Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 4/1/2015, 4 gennaio 2015
VALÉRY, IL POETA SENZA LE POESIE
C’è stato un momento, nel cammino trionfale delle lettere francesi, in cui gli artisti persero interesse per la comunicazione, la condivisione, la franchezza. Non era mero disprezzo per le tirature (un effetto collaterale), ma un’idea della pratica poetica tesa ad accudire le esigenze del poeta, a scapito di quelle del pubblico. Il paradosso è che storicamente questo periodo coincise con il momento in cui, per via dell’ Affaire Dreyfus, prese piede tra gli artisti la consuetudine (tutt’oggi tristemente in voga) di mettere in vendita le torri d’avorio e scendere in strada non si sa bene a far cosa. Per quanto strano possa sembrare, Zola e Mallarmé, per i loro ritratti, si servivano dallo stesso pittore.
Sono gli anni in cui i cenacoli simbolisti, sotto l’esoterico magistero mallarmeano, esercitano su Paul Valéry un incantesimo così fatale da ridurlo al silenzio. Molto si è detto sulla notte di Genova in cui Valéry prese congedo dalla Poesia, per dedicarsi a ciò che definiva la Commedia dell’Intelletto. Oggi sappiamo che gli anni impoetici furono sorprendentemente fruttuosi. E tuttavia il tenace mutismo di Valéry merita qualche altra parola di commento. Tale abiura è l’esito inesorabile della poetica simbolista di cui Valéry fu il riluttante curatore testamentario. Non sorprende che, dopo Baudelaire, molti poeti francesi abbiano puntato su una sola opera, tanto vasta da contenere l’universo: una Bibbia di un culto monoteista in cui Dio è il Poeta e la Creazione è la Poesia; un fanatismo che avrebbe contagiato anche i romanzieri della generazione successiva, i cosiddetti modernisti, i quali, cercando un compromesso tra romanzo realista e poesia simbolista, produssero architetture narrative di audacia insuperabile.
Molti anni dopo, commemorando quella stagione, Valéry scriverà: «Lo dico in coscienza di causa: in quell’epoca noi abbiamo avuto la sensazione che sarebbe potuta nascere una specie di religione, di cui l’emozione poetica sarebbe stata l’essenza». L’esito estremo di tale devozione è l’afasia, così come il paradossale inconveniente di un amore troppo puro è l’impotenza sessuale.
A proposito di contraddizioni, è utile spendere qualche parola sull’aporia, tipica dei simbolisti, da cui Valéry non ha saputo emanciparsi.
Da un lato non fa che svalutare l’ispirazione romantica: la letteratura è frutto di lavoro, costanza, abnegazione. Dà a Victor Hugo dell’artigiano: «Per più di sessant’anni, quell’uomo straordinario si mette al lavoro ogni giorno, dalle cinque e mezza a mezzogiorno! Insistendo nel provocare tutte le combinazioni del linguaggio, non cessando di volerle, di attenderle, di sentirle rispondergli». Come a dire: vedete, persino il più grande poeta romantico francese era un indefesso orefice della parola.
Dall’altro lato, Valéry coltiva l’idea pura e ieratica della Poesia inculcatagli da Mallarmé. Una teologia per iniziati, una sfida alle Colonne d’Ercole dell’intelligenza.
Ecco l’aporia che lo allontana dalla Poesia per così tanti anni. Valéry non si sente adeguato alla Poesia, e ritiene la Poesia inadeguata alle sue ambizioni. È come quegli atei che conservano il timore di Dio. Studia un culto trapassato — la Poesia — con gli strumenti dell’antropologo, senza dissimulare ammirazioni e nostalgie. La sua Trinità è formata da poeti che tra loro hanno poco in comune se non una fiducia fanatica nella solennità dell’alessandrino: Racine, Baudelaire, Mallarmé. Lui, al contrario di questa santa Troica, è immune al fondamentalismo; avversa qualsiasi metafisica; è uno spirito eclettico, pagano, un dilettante nell’accezione rinascimentale del termine. Così quando torna alla Poesia, dopo un quarto di secolo, lo fa nelle vesti di epigono. La Jeune Parque , che da un giorno all’altro lo rende celebre, si affaccia sulla scena letteraria francese come un poema desolatamente anacronistico. Non perché Valéry sia un conservatore, ma perché per lui la Poesia ormai si riduce a tributo postumo. Ama la Poesia con ogni fibra dell’essere, ma è troppo lucido per lasciarsi andare ai suoi inganni. Proprio così: l’ultimo simbolista non crede nel potere assoluto della Poesia, perché diffida di qualsiasi forma di trascendenza.
Ci sono scrittori che più di altri si prestano a entrare in collane come «I Meridiani» o come «La Pléiade». A renderli idonei non è il Canone, ma la peculiare conformazione dell’opera. Tanto per essere chiari, un romanzo va letto in edizione economica: la ragione sociale del romanzo è la maneggevolezza, le dimore ideali sono la tasca di un paltò, il tavolino di un bar, lo scaffale di una casa al mare.
Le opere che meritano di essere raccolte sono quelle che illustrano l’avventura singolare e bizzarra di scrittori come Valéry, capaci di coniugare l’eclettismo dei mezzi espressivi all’indomita flânerie intellettuale.
Ecco perché la comparsa del Meridiano Valéry è un evento editoriale, impreziosito dalla curatela di Maria Teresa Giaveri, tra le massime valeriste in circolazione. Nell’introduzione limpida e succinta, c’è qualcosa dello spirito di Valéry; la struttura rapsodica del volume esalta gli svariati talenti di questo infaticabile poligrafo: poeta, autore di dialoghi, drammaturgo, conferenziere, saggista, polemista, filosofo, scienziato... Una gamma di esperienze disparate, tenute assieme dall’insofferenza per le idées reçues e ravvivate da un punto di vista in perpetua oscillazione. Non stupisce che i francesi si siano innamorati di lui a prima vista, quando finalmente, nel 1917, decise di mettersi in posa, pubblicando La Jeune Parque . Nessuno scrittore del ’900 (tranne Proust, forse) si è caricato con altrettanta consapevolezza del fardello dello spirito francese: Cartesio, Pascal, Diderot, Mallarmé convivono con grazia negli scritti del mite impiegato ministeriale.
Di qualsiasi cosa scriva, il fraseggio di Valéry è incantevole. Per non dire del contegno: come altro definirlo se non autarchico, autosufficiente? Un atteggiamento incomprensibile a chi non vede l’ora di condividere su Facebook la foto del palmizio all’ombra del quale sta sorseggiando un disgustoso cocktail. Valéry non ama la condivisione, si nutre di se stesso. Ma non lo fa per vanità o egocentrismo, diciamo che si considera la sola cavia affidabile. «Chiedo scusa» scrive da qualche parte «se mi espongo così davanti a voi, ma ritengo che sia più utile raccontare quanto si è provato, invece che simulare una conoscenza indipendente da qualsiasi individuo e un’osservazione priva di osservatore». A tale riguardo Giaveri scrive: «L’opera di Paul Valéry è Paul Valéry», riconoscendo a questo genio versatile il talento di crogiolarsi nel pantano della propria autosufficienza. Valerio Magrelli ha insistito sull’immagine ricorrente del serpente che divora la propria coda: «Un’auto-fagocitazione». Ecco fin dove si spinge il solipsismo di Valéry. Non a caso, ricordando Mallarmé, scriveva: «Era di quelli che non sanno aspettarsi né possono godersi l’ebrezza altro che da se stessi». Un’euforia simile a quella che lo stesso Valéry coltivò per tutta la vita, che non fu compromessa neppure dalla gloria e dalla mondanità.
Ora sì che capisci il disprezzo dei simbolisti per il pubblico: non è snobismo, altezzosità, paura di infangarsi gli stivali, ma il desiderio di rendere conto solo alla «bellezza senza pretesti», «alla virtù incantatoria del linguaggio», a se stessi.