Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 03 Sabato calendario

L’ARGENTINA TORNA AL BIVIO

Quello che si è appena aperto è un anno ricco di scadenze importanti per l’Argentina. Nel bene o nel male nei prossimi mesi si decideranno le sorti economiche del Paese sudamericano e di conseguenza il destino dei suoi bond in mano a milioni di investitori esteri tra cui circa 450mila risparmiatori italiani. Prima novità importante: da tre giorni non è più in vigore la clausola Rufo ( Rights Upon Future Offers) e questo potrebbe smuovere la trattativa tra Buenos Aires e gli obbligazionisti, arenata ormai da mesi.
Si tratta di una condizione inserita nei nuovi titoli con cui nel 2005 e 2010 la gran parte dei risparmiatori (circa il 92%) ha accettato di sostituire i vecchi bond coinvolti nel default del 2001. La clausola prevedeva che fino al 31 dicembre 2014 chi avesse aderito alle offerte di scambio del 2005 e 2010 avrebbe avuto diritto ad ottenere lo stesso trattamento dei possessori di vecchi titoli se questi avessero alla fine strappato condizioni migliori.
Quando la scorsa estate un tribunale statunitense (i titoli coinvolti sono emessi sotto giurisdizione Usa) ha imposto a Buenos Aires di rimborsare interamente e in via prioritaria i vecchi bond in possesso dei due hedge funds Nml Capitale e Aurelius, le potenziali e dirompenti implicazioni della clausola sono emerse in tutta la loro portata. Pagare i circa 1,5 miliardi di dollari tra rimborsi e interessi che sarebbero spettati ai fondi avrebbe infatti innescato il diritto per tutti gli altri obbligazionisti di esigere lo stesso trattamento finanziario.
Anche per questa ragione il Paese è stato forzato lo scorso luglio a scegliere le via del default tecnico, l’ottavo nella sua travagliata storia finanziaria. Si è prodotta così una condizione che non giova a nessuno. Né a Buenos Aires che rimane quasi completamente tagliata fuori dai mercati finanziari né ai possessori di nuovi o vecchi titoli che al momento non ricevono neppure un euro. Il Governo argentino ha sempre affermato di non voler approfittare della scadenza della clausola per avviare delle trattativa con i fondi statunitensi a scapito delle pretese dei possessori di bond ristrutturati, che rimarrebbero così con il cerino in mano. Una posizione favorevole a chi aveva aderito alle offerte di ristrutturazione recentemente ribadita anche dal ministro dell’Economia Axel Kicillof. La Casa Rosada ha però anche fatto leva in più occasioni su questa situazione per giustificare l’impossibilità di adempiere a quanto disposto dal giudice statunitense.
Scaduta la clausola si gioca a carte scoperte e sarà forse possibile almeno capire meglio quali siano le reali intenzioni del paese sudamericano. Non bisogna dimenticare che il prossimo ottobre il Paese andrà ad elezioni presidenziali e l’attuale presidente Cristina Kirchner non potrà ricandidarsi. Qualunque sia il candidato che alla fine la spunterà tra il peronista Daniel Scioli e i rivali Mauricio Macri o Sergio Massi, è lecito attendersi un atteggiamento meno populista e più pragmatico anche sulla questione dei titoli di Stato.
Sarà importante però vedere in quali condizioni economiche il Paese arriverà all’appuntamento elettorale. I dati ufficiali non sono attendibili, quelli ufficiosi descrivono una situazione in continuo deterioramento. La disoccupazione sarebbe vicina al 10% (circa 7% un anno fa), l’inflazione ormai sopra il 40%. Il valore reale dei salari è in costante diminuzione e i consumi in caduta mentre le manifestazioni di protesta si moltiplicano. Non aiuta il crollo del petrolio dell’ultima parte dell’anno. L’Argentina non è un grande produttore di greggio ma è un forte esportatore di materie prime agricole i cui prezzi tendono a muoversi nella stessa direzione di quelli petroliferi. Minori introiti dall’export di soia o cereali aggiungerebbero pressioni sulle riserve in valuta estera già da tempo in costante erosione. Le difficoltà a cui andranno incontro per lo stesso motivo economie limitrofe come Brasile, Colombia o Venezuela non faranno che peggiorare la situazione.
Nel frattempo continuano le scaramucce giudiziarie. Pochi giorni fa l’Argentina ha perso il ricorso in corte d’appello contro la decisione che impone al Paese e ad alcune sue banche di rivelare informazione sulla reale entità delle ricchezze nazionali a richiesta degli obbligazionisti. Gli unici ambiti salvaguardati sono quello militare e quello diplomatico.
Mauro Del Corno, Plus – Il Sole 24 Ore 3/1/2015