crisi ha assunto i tratti di un esercizio conflittuale. Accettare che la soluzione per i paesi in crisi fosse una deflazione che cancella il 20-30% del pil, ricorda la riduzione del territorio dei paesi sconfitti. I paesi in crisi vengono inoltre governati attraverso una troika, anziché un governo comune. I prestiti all’inizio erano stati concessi a tassi punitivi, come se fossero riparazioni di guerra, benché avessero salvato le banche dei creditori. Tra i leader europei si è stabilita una gerarchia dei creditori sui debitori, benché entrambi fossero causa di squilibri. La narrazione della crisi è stata come in guerra quella dei vincitori. Come sappiamo la democrazia parlamentare è stata accantonata in alcuni paesi, le elezioni sospese, i referendum ripetuti, come se all’inferiorità economica corrispondesse sempre una minorità politica. Infine i governi dei paesi in crisi hanno giustificato ai loro elettori l’esigenza di riforme solo come l’imposizione di occupanti malevoli. Inevitabilmente il risentimento è aumentato e i negoziati sono diventati più animosi e distanti. Non sorprende che questo fallimentare ritorno alle prerogative nazionali, porti al successo movimenti nazionalisti e anti-europei. È quella che io chiamo la prima “Guerra di Interdipendenza” europea. Ma perché è stata così trascurata l’interdipendenza economica? Forse perché siamo abituati a considerare importanti soprattutto le interazioni dell’economia reale – in realtà modeste - mentre ciò che è stato dominante è stata l’interdipendenza finanziaria. Gli squilibri tra posizioni estere nette di creditori e debitori dell’euro area sono quadruplicati in dieci anni e sono ora pari al 40% del pil dell’area. L’euroarea, in questo senso, è la regione più interdipendente dell’economia globale. Proprio per la sua natura, la crisi europea ha bisogno di soluzioni finanziarie – naturalmente viene in mente l’acquisto di titoli sovrani da parte della Bce – accompagnate tuttavia dal consapevole sostegno politico di tutti i governi, sia forti sia deboli. La scelta all’inizio del 2015 tra la vecchia logica dell’autosufficienza e quella dell’interdipendenza può essere il crinale della storia europea.
Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 6/1/2015