Claudio Tucci, Il Sole 24 Ore 3/1/2015, 3 gennaio 2015
PARADOSSO-CRISI: AL LAVORO 1,1 MILIONI DI OVER 55 IN PIÙ, MA 1,6 DI GIOVANI IN MENO
ROMA
Durante la crisi economica, dal 2007 in poi, i lavoratori over 55 sono aumentati di 1,1 milioni di unità, contro un calo di 1,6 milioni di unità che ha caratterizzato i 25-34enni. A rilevarlo è il Centro Studi di Confindustria. La sfida, sottolinea il report CsC, è ora quella di rendere i giovani più occupabili.
La sfida è rendere «più occupabili i giovani», rafforzando il legame tra scuola e imprese; e modernizzando il mercato del lavoro. L’urgenza è tutta nei numeri della crisi: in sette anni, dal terzo trimestre 2007 al terzo trimestre 2014, si sono persi ben 1,6 milioni di occupati tra i 25 e i 34 anni; una performance tra le peggiori a livello europeo (hanno segnato contrazioni più pesanti della nostra solo Grecia, Spagna e Irlanda).
Nello stesso periodo è continuato invece a crescere il tasso di occupazione dei lavoratori più anziani che sono saliti di 1,1 milioni di unità. L’incremento degli occupati con 55-64 anni d?età ha interessato quasi tutti i paesi Ue; e, anzi, in media, dove la variazione positiva del tasso di occupazione “senior” è stata più marcata, l’occupazione giovanile ne ha beneficiato (è aumentata, cioè, di più o è calata meno). Non c’è stato, quindi, nessun “effetto spiazzamento” (minori opportunità per i ragazzi a fronte dell’allungamento della vita lavorativa).
Le storture del mercato del lavoro italiano sono più strutturali; e i dati diffusi ieri dal CsC lo confermano, evidenziando la necessità di interventi mirati, soprattutto in favore dei giovani, la categoria più vulnerabile quando l’economia si contrae (hanno poco esperienza e sono titolari per lo più di contratti temporanei).
Non sorprende, quindi, come dal terzo trimestre 2007 e il terzo trimestre 2014, la contrazione del tasso di occupazione tra i 25-34enni sia stata molto elevata: si è passati dal 70,3% al 59,1%. Una diminuzione dell’impiego dei giovani ha interessato quasi tutta Europa: ma sono andati meglio i paesi caratterizzati da una maggiore integrazione tra scuola e lavoro (Germania e Austria) e da una mercato del lavoro più flessibile (Regno Unito).
Certo, va considerata pure la stretta correlazione con la performance economica complessiva: dove il Pil è sceso meno rispetto al picco pre-crisi o, addirittura, è già tornato sopra quel picco, l’occupazione giovanile è stata meno penalizzata (in alcuni casi è, perfino, risalita).
Un andamento differente rispetto al tasso di occupazione dei più anziani, che in Italia è in aumento dai primi anni Duemila, allargando così la “forbice” lavorativa (giovani – “senior”). Il fatto che ci siano più 55-64enni a lavoro è dipeso essenzialmente dalle ultime riforme previdenziali che hanno progressivamente innalzato i requisiti minimi per l’accesso alle pensioni (in parte minore si spiega anche dalla circostanza che le coorti di popolazione che superano via via i 55 anni provengono da una scolarizzazione più elevata che ha ritardo l’ingresso nell’occupazione - e perciò il conseguente ritiro).
Sta di fatto che il tasso di occupazione degli anziani ha raggiunto il 46,9% nel terzo trimestre 2014 dal 34,2% del terzo trimestre 2007: più 12,7 punti percentuali. Ma l’asticella complessiva è ancora bassa e quindi la dinamica (di crescita) proseguirà anche nei prossimi anni, come stima pure la Commissione europea (dal 2020 gli italiani si ritireranno dal lavoro a un’età molto più elevata di quella prevalente in precedenza). Nel confronto internazionale, l’Italia da paese con età di pensione tra le più basse (61,4 per gli uomini e 61,1 per le donne - livelli superiori solo a quelli di Austria e Francia) passerà al top nel 2060 (66,8-66,7 anni).
Tutto ciò penalizzerà l’occupazione giovanile? L’analisi del CsC risponde «no», sfatando così una tesi molto popolare, e diffusa, che l’occupazione degli anziani penalizza i giovani. Questo adagio, ricordano da Confindustria, ha costituito negli anni Settanta e Ottanta una delle argomentazioni più persuasive per abbassare l’età di uscita dal lavoro e ricorrere ai prepensionamenti come meccanismo di risoluzione delle crisi aziendali (con il risultato , però, di aver fatto lievitare spesa previdenziale e contributi sociali, rendendo più rigido il bilancio pubblico e ampliando il cuneo fiscale che finisce per penalizzare proprio l’occupazione dei giovani).
Il confronto internazionale ha evidenziato, invece, tra il 2007 e il 2013, una correlazione positiva tra la variazione del tasso di occupazione dei 55-64enni e quella del tasso di occupazione dei 25-34enni. In Germania, Polonia, Gran Bretagna, e in parte Francia, per esempio, l’incremento del lavoro dei “senior” ha avuto effetti positivi anche per i giovani. In Italia, purtroppo, no.
Di qui la necessità di «interventi mirati». A partire da una maggiore integrazione tra istruzione e lavoro per far combaciare meglio le competenze acquisite durante gli studi con quelle richieste nella vita lavorativa. Va poi migliorato il contesto del fare impresa e l’impiego di manodopera, riducendo il cuneo fiscale, proseguendo nella direzione intrapresa con la legge di Stabilità 2015, e bilanciando la minore rigidità nel licenziamento, per tutti, con l’universalizzazione dei sussidi di disoccupazione. Qui le norme contenute nel Jobs act «si muovono lunga questa direzione». Va infine rafforzata la flessibilità contrattuale a livello aziendale e territoriale per arrivare a strutture salariali più moderne che leghino (davvero) gli aumenti retributivi all’andamento della produttività.
Claudio Tucci, Il Sole 24 Ore 3/1/2015