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 2015  gennaio 06 Martedì calendario

Ebrei censiti per tassarli Si pensava che a Roma fossero 16 mila ma superavano di poco i 4 mila nel 1733 «Nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chi sa quale imperscrutabile volere degli dei», scriveva Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (Einaudi)

Ebrei censiti per tassarli Si pensava che a Roma fossero 16 mila ma superavano di poco i 4 mila nel 1733 «Nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chi sa quale imperscrutabile volere degli dei», scriveva Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (Einaudi). Lo ricorda Raffaele Pittella a conclusione di un libro a cura di Angela Groppi, Gli abitanti del ghetto di Roma. La «Descriptio Hebreorum» del 1733 , che l’editore Viella si accinge a mandare in libreria. La citazione di Bloch vuole essere un omaggio alla Groppi che ha trovato un importantissimo documento della Chiesa, nel quale vengono censiti gli abitanti del quartiere ebraico romano, appunto, nel 1733. Fino ad oggi non esistevano certificati di quantificazione della presenza ebraica a Roma nell’arco di tempo che va dalla prima metà del Cinquecento (1527, la vigilia del Sacco) alla fine del Settecento (1796). E anche quei documenti del 1527 (quando tra l’altro il ghetto non era ancora stato istituito) e del 1796 non erano veri e propri censimenti: la prima conta verrà fatta solo all’inizio dell’Ottocento. Perché allora la Chiesa nel 1733 decise di «numerare» gli israeliti romani? Per poterli tassare. Il 4 agosto del 1731, il Sant’Uffizio aveva dato incarico ad un proprio rappresentante, Raimondo Rasi, di reperire fondi (più di quelli già ricevuti) tra gli abitanti del ghetto. La sua missione era quella di «recuperare a favore della Reverenda Camera Apostolica la somma di 70 mila e più scudi». Rasi, scrive la Groppi, «si era recato nell’archivio del ghetto dove, dopo averne fatto sostituire la serratura, continuò poi ad andare per alcuni mesi in compagnia di un guardiano del Tribunale del Sant’Uffizio per “perquisire e scegliere” i documenti più interessanti da prelevare». A fine lavoro, Rasi, «i cui scritti sono sempre improntati a uno spirito violentemente antiebraico», accusava gli ebrei di «mentire sulla loro reale capacità economica e di fornire falsi giuramenti sui capitali che c’erano nel ghetto, a fronte del fatto che la riduzione delle tasse sul capitale dopo la chiusura dei banchi veniva addotta dall’Università come principale causa della sua insolvenza». L’uomo mandato dal Sant’Uffizio aveva anche insinuato che gli ebrei mentissero in merito alla loro consistenza numerica per versare un ammontare ridotto di tributi. A suo dire sarebbero stati 16 mila. Al cospetto dell’assoluta non coincidenza tra le cifre proposte da Rasi e i documenti prodotti dagli ebrei, e in quella che la Groppi definisce «una situazione sempre più confusa e delicata da un punto di vista politico e religioso», la congregazione presieduta dal cardinale Alessandro Albani «non trovò altra soluzione che chiedere l’intervento di un visitatore apostolico cui demandare il compito di fare chiarezza sul reale stato economico della comunità ebraica romana». Fu così che il 29 aprile del 1733 si giunse alla nomina del chierico di camera, futuro tesoriere e poi cardinale, monsignor Mario Bolognetti, nell’auspicio di «dare una soluzione alla controversia esistente tra Camera Apostolica e Università degli ebrei riguardo al debito contratto da quest’ultima». E fu monsignor Bolognetti che commissionò il «censimento» trovato tre secoli dopo da Angela Groppi. Censimento redatto nel corso di sette giornate, in un arco temporale che va dal 27 luglio al 17 agosto 1733. Con la tecnica con cui, a partire dal 1614, si compilavano ogni anno gli «stati delle anime» per valutare la presenza dei cristiani in funzione del loro adempimento del precetto pasquale. Ma qui non si trattava di indagini aventi a che fare con il credo religioso. La missione era quella di «fare chiarezza sul numero complessivo degli ebrei e sull’esatta quantità delle famiglie presenti in ghetto» a fini fiscali. La Reverenda Camera Apostolica decise di «contare gli abitanti del claustro ebraico» onde poterli costringere a pagare quei settantamila scudi di cui si è detto. Così, nota la Groppi, «ancora una volta, come era avvenuto prima del Sacco del 1527 e secondo una tradizione che pervade gran parte dell’età moderna e che riguarda l’intera popolazione, non solo quella ebraica, furono le urgenze fiscali e le necessità amministrative a determinare una rilevazione nominativa degli ebrei di Roma». Si scoprì che gli ebrei erano meno di quanti si supponeva che fossero. E rimase l’atto che ne certificava consistenza e identità. Il documento trovato dalla Groppi, scrive Michael Gasperoni, «si presenta come un vero e proprio stato delle anime che riporta i nominativi degli abitanti famiglia per famiglia, percorrendo il ghetto casa per casa». Purtroppo manca la condizione sociale o professionale degli ebrei censiti. E la loro età. Ma, osserva Gasperoni, «pur con tutti i suoi limiti, la numerazione del 1733 costituisce l’unica fonte a noi pervenuta sulla popolazione ebraica romana tra il Cinquecento e il 1796». E, aggiunge, «c’è da scommettere che altri documenti di questa natura emergeranno nel corso delle prossime ricerche sulla comunità romana». Kenneth Stow, autore del pregevole Il ghetto di Roma nel Cinquecento. Storia di un’acculturazione (Viella), lo dice a chiare lettere: «Il materiale di questo volume è di inestimabile valore, poiché mette a nostra disposizione un gran numero di notizie e dettagli totalmente assenti per questo periodo cruciale della vita del ghetto». Angela Groppi e gli altri autori di questo libro «meritano», a detta di Stow, «sincera gratitudine; questo “censimento” impegnerà i ricercatori per diversi anni a venire». Dal censimento, e dal contesto di crisi che lo circonda, osserva Stow, «emerge il quadro di una comunità disorientata, sempre più impoverita e che, non è esagerato dirlo, era sotto attacco». Perché?   Paolo IV nel 1555 aveva ordinato, con la bolla Cum nimis absurdum , l’istituzione del ghetto e aveva disposto che potesse esserci una sola sinagoga. Ma di templi la comunità ebraica ne aveva ben cinque. Nel maggio del 1731, come si legge in uno straordinario saggio di Giancarlo Spizzichino, l’Inquisizione ordinò la chiusura della sinagoga di Porta Leone che era sopravvissuta all’esterno del ghetto, nel cosiddetto «ghettarello», un’area adiacente al ponte Quattro Capi. Ad un tempo si decise di amalgamare le cinque sinagoghe esistenti (ognuna delle quali seguiva una diversa tradizione rituale), abbattendo le pareti divisorie nell’edificio che le ospitava. In quello stesso maggio del 1731, su ordine del Sant’Uffizio fu eseguito nel ghetto un saccheggio di libri ebraici, gran parte dei quali non furono mai restituiti. In agosto, ha scritto Spizzichino, «venne sequestrata una larga parte della documentazione contenuta nell’archivio dell’Università, al fine di utilizzarla per verificare la sua reale consistenza economica in merito al debito che la Reverenda Camera Apostolica vantava nei suoi confronti». Ma trascorsero due anni e non venne fuori niente che confermasse i sospetti della Chiesa. Fu in quel momento che l’autorità ecclesiastica decise di «contare gli ebrei» allo scopo di verificare se erano di più di quel che dicevano di essere, sospettando che in tal modo volessero occultare il loro «imponibile». «L’Università, come era allora definita l’istituzione comunitaria», era la domanda implicita, «aveva forse risorse finanziarie nascoste?».   Secondo un pregiudizio che si è diffuso nei secoli, gli ebrei tendono a non dire apertamente da quanti membri è composta la loro comunità. Un’annotazione in calce a «La descrittione dell’Anime di Roma 1696» (presente in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana) recita così: «Si avvertisce, che mancano l’Ebrei, li quali dicono di essere sempre meno di quello realmente sono per defraudare più che sia possibile il Dazio di tanto a testa, ma per ordinario sogliono essere nove, o dieci mila». L’annotazione è indicativa di quel «timore giudaico» che — a detta di Attilio Milano, dopo un approfondimento di tale questione — spingeva spesso a sopravvalutare il numero degli ebrei. Ed «è un esempio del perdurante pregiudizio secondo cui gli abitanti del Ghetto di Roma erano soliti mentire riguardo la propria consistenza proprio per eludere i contributi loro imposti». Gli esperti della Chiesa avrebbero coronato d’alloro la missione se avessero scoperto il vero numero degli israeliti. Molto più alto, s’intende, di quello prospettato da loro stessi. Di qui l’incredibile cifra prospettata da Rasi secondo cui la comunità romana avrebbe contato sedicimila individui. Che invece alla vera conta, prodotta nel documento rinvenuto da Angela Groppi, risultano essere poco più di quattromila. Un quarto di quelli immaginati da Rasi.   Eugenio Lo Sardo, direttore dell’Archivio di Stato di Roma, definisce la pubblicazione del libro curato dalla Groppi «un pietra miliare per una più accorta esplorazione della storia degli ebrei romani». Il direttore dell’Archivio ricorda che in quello stesso 1732, mentre Raimondo Rasi «si affannava a redigere la sua perizia sul debito dell’Università degli Ebrei di Roma», Voltaire «dava gli ultimi ritocchi a un testo che avrebbe lasciato una traccia profonda nell’Europa del primo Settecento»: le Lettres sur les Anglois . Tra le novità del regno inglese di Giorgio II, il filosofo accennava alla novità positiva della Borsa. «Entrate in quell’edificio», scriveva, «in quel luogo ben più rispettabile si molte corti: vi troverete riuniti i rappresentanti di tutte le nazioni… Là l’ebreo, il maomettano, il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, lì si dà dell’infedele solo a chi fa bancarotta; lì il presbiteriano si fida dell’anabattista, l’anglicano recita le promesse del quacchero e all’uscita di queste pacifiche e libere assemblee, alcuni vanno alla sinagoga, altri vanno a bere». Voltaire, nota Lo Sardo, «che altrove non è certo generoso con gli ebrei», mette qui in rilievo «l’importanza della loro presenza per lo sviluppo dell’economia e del commercio inglesi». Cosa che aveva ben compreso Ferdinando I de’ Medici invogliando gli israeliti a trasferirsi a Livorno con la promessa di ampie garanzie di libertà così da fare di quel porto uno dei più importanti centri di affari dell’epoca. E invece l’immagine della Chiesa quale emerge dall’esegesi di questo documento ritrovato da Angela Groppi (e di quelli ad esso collegati) testimonia una «scarsa lungimiranza politica e amministrativa». Il quadro dell’amministrazione pontificia «che emerge in filigrana da questo groviglio di provvedimenti, comunica la sensazione di passiva indolenza, di cieca chiusura mentale, anche di fronte alla straordinaria crisi economica che attanagliava lo Stato ecclesiastico già da qualche decennio e che andò man mano aggravandosi nel tempo».   C’è poi un particolare che accresce l’importanza del documento. Stow nota come la storica Manuela Militi abbia individuato nella famiglia numero 397 la presenza di Anna del Monte, «la cui effettiva esistenza viene ora per la prima volta confermata». Si tratta della donna ebrea di cui si sono occupati Giuseppe Sermoneta nella prefazione al suo diario, Ratto della signora Anna del Monte, trattenuta a’ Catecumini tredici giorni dallo 6 alli 19 maggio anno 1749 (Carucci), e, più recentemente Marina Caffiero in Rubare le anime. Diario di Anna del Monte ebrea romana (Viella). Anna era stata oggetto di una «raffinata pressione psicologica» (come scrive la stessa Caffiero in Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione , edito da Carocci) nella Casa dei Catecumeni dopo che un neofita, Sabbato Coen, aveva affermato che gli era stata promessa in sposa. Il suo diario conteneva molte preziose annotazioni su come la Chiesa provava, appunto, a «rubare le anime» degli israeliti, cioè cercava di costringerli alla conversione. E adesso il «censimento» trovato da Angela Groppi conferma l’autenticità di quel diario. Quello di Roma non è un ghetto tra i tanti. Massimo D’Azeglio, che lo visitò e ne scrisse in Sull’emancipazione civile degli israeliti (1848), lo rappresentò come un «ammasso uniforme di case e tuguri mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti», un reticolo di «strade strette e immonde», dove le «famiglie di que’ disgraziati vivono, e più d’una per locale, ammucchiate a ogni piano, nelle soffitte e perfino nelle buche sotterranee». Finché, nella notte del 17 aprile 1848, alla viglia della Pasqua ebraica, Pio IX ne fece abbattere mura e portoni, ciò che segnò la fine del ghetto come «recinto chiuso». Il resto lo fece l’unificazione del Paese: uno dei primi impegni dell’amministrazione sabauda dopo la presa di Roma nel 1870 fu per l’abbandono di ogni discriminazione nei confronti degli ebrei. Ma il piccolo quartiere ebraico romano mantenne la sua identità e — come ha scritto Anna Foa in Ebrei in Europa Dalla Peste Nera all’emancipazione (Laterza) — «più degli altri ghetti, finì per rappresentare l’immagine stessa della segregazione e della discriminazione». Quello di Roma, scrive ancora Anna Foa, «è infatti un ghetto che sopravvive all’età dei ghetti». Anche per questo ha un grande rilievo il fatto che ne sia stato rinvenuto un «documento d’identità» di tre secoli addietro. paolo.mieli@rcs.it