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 2015  gennaio 03 Sabato calendario

IL VIRUS «STUPIDO» CHE SPAVENTA L’AFRICA

Il contagio potrebbe arrivare in Europa, ma la diffusione sarebbe estremamente limitata
I signori medici, biologi, epidemiologi e in generale gli esperti scusino il linguaggio e la qualità delle spiegazioni di questo articolo. È scritto da un giornalista ed è rivolto ai lettori normali, non agli scienziati. Le numerose fonti consultate – in gran parte contatti diretti - non sono citate, ma è sufficiente un’analisi sul web per riunire documenti simili.
ÈBOLA O EBÒLA
Noi la chiamiamo èbola, con l’accento sulla e; ma all’estero si chiama ebòla, con l’accento sulla o, se possibile da dire con una pronuncia vagamente inglese, ebòula. Il nome viene dal nome di un fiume del Congo (il fiume Ebola) nella cui area una quarantina d’anni fa furono studiati alcuni dei primi casi.
RIPUGNANTE
Il contagio avviene per contatto diretto con un altro malato. Dopo alcuni giorni i primi sintomi sono quelli di una febbre malarica, però poi il corpo comincia a corrompersi in diaree devastanti e perdite impressionanti di sangue da ogni parte del corpo. Il sangue e la cacca sono il veicolo di trasmissione del virus. Le terapie sono di aiuto (per esempio restituire al corpo l’acqua persa). La mortalità è più alta nelle zone più disagiate dal punto di vista sanitario e per i malati dall’organismo più compromesso.
UN VIRUS “STUPIDO”
Se si potesse assegnare un carattere a un virus come fosse un animale superiore, ebola sarebbe definito “poco aggressivo” e “molto stupido”. I virus più “intelligenti” (continuando a dare caratteristiche che queste specie viventi non hanno) hanno un contagio aggressivo e facile (per esempio attraverso l’aria), l’ospite è contagioso a lungo prima che manifesti i sintomi della malattia. Secondo i criteri inappropriati appena usati, ebola è piuttosto stupido. Il contagio avviene con difficoltà, solo per contatto diretto con i fluidi del corpo del malato, e poiché questi fluidi sono abbondanti solamente quando la malattia è evidente e ripugnante, il malato nella fase contagiosa è tenuto in genere isolato. Sono a rischio coloro che lo assistono, cioè medici, infermieri e famigliari. E poi in poco tempo uccide fra il 50 e il 90% delle persone che contagia, le quali morendo smettono di contagiare: (attenzione, però: i cadaveri sono contagiosi).
UN VIRUS “AUTOESTINGUENTE”
Queste caratteristiche (mortalità altissima, sintomi evidenti e ripugnanti) hanno reso per decenni il morbo abbastanza isolato e poco mobile. Tende a chiudersi in una comunità fino a sterminarla, diffondendosi poco all’esterno del gruppo ristretto. Il modo più semplice di controllarlo è stato l’isolamento delle comunità africane che ne venivano colpite. Il problema ha cominciato a manifestarsi in modo più preoccupante con la mobilità: il malato viene trasportato a casa di parenti del villaggio vicino, o viene curato dall’infermiere del villaggio vicino. Il contagio nei Paesi sviluppati è reso più facile dalla mobilità (fisica e sociale) estrema, ma è frenato dalle regole sanitarie che circondano i malati, ed è facile tenere sotto controllo un malato e chi ne viene a contatto. Difficile il manifestarsi di focolai diffusi e incontrollabili come avviene in Africa.
DA DOVE VIENE
Il virus di ebola ha il serbatoio naturale fra i pipistrelli africani mangiatori di frutta. Poiché il contagio avviene per contatto diretto con i fluidi del corpo, che contatti può avere l’uomo con i pipistrelli? In primo luogo, i contatti possono essere fra i pipistrelli con altri animali, come le scimmie, che si ammalano come gli uomini e possono contagiarli. In alcune zone d’Africa un tipo di pipistrello, la “volpe volante”, è un ingrediente apprezzatissimo di alcune preparazioni alimentari.
UN ANNO FA
Nel dicembre 2013, i focolai di ebola hanno cominciato a uscire dall’area in cui il virus è sempre rimasto, ha cominciato a manifestarsi non solo nell’Africa Centrale (Congo, Nigeria o Uganda), ma anche e soprattutto nei Paesi dell’Africa Occidentale (Sierra Leone, Liberia e Guinea). In decenni di presenza di malati, i medici dell’Africa Centrale avevano esperienza nel riconoscere i sintomi; ma i medici dei nuovi Paesi non si erano allarmati quando vedevano malati di ebola perché i sintomi iniziali sono simili a quelli della malaria o della febbre dengue. Nel marzo scorso i medici di Médecins sans Frontières lanciarono i primi allarmi. Inascoltati, se non da pochi.
GLI OSPEDALI (PRIMA PARTE)
Mentre gli allarmi internazionali restavano inascoltati, i medici dei nuovi Paesi di diffusione del morbo – Guinea, Sierra Leone e Liberia – e i volontari come quelli di Médecins sans Frontièrese di altre organizzazioni non governative cercarono di porre rimedio come potevano all’epidemia. Le norme di semplice igiene, efficaci, furono la prima arma contro il contagio. Ma come convincere al lavaggio delle mani persone che non dispongono di acqua pulita da bere? Come diffondere la pulizia fra persone che non hanno il sapone? Si arrivò al punto di consigliare il ricorso a sabbia o cenere di frassino come surrogato del sapone. Intanto gli ospedaletti africani si riempivano di malati ad alto contagio, e l’insufficienza di mezzi e strumenti trasformava molti di questi ospedali in mezzi di nuovo contagio. Le infermerie di villaggio avevano letti e pavimenti lordati dai contagiosissimi sangue, vomito e diaree dei malati. Venivano contagiati gli inservienti, i malati colpiti da altre malattie, i medici; e costoro poi diffondevano il virus nel villaggio di provenienza. La situazione era migliore negli ospedali meglio attrezzati e in quelli organizzati secondo i criteri delle organizzazioni non governative o secondo standard medici meno improvvisati.
GLI STREGONI E I RITI FUNERARI
Un ruolo importante nella diffusione del virus ebola è stata la “medicina naturale” propugnata da molti guaritori. Uno di essi, molto seguito, sosteneva che la terapia contro ebola consisteva nel sale da cucina. In media, il 50% delle persone muoiono con una dose di 4 grammi di sale per chilo di peso del corpo. In diversi villaggi le persone spaventate da ebola avevano mangiato sale senza misura, morendone. Il rischio di contagio è massimo alla morte del malato, il quale è intasato di un’infinità di virus che disperde con la morte.
GLI OSPEDALI (SECONDA PARTE)
In primavera, quando cadevano nel vuoto gli allarmi e quando i produttori di vaccini senza ricevere risposta si offrivano per avviare le ricerche, cominciavano ad affluire risorse e ad attivarsi i sistemi di cura e prevenzione. La Croce Rossa per esempio ha avviato iniziative. L’informazione corretta cominciò a circolare anche fra le popolazioni di questi Paesi che non avevano conosciuto prima il virus ebola. In estate gli ospedali facevano ancora paura, ma il male era più forte e molti più malati cominciarono ad affluire nelle astanterie. Gli ospedali pubblici, le infermerie e le strutture delle organizzazioni non governative in Guinea, Sierra Leone, Liberia si riempirono di persone che perdevano fiotti di sangue, vomitavano sangue e con diarrea incontenibile. In molti casi le camerate si riempivano di lordura, in mezzo alla quale gli addetti in scafandro riuscivano con fatica a mantenere l’igiene. In alcuni casi gli ospedali minori sono diventati fonte di nuovo contagio, perché i ricoverati per malattie simili all’ebola, come la malaria, venivano esposti al virus. Durissimo è il lavoro di medici e infermieri. Lavorano a rischio della vita.
LO SCAFANDRO
In corsia, e durante le cure dei pazienti, medici, infermieri e addetti devono indossare lo scafandro, una tuta completa che copre testa e piedi, e anche maschera e occhiali. Una goccia di sangue infetto può uccidere. La procedura per indossare e per togliere la tuta è complessa e lunga. Bisogna essere in due persone. La parte più difficile è togliere di dosso la tuta e le altre protezioni imbrattate da fluidi contagiati. Bisogna farlo senza mai toccare le superfici lordate. Se la temperatura dell’ambiente è torrida, d’estate si aggira spesso attorno ai 40 gradi, dentro la tuta sembra un forno a microonde. Nella tuta impermeabile il sudore non evapora e non dà refrigerio, e le gocce di sudore scorrono.
Alla fine del turno di lavoro, è gocciolato tanto sudore che gli stivali sono pieni di liquido. Fra il calore insostenibile e gli effetti della disidratazione, medici e infermieri dopo qualche quarto d’ora di lavoro cominciano a perdere la coordinazione dei movimenti e a entrare in stato confusionale prima di svenire. I turni durano in genere meno di un’ora.
CHI LAVORA
Médecins sans Frontières è l’organizzazione non governativa più attiva, ma sono in buona vista anche altre organizzazioni non governative e la Croce Rossa Internazionale. L’Oms (Who) da Ginevra invece pare più lenta; così come quando aveva compreso in ritardo l’emergenza Aids, quest’anno ha sottovalutato a lungo i segnali che arrivavano dall’Africa, dedicando un’attenzione superficiale alle sollecitazioni delle organizzazioni sanitarie volontarie e ai laboratori farmaceutici che già stavano lavorando all’individuazione di vaccini o farmaci efficaci. Per attivare l’Oms è servito l’intervento personale del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, il quale ha scavalcato il ritardo dell’agenzia sanitaria di Ginevra creando un gruppo interdisciplinare cui partecipano varie agenzie Onu, come la Fao (alimentazione), l’attivissima Unicef (infanzia) e anche, senza il ruolo che potrebbe avere, l’Oms. Fra i Paesi, in estate sono scattati gli Usa, che hanno mandato denaro, ospedali da campo con medici e attrezzature (si sono mossi i medici militari dell’Us Army), scienziati e centri ricerca. Molto attivi anche Inghilterra e diversi altri Paesi.
I RISCHI PER NOI
Qualche caso di ebola potrebbe essere importato in Europa e Italia, ma senza la stessa possibilità di diffusione che c’è stata in Africa. Ad aiutarne un po’ la diffusione c’è l’estrema disponibilità di mezzi di trasporto e la mobilità anche sociale. Ma vi sono alcune condizioni che impediscono di trasformare la diffusione di alcuni casi di ebola in un’epidemia incontenibile. La prima fonte di contagio sono alcune specie di pipistrelli mangiatori di frutta non presenti in Europa, e questi animali non sono fonte alimentare.
Il contagio è per via diretta, e in Europa un malato verrebbe immediatamente messo in isolamento. Nel caso di un malato contagioso ma non evidenziato è possibile, seppure con un lavoro difficile di ricostruzione, risalire a tutti i contatti che può avere avuto, e identificare le possibili fonti di nuovi contagi.
Le misure igieniche, primo nemico di ebola, sono comuni nella vita quotidiana e gli usi sociali (come i riti funerari) sono ben diversi da quelli più diffusi nei villaggi africani. Non c’è scarsità di acqua potabile, disinfettanti, saponi, che sono armi efficaci contro il virus.
I sistemi sanitari e la circolazione delle informazioni sono efficaci; la comparsa di casi di ebola in Europa può suscitare panico ma non atteggiamenti di rifiuto di terapie, nascondimento dei malati, comportamenti diffusamente contagiosi.
La popolazione europea è ben nutrita e le persone hanno in genere un migliore stato di salute complessiva.
In altre parole, la malattia può comparire e produrre conseguenze, ma non con la diffusione avvenuta in Africa.
Ebola può diffondersi in altri Paesi meno sviluppati dell’Europa? Sì, per esempio in Asia dove tuttavia gli usi sociali e igienici e la disponibilità di strumenti di lotta contro il virus aiutano a contrastare la diffusione del virus meglio di quanto sia avvenuto in alcuni dei Paesi più poveri al mondo.
Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 3/1/2015