Sandro Iacometti, Libero 3/1/2015, 3 gennaio 2015
DRAGHI CI FA GUADAGNARE 500 MILIONI IN UN GIORNO
Altro che legge di stabilità. Sono bastate poche parole di Mario Draghi, neanche dette a voce, per far scendere lo spread a livelli mai visti e regalare ai conti pubblici italiani un risparmio potenziale sugli interessi di circa 500 milioni di euro. Ad addomesticare i mercati nella prima seduta dell’anno ci ha pensato un’intervista del presidente della Bce al quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Un colloquio in cui l’ex governatore di Bankitalia respinge le lusinghe sul Quirinale e si dichiara pronto a combattere a testa bassa fino al 2019 per l’euro. Con tutte le armi in suo possesso, a partire dal famoso bazooka i cui primi colpi potrebbero essere esplosi già nelle prossime settimane. Draghi non ha perso l’ottimismo. Oggi, ha spiegato, «ci troviamo in un lungo periodo di debolezza» dell’economia, «non in una crisi» e «la combinazione della nostra politica monetaria e delle riforme da parte degli stati membri ripristinerà la fiducia perduta». Lo scenario, però, non permette di abbassare la guardia. Il pericolo di deflazione, «è limitato, ma non è escluso». E malgrado il «prudente ottimismo» il presidente dell’Eurotower ha rivelato che «il rischio della Bce di non rispettare il mandato sulla stabilità dei prezzi è più alto di 6 mesi fa». È per questo che la Banca centrale sta affilando le sciabole. «Ci stiamo preparando», ha spiegato, «a livello tecnico per modificare all’inizio del 2015 l’ampiezza, il ritmo e le caratteristiche dei mezzi a cui ricorrere qualora fosse necessario per rispondere ad un periodo di bassa inflazione eccessivamente prolungato». In altre parole, il quantitative easing è ormai dietro l’angolo. Anche perché su questo punto, ha aggiunto, «il consiglio della Bce è unanime». La strada, d’altra parte, è obbligata. «Uno sguardo alla storia», ha detto al quotidiano tedesco, «mostra che prezzi in caduta possano mettere in pericolo la prosperità e la stabilità della nostra comunità proprio come l’alta inflazione». Quanto ai tassi di interesse, «sono stati molto, molto bassi da lungo tempo e lo resteranno ancora per un po’», anche perché la fase di «moderata ripresa continua» ma resta «fragile e irregolare». Di qui l’invito ai governi a fare di più, ad impegnarsi nelle riforme: «Importanti riforme strutturali, un mercato del lavoro più flessibile, meno burocrazia e meno tasse, stanno procedendo troppo lentamente. È di tutta evidenza che la nostra politica monetaria sarebbe maggiormente efficace se i governi implementassero le riforme». Anche senza riforme, però, i benefici della politica monetaria sono ben visibili. Soprattutto per l’Italia, dove il differenziale tra i Btp e i bund tedeschi negli ultimi anni è riuscito a danzare più sulle note di Draghi che su quelle, spesso stonate, dei vari governi che hanno tentato di tenere la barca a galla. Ieri è bastata l’intervista del presidente della Bce ha far scendere lo spread sotto i 125 punti, nove in meno rispetto alla chiusura del 2014, con un rendimento dei titoli decennali all’1,76%, ai minimi storici dall’introduzione dell’euro. Anche Piazza Affari ha ingranato la marcia, chiudendo la seduta a +0,7% rispetto ad un generale ribasso di tutte le Borse europee. Una situazione che si riprone da quando Draghi nell’ormai lontano luglio del 2012 annunciò per la prima volta che la Bce sarebbe stata pronta a fare tutto il necessario («whatever it takes») per salvare l’euro. All’epoca, malgrado il Salva Italia di Mario Monti lo spread si aggirava sopra i 500 punti. Di lì l’altalenante ma progressiva discesa: 300 punti a novembre 2012, poi giù fino ai 240 del novembre 2013, per andare infine stabilmente sotto i 200 nel corso del 2014 e addirittura sotto i 150 lo scorso autunno. L’impatto sui conti pubblici dell’effetto Draghi è stato robusto e concreto. Secondo alcune stime di Bankitalia una riduzione di 100 punti base del differenziale implica un risparmio del costo del debito pubblico cumulato su un triennio di 1,1 punti di pil, cioè 18 miliardi. Gli analisti finanziari, per bocca dell’Associazione Aiaf, hanno calcolato che i 100 punti base valgono circa 5 miliardi in meno di interessi. Cifra confermata dai dati reali. «Nel 2013», si legge nell’ultimo Def firmato da Enrico Letta, «abbiamo risparmiato 5 miliardi grazie al calo dei tassi, nel 2014 se il trend continuasse si produrrebbe un risparmio analogo». Sul tesoretto si è ovviamente subito avventato Matteo Renzi che nel Def dello scorso aprile ha subito abbassato le previsioni della spesa per interessi da 86 a 82,6 miliardi. Asticella scesa addirittura a 76,7 miliardi nell’aggiornamento del Def dello scorso settembre, con un risparmio secco di 10 miliardi. Per il 2015 l’ex ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, aveva previsto di dover sborsare 88,1 miliardi, la stima del governo attuale (con lo spread ipotizzato a 150 punti) è di 74 miliardi. Più o meno identica la cifra nel 2016, a fronte dei 91,8 previsti da Letta. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha più volte spiegato che questi conti sono ingannevoli, che i risparmi sono più contenuti e che a volte intervengono anche modifiche di calcolo a livello comunitario. Le somme, però, anche ridotte restano considerevoli. E fanno pure leggere in una luce diversa il fabbisogno dello Stato che per il 2014, secondo i dati diffusi ieri sera dall’Economia, si è attestato a 76,8 miliardi, con un miglioramento di «soli» 3,5 miliardi sul 2013.