Sebastiano Messina, la Repubblica 5/1/2015, 5 gennaio 2015
NAZIONALE - 05
gennaio 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
L’inchiesta
Quei Parlamenti erano più spaccati di quello attuale eppure i due Capi dello Stato s’imposero subito
Da Cossiga a Ciampi così un Presidente si elegge al primo colpo
SEBASTIANO MESSINA
FARCELA al primo colpo. Eleggere il presidente subito, senza arrivare neanche alla seconda votazione. Quando si arriva all’ora X, e il Parlamento deve scegliere l’uomo che per sette anni sarà il capo dello Stato, chi dà le carte sogna sempre di riuscirci. Ma solo due volte — due volte su undici — un presidente è stato eletto al primo scrutinio. Accadde con Francesco Cossiga, che il 24 giugno 1985 raccolse 752 voti su 979. E successe di nuovo il 13 maggio 1999, quando Carlo Azeglio Ciampi fu votato da 707 grandi elettori. È per questo che, nei corridoi di un Parlamento che ha assistito ai tanti agguati dei franchi tiratori, si parla ancora oggi del «metodo Cossiga» e del «metodo Ciampi» con lo stesso tono con cui i calciatori si raccontano negli spogliatoi i gol di Pelé e quelli di Maradona.
Ma come andarono realmente le cose? Come fu possibile ottenere un risultato che oggi sembra quasi impossibile? Anche allora — anzi allora più di oggi — il Parlamento era diviso in due. Nel 1985 il taglio della scala mobile aveva provocato uno scontro durissimo — il pentapartito di Craxi contro i comunisti — uno scontro che si era concluso il 10 giugno con la sconfitta del Pci. E nel 1999 le parti si erano invertite: a Palazzo Chigi sedeva per la prima volta un ex comunista, Massimo D’Alema, accusato però dal centrodestra berlusconiano di aver raggiunto quella poltrona senza alcuna legittimazione popolare. In tutti e due i casi, dunque, il clima politico era, più che caldo, rovente. Eppure ci furono due leader che decisero di tentare un’impresa che sembrava disperata. E ci riuscirono.
Alla fine di maggio del 1999, quando il segretario dei Ds Walter Veltroni, prende in mano la pratica Quirinale, sui giornali circola una rosa di tre nomi che il Ppi si appresta a proporre agli alleati di governo per bilanciare con un cattolico sul Colle la presenza di un diessino a Palazzo Chigi. I nomi sono quelli di Nicola Mancino, Rosa Russo Jervolino e Franco Marini. Veltroni però non è affatto convinto che la partita possa essere risolta così. «A me — spiega oggi l’ex segretario dei Ds — sembrò molto complicato che un’elezione di alto profilo istituzionale potesse essere raggiunta con un nome che nascesse solo dalla maggioranza esistente, peraltro non gigantesca. Ci voleva un nome che per la sua autorevolezza risultasse super partes».
Il nome in realtà Veltroni ce l’ha già. È Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore di Bankitalia ed ex presidente del Consiglio, l’uomo che ha portato l’Italia nell’euro. È il ministro del Tesoro in carica, ma non ha in tasca nessuna tessera di partito. Napolitano e Prodi approvano subito l’idea, e anche D’Alema è d’accordo: «Se tu riesci a trovare le condizioni può essere la scelta giusta». Allora Veltroni chiama Casini e Fini, gli alleati di Berlusconi. «Vennero a casa mia, una mattina, e parlammo a lungo. Avrebbero potuto cogliere l’occasione per scardinare la maggioranza, e invece fecero una scelta di responsabilità istituzionale. “Va bene, mi dissero alla fine, ma prima dobbiamo sentire Berlusconi”. Più tardi ne parlai con Gianni Letta, che si mostrò personalmente favorevole ». Solo quel punto il segretario diessino telefona a Ciampi per informarlo di quello che sta succedendo. «Sono contento che anche il centrodestra non abbia un pregiudizio negativo nei miei confronti» commenta, sobriamente, il ministro del Tesoro.
L’indomani arriva il via libera del centro- destra. E’ fatta. Ma l’esperienza induce alla prudenza. Confessa Veltroni: «L’elezione del presidente era sempre stata una mattanza, perciò quando cominciò la votazione ero davvero molto preoccupato. Ma nel momento in cui Ciampi superò il quorum, e nell’aula scattò l’applauso, io provai una gioia che è stata tra le più importanti della mia vita politica».
Anche Ciriaco De Mita, segretario della Dc, nella primavera del 1985 si trova davanti allo stesso bivio. In quell’inizio d’estate di trent’anni fa nessuno — dopo il settennato del socialista Pertini, e con il socialista Craxi a Palazzo Chigi — mette in discussione il diritto della Dc di mandare un suo uomo al Quirinale. Ma invece di tentare un accordo nel suo partito, il leader democristiano si mette a cercare il consenso degli altri. «Mi ero convinto — racconta oggi — e lo avevo detto in un’intervista già nel 1971, che il nome del presidente doveva uscire dall’arco costituzionale. Perché la modalità dell’elezione non è solo un fatto tecnico. Se si vuole che sia un rappresentante della nazione, bisogna costruire il più ampio consenso possibile: il nome viene dopo. Se viceversa si vuole imporre un nome allora si va al consenso più conveniente, ma così si toglie autorevolezza all’eletto».
Perciò, quando si aprono i giochi, lui chiede agli altri segretari di partito di proporgli delle rose di candidati che possano raccogliere un consenso ampio. Democristiani, si capisce. Il primo a cui espone il suo piano è Spadolini: «L’idea è buona, ma non è mai successo» commenta il leader repubblicano. «Non ci si è mai provato» risponde lui. La sera dopo, a una cena, Spadolini racconta ai suoi il colloquio: «Ciriaco si è messo in testa questa cosa, facciamogliela fare tanto non ci riuscirà».
Intanto De Mita incontra Alessandro Natta, a casa di Biagio Agnes. Su Cossiga, Natta ha qualche riserva («Col senno di poi devo dire che aveva ragione» ammette oggi De Mita), ma alla fine il segretario comunista si convince: «Va bene Cossiga ». I socialdemocratici si presentano con un elenco dove ci sono tutti i democristiani, dunque anche Cossiga. I più freddi sono i liberali: nella loro rosa, quel nome non c’è. Per superare l’ostacolo, il leader democristiano si fa promettere dal futuro presidente che nominerà senatore a vita Malagodi, insieme a Elia e a Baffi (promessa che non sarà poi mantenuta) e ottiene il placet del Pli. Restano i socialisti. Con Craxi, De Mita ha sempre avuto rapporti difficili. Ma quando lo incontra, nella sede di rappresentanza di Villa Madama, trova una sorprendente disponibi-lità: «Dobbiamo trovare un candidato che anche i comunisti possano votare» gli dice il premier socialista. E fa un nome: «Cossiga, per esempio».
Incontra tutti, De Mita, ma non il candidato. Dal quale riceve, una sera, una lettera riservata: Cossiga teme che la sua situazione familiare (lui e la moglie sono “separati in casa”) possa diventare un problema. Ma il segretario del partito sa che in realtà lui tiene moltissimo a passare dalla presidenza del Senato a quella della Repubblica. «Qualche mese prima, a Natale — racconta — per la prima volta Francesco era venuto a Nusco. Eravamo andati insieme a messa e poi lo avevo invitato a pranzo a casa mia. Non avevamo parlato del Quirinale, ma credo proprio che quel viaggio non fosse stato casuale».
Con l’accordo in tasca, De Mita riunisce i parlamentari democristiani. Ai quali, a quel punto, annuncia non il candidato ma il nuovo capo dello Stato. Si aspetta un applauso, ma il suo discorso viene accolto da un imbarazzato silenzio: insieme alle ambizioni personali che sfumano ci sono i dubbi di chi pensa che il segretario si sia fatto illudere dagli alleati. Poi, cogliendo tutti di sorpresa, Andreotti chiede la parola e benedice l’accordo: «Se fosse ancora vivo De Gasperi, oggi sarebbe contento ». È allora che arriva l’applauso. L’indomani sarà eletto il nono presidente. E nascerà il «metodo Cossiga».
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