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 2015  gennaio 06 Martedì calendario

MONTI: «SENZA DI ME, AL COLLE OGGI CI SAREBBE BERLUSCONI»

Professor Mario Monti, il 14 gennaio dovrebbe aprirsi ufficialmente la corsa per il Colle. Due anni fa lei sarebbe stato uno dei candidati naturali. Oggi?
«Oggi, non corro nessun rischio. Nel 2006, prima che venisse eletto Giorgio Napolitano, Silvio Berlusconi aveva proposto al centro-sinistra una rosa con i nomi di Giuliano Amato, Lamberto Dini, Franco Marini e il mio. Nel 2013, allo scadere del settennato di Napolitano, molti dicevano che sarei stato il successore naturale. Ma oggi le cose sono molto diverse».
Senza l’impegno con Scelta Civica alle scorse Politiche ora avrebbe più chances, non crede?
«E’ paradossale. Se non avessi presentato Scelta Civica alle elezioni del febbraio 2013, forse molti penserebbero a me. Ma c’è un piccolo particolare: oggi non ci sarebbe da eleggere un Presidente della Repubblica».
Scusi, perché?
«Perché nell’aprile 2013, senza Sc, in Parlamento ci sarebbe stata una maggioranza sufficiente ad eleggere un nuovo Presidente, che verosimilmente sarebbe rimasto in carica sette anni. Sc nelle politiche di febbraio aveva preso circa il 10%. E’ curioso che quel 10% sia stato giudicato da molti un insuccesso, mentre il 10% (su un’affluenza molto più bassa) che Matteo Renzi ha “aggiunto” al Pd di Pierluigi Bersani alle europee è stato giustamente considerato un grande successo. Praticamente, Renzi si è preso alle europee quanto Sc (da cui mi ero ritirato nell’ottobre 2013) ha perso tra le politiche e le europee».
Dunque non rimpiange di avere dato vita a un nuovo partito?
«Con il 10% del febbraio 2013, Sc aveva conseguito l’obiettivo che mi aveva mosso. Non era un obiettivo né di parte né di potere e forse per questo non è mai stato preso seriamente dai commentatori politici».
Qual era l’obiettivo?
«Volevo scongiurare il rischio che l’Italia, evitato con sacrifici il dissesto finanziario e intraprese alcune prime riforme per la crescita, tornasse ad essere governata da maggioranze di sinistra o di destra che, includendo le ali estreme dell’uno o dell’altro schieramento, avrebbero riportato la politica ad una sostanziale paralisi. Quella paralisi già sperimentata dalla sinistra nel 2006-2008 e dalla destra nel 2008-2011. Fu tale paralisi, ritengo, che nel novembre 2011 indusse il presidente Napolitano e il Parlamento, con la maggioranza più ampia della storia repubblicana, a chiamare in campo un governo di emergenza».
A cosa servì tutto quel consenso?
«Tale maggioranza assecondò l’impegno del governo e ne approvò consapevolmente i provvedimenti per un intero anno. Salvo poi, chi più chi meno, scaricarne il biasimo sul governo all’avvicinarsi delle elezioni».
Dunque obiettivo fallito?
«Al contrario. Ciascuna delle due coalizioni elettorali (da una parte il Pd di Bersani e Fassina con Sel e l’appoggio esterno della Cgil; dall’altra il PdL con Lega e Fratelli d’Italia) prendeva le distanze dalle riforme per la crescita, dai conti pubblici in ordine per non penalizzare gli italiani di domani, dal rafforzamento dell’Europa comunitaria e, in qualche caso, dall’euro. Per effetto del risultato di Sc, nessuna di quelle due coalizioni ha vinto. Il mio obiettivo è stato conseguito».
Il suo. E quello del Paese?
«Quell’obiettivo l’avevo per il Paese non certo per me. Dato che Sc ha preso più voti da destra che da sinistra, in sua assenza il centro-destra avrebbe avuto la maggioranza sia al Senato che alla Camera, con relativo premio di maggioranza. Come ha dichiarato con schiettezza Berlusconi, “se il centro-destra ha perso le elezioni del 2013, la colpa è di Mario Monti, il quale se si fosse alleato con il centro-destra come gli avevamo proposto, avrebbe cambiato l’esito delle urne. Invece Monti alle elezioni andò da solo con Scelta civica e la storia della politica italiana è cambiata” (La Stampa, 18 settembre 2014)».
Ma lei perché non accettò?
«Pur avendo all’epoca apprezzato l’invito di Berlusconi non fui in grado di accoglierlo, tra l’altro, perché non pensavo ad un mio impegno permanente in politica. L’avere presentato Sc alle elezioni – con quello che per me è stato un impegno politico temporaneo, come i fatti hanno dimostrato – rispondeva all’esigenza che sentivo forte al termine del mio governo. Non un’esigenza contro la sinistra o contro la destra, ma un tentativo forse velleitario, ma per fortuna riuscito, di evitare un deragliamento dell’Italia dalla via dell’Europa e del risanamento».
Torniamo al Quirinale.
«Senza Sc nella primavera del 2013 un esponente del centro-destra sarebbe stato eletto Capo dello Stato (verosimilmente il senatore Berlusconi) e un altro suo esponente sarebbe diventato capo del governo. Invece, si è addivenuti alla rielezione del presidente Napolitano e, su sua nomina, ad Enrico Letta come presidente del Consiglio, sorretto da una grande coalizione, al quale è succeduto, con formula simile, Matteo Renzi nel febbraio 2014».
Un Paese più sicuro, lei dice, e un Presidente della Repubblica eletto per un secondo mandato. Un fatto mai visto.
«Certo, il prezzo maggiore è stato pagato da Giorgio Napolitano, al quale si è dovuto chiedere un sacrificio straordinario, dopo un settennato quanto mai impegnativo e condotto con equilibrio e fermezza. E oggi, a seguito delle sue comprensibili dimissioni, il Parlamento deve affrontare una prova difficile. Speriamo che vi si accinga con maggiore senso di responsabilità».
Prodi e Draghi, come lei protagonisti del processo europeo, non sarebbero in altre condizioni candidati naturali al Colle?
«Perché “in altre condizioni?”» .
Berlusconi non vuole Prodi. E forse neanche Renzi. Draghi si è chiamato fuori.
«Eppure mi pare che, anche nelle condizioni attuali, siano due potenziali candidati di prima grandezza. Al Quirinale deve esserci una personalità nella quale gli italiani riconoscano il meglio di sé, della quale siano fieri. E che il mondo, ma soprattutto l’Europa, vedano come un interlocutore affidabile, autorevole e impegnativo. Il Capo dello Stato, secondo me, deve essere in grado di patrocinare una linea assertiva del governo italiano, che spetta in primo luogo al presidente del Consiglio determinare, e farla percepire come costruttiva dagli altri leader europei anche grazie alla propria credibilità. Le due persone da lei menzionate, Romano Prodi e Mario Draghi, a mio giudizio avrebbero queste qualità».
Professore, secondo lei che cosa serve urgentemente al Paese?
«La crescita! All’inizio di questa legislatura, sarebbe “servito urgentemente al Paese” mettersi subito su un percorso programmato di riforme strutturali per la crescita. Occorreva non sprecare neanche un giorno del periodo più fecondo di una legislatura, l’inizio, quando si può contare su cinque anni probabilmente senza elezioni. Inoltre questa volta si poteva partire con il dirty job di superamento dell’emergenza finanziaria sostanzialmente concluso. E con la più impopolare ma più importante delle riforme, quella delle pensioni, già fatta».
Invece?
«Invece, all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 si è perso un po’ di tempo».
Cosa potevano fare Letta e Renzi di più?
«Avrebbero potuto agire con maggiore rapidità. Letta ha esitato per mesi prima di adottare, il giorno precedente la fine del suo governo, un contratto di coalizione. Intanto, ha cercato di tenere Berlusconi nella maggioranza, anche dichiarando l’obiettivo di abolire l’Imu sulla prima casa, operazione alla fine non riuscita e che ha condizionato molto l’intera politica economica».
Renzi?
«Renzi, che si è mosso fin dall’inizio con grande determinazione, si è concentrato anch’egli su una misura certo popolare ma finanziariamente molto impegnativa (gli 80 euro), che non pare avere sortito gli effetti economici sperati ma ha seriamente condizionato l’insieme delle scelte del governo. E ha ritenuto, in alcuni passaggi, di dare la priorità alle riforme istituzionali rispetto alle riforme economiche per la crescita, a mio giudizio più urgenti».
E ora?
«Le riforme su cui lavora Renzi sono importanti. Ritengo anche che occorra dare maggiore impulso, priorità, concretezza e trasparenza alla spending review».
Come giudica il patto del Nazareno?
«Vedo bene i tentativi di coinvolgere più forze politiche, anche antitetiche, nel conseguimento di alcuni obiettivi essenziali per il Paese. Tuttavia, che si tratti di intese a tutto campo per l’attività di governo o di intese limitate, ad esempio, alle riforme istituzionali, mi sembra fondamentale che ci si attenga a metodi corretti e trasparenti».
Il testo dettagliato del contratto di coalizione non si è mai visto, parliamo di questo?
«In effetti tra Renzi e Berlusconi si assiste spesso a prese di posizione divergenti sulla questione se un certo tema rientri o meno tra quelli coperti dal patto del Nazareno e come sia stato disciplinato. Ci si può anche chiedere se e come il patto abbia influenza sulle decisioni del governo sulle materie economiche».
Ce l’ha?
«Si dovrebbe pensare di no, poiché risulta che il partito di Berlusconi è normalmente all’opposizione, sulla politica economica. Ma, data la labilità e la non trasparenza dell’accordo, vi è chi pensa che il mantenimento in vita dell’intesa istituzionale potrebbe essere di fatto subordinato al gradimento – o alla non eccessiva ostilità – di Berlusconi su aspetti della politica economica per i quali tradizionalmente ha mostrato interesse».
Cosa pensa della cosiddetta norma salva-Berlusconi?
«Ci stavo arrivando. Alcuni si spingono fino a ritenere che il patto del Nazareno porti con sé un understanding secondo il quale non si debba calcare troppo la mano in materia di lotta all’evasione fiscale e alla corruzione. Nei giorni scorsi, sull’onda di una pericolosa ambiguità, si è ipotizzato che uno specifico provvedimento fiscale, con implicazioni di ordine penale ed elettorale, possa essere stato introdotto – da una manina, certo gelida in quanto ormai amputata da corpo ignoto – in ossequio ad un presunto accordo del genere nazareno».
I soliti sospetti.
«Ma un Paese civile non può convivere con questi sospetti. Il danno alla credibilità dello Stato è enorme. Si dovrebbe distinguere nettamente tra ciò che lo Stato di diritto consente e ciò che non consente. Nel 2013, quando si discuteva dell’ipotesi di concessione della grazia a Silvio Berlusconi, osservavo in un’intervista che l’ordinamento prevede la possibilità di provvedimenti di clemenza, quali la grazia o la commutazione della pena, rimessi interamente alla valutazione e alla volontà del Capo dello Stato. Aggiungevo che personalmente non avrei trovato a priori scandaloso, né incompatibile con lo Stato di diritto, un eventuale provvedimento di clemenza, in considerazione del ruolo avuto da Berlusconi nella vita politica italiana e soprattutto se il suo “lascito” alla politica avesse arricchito l’articolazione democratica del Paese. Meglio una grazia, concessa o negata in modo trasparente, che ambiguità e sospetti sull’opera del governo».