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 2015  gennaio 04 Domenica calendario

AMENDOLA, ETERNO PRETORE D’ASSALTO

Era un’Italia pigra, tartufesca, in bianco e nero. Loro pensarono di scardinarla impugnando la Costituzione come un grimaldello. Spesso con troppa foga, come succede.
«Non siamo disposti a dare ai pretori il governo del Paese!», tuonò dunque Flaminio Piccoli (ammesso che Piccoli abbia mai tuonato) alla Camera, annunciando la fiducia al quinto (quinto!) governo Rumor. Era il 23 marzo 1974, infuriava l’inchiesta sulle «tangenti petrolifere» condotta dal trio Almerighi-Sansa-Brusco: e la scomunica dell’allora capogruppo Dc fu il vero atto di nascita dei «pretori d’assalto» (definizione non proprio benevola coniata da Montanelli).
Che volessero dar l’assalto al cielo, sentendosi un po’ cavalieri romantici e un po’ guerriglieri guevaristi, è possibile. A 29 anni, fresco di toga e di Pretura, Gianfranco Amendola già teneva d’occhio le acque di Fiumicino, per dire. E nella primavera del 1971 fece sequestrare gli impianti della Purfina Petroli per inquinamento ambientale. Siccome tutti viviamo di coazioni a ripetere, l’altro giorno, ormai anziano procuratore di Civitavecchia alla soglia della pensione, ha ottenuto (sempre a Fiumicino) il sequestro dell’oleodotto Eni. Fotogenico, loquacissimo, autore del libro «In nome del popolo inquinato», anche detto Sartana (come il giustiziere degli Spaghetti Western), l’allora «pretore verde» fu un capofila: minacciò di transennare il centro di Roma per smog, sequestrò le antenne di Radio Vaticana per le troppe onde elettromagnetiche: «Noi non siamo burocrati, dobbiamo adeguarci alle nuove realtà sociali», amava ripetere a ogni intervista, riecheggiando il mantra di Md, la corrente «rossa» che di quei giovani magistrati fu quasi sempre casa e ispirazione.
Le «nuove realtà sociali» erano il vento del ‘68, lo Statuto dei lavoratori appena sfornato, un’idea di magistratura vissuta non più come casta guardiana dei potenti ma come potere diffuso, tra la gente e per la gente. La tentazione di raddrizzare ipso facto le storture del mondo fu fortissima. Adriano Sansa raccontò nel ‘73 sull’ Europeo d’essere andato un giorno a far due passi sul lungomare di Genova: «Vidi cose orripilanti, fogne che buttavano escrementi e bambini che facevano il bagno». Sequestrò al volo gli stabilimenti. In sei ore il procuratore avocò l’inchiesta per un reato maggiore (epidemia colposa) e archiviò tutto.
Emanuele Macaluso, uno degli ultimi grandi dirigenti comunisti, mai tenero col giustizialismo, ha detto: «Md nacque come reazione al porto delle nebbie, contro una magistratura asservita alla Dc... Ma portò alla giustizia di classe, non allo stato di diritto». Questa chiave di lettura può dar conto con onestà anche della stagione dei pretori d’assalto: chi ne vede solo errori ed eccessi ideologici, finge di dimenticare il conformismo che aveva dominato sino ad allora.
Mario Almerighi ha narrato in «Petrolio e politica» quei suoi esordi con Sansa e Carlo Brusco nella melassa tangentista che sprigionava già nei primi anni Settanta dagli affari di petrolio. Rammenta le pressioni pesanti, Sansa finito sotto accusa al posto degli accusati, la fulminea approvazione della legge che istituiva il finanziamento pubblico ai partiti. Consci di essere isolati, i tre giovani pretori andarono da un sicuro galantuomo come Pertini, allora presidente della Camera. Lui li portò nello stanzino della lavanderia («siamo assediati dalle microspie») e pianse lacrime vere quando gli dissero che c’erano di mezzo pure i socialisti. Poi si scosse: «Andate avanti, la forza della democrazia siete anche voi».
E i pretori d’assalto andarono avanti, dove poterono. Sbagliando, anticipando, interpretando. Romano Canosa, detto Robespierre, con almeno mille lavoratori reintegrati in vent’anni a Milano. Francesco Dettori, con la sua battaglia infinita ai palazzi di Ligresti. Giuseppe Casalbore provando a oscurare le tv del Biscione sino ai decreti di Bettino Craxi. E cento altri come loro, in quell’Italia che stava cambiando ma non troppo. Come sempre, per non cambiare davvero.