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 2015  gennaio 04 Domenica calendario

JEFFREY EUGENIDES: «L’AMERICA HA PAURA MA OBAMA CI STUPIRÀ ANCORA»

«Abbiamo iniziato questa lunga intervista a puntate subito dopo le elezioni di medio termine e sono contento di poter dire che alcune delle cose che avevo pronosticato allora si sono avverate». Al telefono dall’Università di Princeton, dove insegna scrittura creativa — è l’ateneo che ha ospitato Albert Einstein, Toni Morrison, Paul Krugman, Joyce Carol Oates e Ben Bernanke tra gli altri — Jeffrey Eugenides parla di tutto ma non del suo nuovo, attesissimo libro di racconti. «Non mi piace parlare di un lavoro che non ho ultimato», spiega l’autore di bestseller come Le vergini suicide (da cui Sofia Coppola ha tratto un film) e Middlesex , il romanzo fiume con cui nel 2003 vinse il Premio Pulitzer. Eugenides è piuttosto in vena di bilanci politici: «Chi lo scorso novembre l’aveva dato per morto si è sbagliato di grosso — s’infervora — perché Obama dà il suo meglio quando è con le spalle al muro. Userà i suoi ultimi due anni in carica nel modo più efficace possibile». I suoi «ordini esecutivi» hanno mandato in tilt il Partito repubblicano: «È inarrestabile. Ha firmato un accordo sul clima con la Cina, trasformando gli Usa da posapiano antiecologici a leader in materia. Stanco di aspettare i repubblicani, è andato avanti con la riforma dell’immigrazione e ha restaurato le relazioni diplomatiche con Cuba, prefigurando la fine di un embargo giudicato ridicolo da tutti tranne che dalla minoranza di cubani-americani che ci teneva in ostaggio. Tutte mosse geniali che preludono ad altre analoghe».

Se fosse un suo studente lo promuoverebbe, insomma?
«Basta guardare i fatti. Quando è stato eletto, l’economia era in caduta libera. Ora il Dow Jones veleggia intorno ai 18 mila punti e la disoccupazione è inferiore al 6 per cento. Il disavanzo è stato tagliato a metà. Per non parlare della sua riforma sanitaria, con la quale si è conquistato un posto nella storia. Ha ragione Matteo Renzi a ispirarsi alla politica antiausterity e degli investimenti obamiana e penso che se togliesse ad Angela Merkel lo scettro dell’Ue, anche l’Italia potrebbe guidare l’Europa fuori dall’abisso».
Nei sondaggi però l’indice di gradimento del presidente resta basso.
«È difficile comunicare i successi in un clima mediatico in cui i fatti non contano, e la gente scambia falsità per verità. I media hanno circondato Obama con un brusio assordante, che gli impedisce di farsi sentire dal cittadino della strada».
Molti parlano già della fine del «Yes, we can» obamiano.
«Gli slogan sono utili soltanto in campagna elettorale. Da quella notte elettrizzante in cui fece il suo discorso di accettazione a Bryant Park, Obama ha messo ben in chiaro di non possedere bacchette magiche. Ha cercato di smorzare le aspettative fin dall’inizio, ma senza riuscirvi perché nessuno lo ascoltava. Sei anni dopo, tutti coloro che l’hanno sostenuto dicono che il cielo sta cadendo. Ma questa è un’illusione quanto lo erano le attese irrealiste in quella fredda notte di Chicago del 2008. Il sogno non è morto, così come allora non era assicurato».
Lo scorso novembre lei parlò di un’America armoniosamente multirazziale, sempre più simile al Brasile, dove il cittadino medio assomiglia più a North West, il figlio di Kanye West e Kim Kardashian, che non ai Padri Pellegrini.
«Dopo i morti di Ferguson, Staten Island e Brooklyn e tutti gli altri disordini, il mio umore è cambiato. Sono pessimista di fronte al muro contro muro che lacera il Paese. Da una parte vedo la giusta indignazione di piazza contro gli eccessi della polizia; dall’altra il livore di Fox News che criminalizza i dimostranti. La polarizzazione politica è all’estremo anche a Washington, dove lo spirito bipartisan è morto. Oggi esistono due Americhe, lontane e separate».

Eppure quella di Obama doveva essere l’era dell’armonia.
«Dobbiamo fare i conti con le profonde diseguaglianze socioeconomiche dell’America e con un tasso di violenza che gli europei stentano a capire. Qui armi e sparatorie sono ovunque e la gente vive in una sorta di guerra quotidiana al rallentatore. Un circolo vizioso di sangue e morte che spinge anche la polizia ad adeguarsi. Mettiti nei panni del poliziotto che va a lavorare tutti i giorni con il terrore di essere impallinato. Al suo posto, forse, anch’io avrei il grilletto facile. Solo il controllo delle armi può porre fine a questa carneficina. Ma dopo Michael Bloomberg nessuno ne parla più».
Non è un tema popolare, come dimostrano le ultime elezioni di medio termine.
«Elezioni dominate dalla paura fasulla di Isis e dell’Ebola che ha neutralizzato la razionalità, come spesso accade in America. Se da fuori sembriamo un Paese solare, il nostro vero mood nazionale oggi è l’isteria. Sono bastate alcune decapitazioni in mezzo al deserto e due casi isolati di Ebola a casa nostra perché gli americani si sentissero personalmente minacciati. La nostra eccessiva militarizzazione, in patria e all’estero, è la prova della nostra paura. Gli elettori si sono ribellati a Obama perché non condivide il loro panico».
Chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti?
«Chris Christie sorprenderà tutti e potrebbe anche essere il nostro prossimo presidente. Di certo sarà il candidato repubblicano nel 2016, avendo ben più carisma e talento politico di Jeb Bush e Rand Paul. Hillary, che appoggiai nel 2008, sarà penalizzata dalla cosiddetta Clinton-fatigue , la lunga esposizione al clan.
Anche la letteratura è più viva e vegeta nell’era di Obama?
«Non credo di poter accettare la premessa secondo cui la politica influenza l’arte e la cultura letteraria. Non ho visto alcuna differenza da quando Obama è presidente e di certo egli non ha influenzato me come scrittore. Un’elezione presidenziale è solo uno dei tantissimi fattori in un panorama ricco e variegato».
Come mai Obama non ha proseguito gli appuntamenti letterari iniziati dal suo predecessore alla Casa Bianca?
«Quei simposi di scrittori erano un’iniziativa della bibliotecaria Laura. La crociata di Michelle è stata fin dall’inizio la lotta all’obesità infantile. Queste tematiche culturali-sociali di solito sono pilotate dalle first lady più che dai mariti. Durante l’amministrazione Kennedy era di moda invitare gli intellettuali per creare un salotto letterario alla Casa Bianca che sposasse potere e cultura. Oggi è un’idea sorpassata e alle cene di Stato gli scrittori sono usati come meri arredi scenici se la loro origine etnica coincide con quella del leader in visita».

Anche l’ossessione del mondo letterario per il «grande romanzo americano» è un residuo del passato?
«Non direi. Ma è più legittimo affermare che un grande romanzo americano viene scritto ogni dieci o vent’anni piuttosto che incaponirsi, come molti, nel sostenere che il capolavoro nazionale arriva soltanto ogni duecento anni».
Quali autori ama di più oggi?
«Leggo e rileggo la straordinaria Alice Munro, che ho inserito nel mio corso a Princeton. Sono un fan del norvegese Karl Ove Knausgård. Ultimamente mi sono appassionato all’autrice anglocanadese Rachel Cusk che sta per pubblicare Outline . Amo anche l’opera di David Foster Wallace, con il quale fino alla sua morte ho mantenuto una corrispondenza. Lo conobbi tramite Jonathan Franzen, un amico affezionato che stimo enormemente come scrittore».
Previsioni sul futuro della letteratura americana?
«Siamo ormai sommersi da letteratura adolescenziale che passa per letteratura da adulti. Oggi è di moda leggere roba adatta a un pubblico di tredicenni. Draghi ed elfi, hobbit e guerre interplanetarie e magia. Ma io sono stanco di essere intrattenuto fino alla morte».
Che cosa propone, allora?
«Penso che i romanzieri seri dovrebbero allontanarsi dalla fantasia e tornare verso la realtà. E con questo non intendo la perpetuazione del romanzo realista sociale, ma un semplice ritorno alla vita reale. La nostra esistenza qui sulla terra è una faccenda seria: è tutto ciò che abbiamo. Perché allora così tanti scrittori fanno a gara per scambiarla con dei reami inventati e puerili? Quindi il mio cri du coeur , almeno per oggi, è: “Lettori di tutto il mondo, unitevi! Evadete dall’evasione!”».