Antonio Satta, MilanoFinanza 3/1/2015, 3 gennaio 2015
TORNADO FRANCESCO
Nessuno dei due, a vederli in borghese, senza abito talare, sembra avere il physique du rôle: spalle larghe, corpo massiccio, volto tagliato con l’accetta, eloquio diretto e almeno uno anche una risata forte, coinvolgente. Si tratta di quello più alto, un colosso di due metri, che ha per sovrapprezzo anche un cognome pesante. Eppure, tra tutti i cardinali, Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, e George Pell, fino a pochi mesi fa arcivescovo di Sidney, sono quelli a cui Papa Francesco ha dato il compito, per paradosso, più spirituale che ci possa essere: rivoluzionare la finanza vaticana per fare in modo che l’oro della Chiesa vada a chi ne ha bisogno.
Il Papa, venuto da Buenos Aires, sull’argomento ha le idee molto chiare e in una delle sue prime omelie mattutine nella Domus Santa Marta, dove ha scelto di vivere lontano dai regali appartamenti pontifici, lo ha detto papale papale: «Se si vuol fare una Chiesa ricca, allora la Chiesa invecchia», perché «non ha vita. La predicazione evangelica nasce dalla gratuità, dallo stupore della salvezza che viene e quello che io ho ricevuto gratuitamente, devo darlo gratuitamente». Gesù e gli apostoli vivevano così, «San Pietro non aveva un conto in banca», ama ripetere Francesco, aggiungendo che «questa povertà ci salva dal diventare organizzatori, imprenditori. Si devono portare avanti le opere della Chiesa, e alcune sono un po’ complesse; ma con cuore di povertà, non con cuore di investimento o di un imprenditore».
Se queste sono le premesse, il compito che Francesco ha affidato a Marx e Pell è quello di rimettere a posto lo Ior, l’Istituto per le opere di religione, in cui l’ombra delle pessime pratiche dei tempi di monsignor Paul Marcinkus, americano di Chicago e a capo dello Ior nei suoi anni peggiori, continua ad allungarsi. In un primo momento il Papa voleva addirittura sciogliere, o comunque ribaltare da cima a fondo lo Ior. Diretto come al solito, sempre dal pulpito della cappella della Domus Santa Marta, vedendo davanti a sé alcuni dipendenti della banca, soltanto un mese dopo la sua elezione, se ne uscì dicendo: «Ci sono quelli dello Ior: scusatemi eh, tutto è necessario, gli uffici sono necessari, ma sono necessari fino a un certo punto. La Chiesa», proseguì, «non è una Organizzazione non governativa, è una storia d’amore», di conseguenza lo Ior e gli altri organismi vaticani, sono necessari «come aiuto a questa storia d’amore». Ma «quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una Ong», cioè «diventa un po’ burocratica, perde la sua principale sostanza».
E negli stessi giorni aveva già aperto la sua battaglia contro la Curia, guidata allora, non proprio saldamente, dal cardinal Tarcisio Bertone, controverso segretario di Stato negli anni di Benedetto XVI. La prima e decisiva mossa di Francesco è stata la nomina di una commissione cardinalizia di otto porporati per riformare la Curia. Un organismo rappresentativo di tutti i continenti, che risponde solamente a lui, diventato nei fatti il vero governo di Santa Romana Chiesa e chiamato subito dagli altri porporati il C8 (diventato poi C9, quando ai primi membri s’è aggiunto il successore di Bertone, il cardinale Pietro Parolin). E tanto per far capire l’antifona, nella commissione (Parolin escluso) c’è un solo curiale, Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, che Bergoglio aveva conosciuto quando era nunzio in Messico, e che aveva stimato ancora di più dopo l’inchiesta, diretta proprio da Bertello, che fece luce sui crimini di padre Marciel Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo.
Gli altri membri della commissione sono Francisco Javier Errazuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago del Cile, Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, Andres Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa, Marcello Semeraro, vescovo di Albano, e appunto i cardinali Pell e Marx. Quest’ultimo con la funzione di stratega della rivoluzione nella finanza vaticana, mentre Pell ne sarà il braccio operativo. Marx, infatti, era già l’economista di riferimento di Papa Ratzinger, pur essendo decisamente distante della visione teologica di Benedetto XVI. Marx, che è presidente della Conferenza episcopale tedesca, è fra i capofila dello schieramento progressista sui temi della famiglia e della sessualità.
Più che la sintonia su questi temi, però, nella scelta di Bergoglio, hanno contato altre idee di Marx, quelle sull’economia, raccolte in un saggio pubblicato nel 2008 che con un certo senso dell’umorismo l’autore ha voluto intitolare Il Capitale, con un sottotitolo ancora più esplicito Una critica cristiana alle ragioni del mercato. Per Marx «sono le persone e la terra intera il vero capitale e la Chiesa è chiamata a lottare con unghie e denti per difenderli». Non a caso, sempre nel 2008, di fronte alla Commissione Affari sociali ComeCe (la Commissione episcopale della Comunità europea), Marx si è detto convinto che sia arrivata l’ora «di mettere in atto una governance globale per portare più giustizia, trasparenza e responsabilità nei mercati finanziari mondiali, come da tempo la Chiesa propone».
Idee quanto mai in sintonia con quelle di Bergoglio che di fronte alla bufera della crisi Argentina scrisse: «Non mi sembra che gli organismi finanziari internazionali pongano al centro delle loro riflessioni l’uomo, nonostante le belle parole. Indicano sempre ai governi le loro rigide direttive, parlano sempre di etica, di trasparenza, ma mi appaiono come eticisti senza bontà». E ancora: «C’è stato in questi anni un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media. In questo momento, nella città e nelle zone abitative intorno a Buenos Aires, ci sono 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione economicistica, la Chiesa di questa nazione si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero».
Questo è dunque l’humus che ha portato alla svolta dello scorso febbraio, quando sulla base del lavoro del C9, Francesco ha emanato un motu proprio, locuzione latina che identifica una decisione del Papa che non sia proposta da alcun organismo della Curia Romana. E la disposizione ha cancellato ogni precedente gerarchia, creando due nuove strutture per l’indirizzo e la gestione di ogni attività finanziaria della Chiesa, interconnesse fra loro e che rispondono entrambe solamente al Papa.
La prima è il Consiglio per l’economia, l’organo più politico, che ha il compito di «valutare direttive e pratiche concrete, e preparare e analizzare i rapporti sulle attività economiche-amministrative della Santa Sede». È composto da otto cardinali e sette esperti laici. Coordinatore è Marx, gli altri nominati sono Jean Luis Cipriani Thorne, arcivescovo di Lima, Daniel DiNardo, arcivescovo di Houston, Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban (Sudafrica), Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux, Norberto Rivera Carrera, arcivescovo di Città del Messico, John Tong Hon, vescovo di Hong Kong, e Agostino Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma.
Membri laici sono il maltese Joseph F. X. Zahra (è il braccio destro di Pell e ha il ruolo di vice coordinatore della commissione), il francese Jean-Baptiste de Franssu, il canadese John Kyle, lo spagnolo Enrique Llano Cueto, il tedesco Jochen Messemer, l’italiano Francesco Vermiglio, e George Yeo, di Singapore.
Alla commissione farà riferimento la Segreteria per l’Economia, che come recita la disposizione del Papa «avrà autorità su tutte le attività economiche e amministrative all’interno della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. La Segreteria sarà responsabile, tra le altre cose, della preparazione di un budget annuale per la Santa Sede e lo Stato Città del Vaticano, nonché della pianificazione finanziaria e delle varie funzioni di supporto quali le risorse umane e l’approvvigionamento. La Segreteria sarà inoltre tenuta a redigere il bilancio dettagliato della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano».
La vera novità, però è che sotto la Segreteria sono state messe tutte le istituzioni finanziarie: l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, cioè l’organismo che si occupa della gestione del patrimonio economico, il Fondo pensioni del Vaticano (per il quale un comitato tecnico sta studiando un adeguamento per garantirne la sostenibilità a lungo termine) e l’Aif, che è l’Autorità di Informazione Finanziaria, l’istituzione che lo Stato della Città del Vaticano ha dovuto costituire per mettersi in regola con le policy di lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo e non finire nella black list dei paradisi fiscali.
Quando sarà pronto, andrà sotto la Segreteria pure un organismo nuovo di zecca, il Revisore generale, con compiti di audit su tutti i dicasteri della Curia e le altre istituzioni collegate con la Santa Sede e lo Stato del Vaticano, insomma una sorta di Corte dei Conti del Papa. Ma soprattutto sotto la Segreteria è finito lo Ior che era precedentemente autonomo. A capo della segreteria, con rango di Cardinale Prefetto, il Papa ha nominato Pell (vedere box in pagina), che a tutti gli effetti è ora il ministro delle Finanze del Pontefice, al quale risponde direttamente.
Francesco punta molto su Pell, che ha soprannominato Il ranger, e i risultati sembrano arrivare. Ai primi di dicembre, in una intervista al periodico britannico Catholic Herald Magazine, Pell ha rivelato che nella sua personale spending review ha scovato un’enorme quantità di soldi che mai erano apparsi sui bilanci ufficiali. «In realtà», ha detto, «abbiamo scoperto che la situazione è più rosea di quanto sembrasse, poiché centinaia di milioni di euro si trovavano in particolari sezioni della contabilità e non apparivano chiaramente nel bilancio». Non si tratta quindi di fondi illeciti, ma di capitali che congregazioni e altri organismi vaticani gestivano in autonomia, e chi redigeva i bilanci ufficiali non sapeva (apparentemente) della loro esistenza. Pell non ha fatto nomi, ma tutti hanno pensato al dicastero delle missioni, il potentissimo Propaganda Fide, che ha sempre avuto un bilancio proprio, distinto da quello consolidato. Ora però la musica è cambiata e come ha riferito al magazine cattolico, tutte le organizzazioni della Santa Sede dovranno adeguarsi «ai moderni standard di contabilità» e soprattutto dovranno essere trasparenti. Non solo, ha aggiunto Pell: nonostante il suo intervento sia circoscritto «alla Santa Sede, allo Stato del Vaticano e ai 200 enti religiosi che dipendono direttamente dal Vaticano», ci sono già «cardinali e vescovi che hanno chiesto esplicitamente se possono adottare le nuove procedure finanziarie e le stesse modalità di tenere il bilancio, introdotti lo scorso novembre per il Vaticano. Anche questo è un lavoro per il futuro». E per ottenere risultati adeguati, Pell ha fatto redigere un manuale sulle politiche di financial management, che ha distribuito a tutti gli enti vaticani che si occupano di finanza, organizzando corsi intensivi di aggiornamento per ragionieri, segretari e contabili dei vari uffici.
Intanto, come informa il bollettino ufficiale numero 5 del Consiglio per l’Economia (tutto ora viene annunciato pubblicamente), i bilanci consuntivi 2014 di congregazione e degli altri organi della Santa Sede «dovranno registrare qualsiasi transazione o saldo non precedentemente riconosciuto in bilancio, e realizzare inventari completi, in modo che tutti i valori siano correttamente riportati nei saldi di apertura 2015». Come un caterpillar, Pell ha travolto tutte le resistenze della vecchia curia, con l’appoggio totale del Papa, che in luglio ha emanato un secondo motu proprio per trasferire alla Segreteria per l’Economia i compiti che fino ad allora erano stati della Sezione Ordinaria dell’Apsa, cioè tutta la gestione operativa della Santa Sede (bilancio, acquisti, risorse umane, stipendi, il Ced, l’ufficio legale), ma anche il patrimonio immobiliare dello Stato, insieme alle risorse finanziarie e gli investimenti affidati dagli altri enti della Santa Sede. All’Apsa, che come già detto risponde comunque alla Consiglio per l’Economia e funzionalmente alla Segreteria, resta tutto ciò che rientrava nella Sezione straordinaria, cioè l’amministrazione dei beni finanziari trasferiti dallo Stato Italiano in base alla Convenzione finanziaria allegata ai Patti lateranensi, quelli affidati da altri enti della Santa Sede, nonché altri fondi acquisiti successivamente. Compiti che rendono di fatto l’Apsa la vera banca centrale del Vaticano, e che la riforma in atto intende semmai rafforzare, come ha spiegato in marzo il cardinal Marx, il cui obiettivo è fare in modo che «d’ora in poi lo Ior non danneggi più la reputazione della Santa Sede».
Ma anche l’Apsa in passato ha dato il suo valido contributo alla non brillante immagine delle finanze vaticane. Basta pensare a monsignor Nunzio Scarano, un passato remoto di funzionario di banca (prima di prendere i voti), poi un passato prossimo di capo contabile all’Apsa, e infine un presente di imputato per riciclaggio e falso in atto pubblico. Nel gennaio del 2013 la procura di Salerno lo ha messo agli arresti domiciliari insieme a un altro sacerdote. Nel mirino dei pm sono finite finte donazioni per case di cura e per anziani del valore di circa 6 milioni di euro, provenienti da società offshore e transitate sui conti di Scarano presso l’agenzia Unicredit di Via della Conciliazione e presso lo Ior.
Per tenere tutto sotto controllo, Pell, che in un primo tempo s’era insediato nel Torrione di San Giovanni, all’estremità occidentale della Città Leonina, nelle scorse settimane si è spostato nella Torre di Niccolò V, che presidia i limiti orientali della Città-Stato ed è la storica sede dello Ior, prendendo possesso di quello che fino a qualche mese fa era l’ufficio del presidente. Con Pell si è spostato anche Danny Casey, project management officer della nuova organizzazione, dopo essere stato l’amministratore della diocesi di Sidney e organizzatore delle Giornate mondiali della Gioventù del 2008.
Al fianco di Pell c’è il Segretario della nuova organizzazione, ossia il numero due, Alfred Xuereb, un sacerdote di 56 anni che gira per Roma in bicicletta. Il religioso, che ha il grado di Presbitero ed è anche membro dell’Ordine di Malta, è stato secondo segretario di Benedetto XVI per poi diventare il principale collaboratore di Francesco, che poi lo ha indicato alla Segreteria per l’Economia. Xuereb è maltese, come anche Zahra, che dopo essere stato direttore della banca centrale di Malta è ora vice coordinatore del Consiglio per l’Economia, organo in cui siede anche l’italiano Vermiglio, docente di economia aziendale a Messina, nella stessa università dove ha insegnato pure Zahra. Vermiglio ha fatto parte anche del board di Bank of Valletta, di cui Zahra è stato presidente, ma soprattutto, come ha raccontato un’inchiesta dell’Espresso, i due avevano costituito la Misco Advisory, una jv tra lo studio legale di Vermiglio e la Misco Malta, società di consulenza finanziaria fondata da Zahra. Manager della controllata Misco Directors Network era invece il francese de Franssu, anche lui, come gli altri due, membro laico del Consiglio per l’Economia e da luglio nuovo presidente dello Ior. Una rete di connessione che ha subito fatto gridare alla lobby maltese che si sarebbe impossessata della finanza vaticana, estromettendo dalla prima poltrona della banca del Papa Ernst von Freyberg, nobile discendente della famiglia sveva Freyberg-Eisenberg che aveva preso il posto di Ettore Gotti Tedeschi, dopo la discussa defenestrazione voluta dall’ex segretario di Stato Bertone. In realtà anche von Freyberg fa parte dei Cavalieri di Malta e la situazione sembra più complessa.
È innegabile che da tempo il partito italiano sia in difficoltà nel Palazzo Apostolico. Dall’Aif, l’Autorità di informazione e vigilanza costituita con motu proprio da Benedetto XVI nel 2010 per mettere in regola lo Stato Vaticano rispetto alle regole internazionali in materia di riciclaggio, sono usciti in anticipo rispetto alla scadenza naturale i cinque membri del direttivo in carica dal 2011. Erano tutti italiani: Claudio Bianchi, Marcello Condemi, Giuseppe Dalla Torre, Francesco De Pasquale e Cesare Testa. Gli ultimi due erano stati gli autori della riforma del 2010, modificata nel 2012 e poi ancora nel 2013, questa volta sotto Papa Francesco. Tutti e cinque, però, il 16 gennaio 2014 avevano scritto una lettera al Segretario di Stato Parolin, per lamentare «l’opacità informativa» dell’Aif sotto la gestione del direttore René Brulhart. Un messaggio, pubblicato dal Messaggero, che aveva fatto molto rumore, spingendo l’allora presidente dell’Aif, il cardinale Attilio Nicora, a un duro confronto con Parolin, conclusosi con le dimissioni di Nicora.
Nel nuovo direttivo, nominato in giugno, l’unica italiana è Maria Bianca Farina, amministratore delegato di Poste Vita e di Poste Assicura. Gli altri componenti sono Marc Odendall, amministratore di fondazioni e consulente finanziario (Svizzera), Joseph Yuvaraj Pillay, presidente del Consiglio dei consultori del Presidente della repubblica di Singapore; Juan Zarate senior advisor presso il Centro per studi strategici e internazionali (Csis) e docente di giurisprudenza ad Harvard (Stati Uniti) considerato un grande esperto di lotta al riciclaggio internazionale. Come vicedirettore, indicazione che spetta di diritto al Segretario di Stato, Parolin, ha indicato ad interim Tommaso Di Ruzza, che è già funzionario dell’Aif. Una composizione che è stata considerata una vittoria di Brulhart che peraltro, dopo una presidenza retta ad interim dal vescovo Giorgio Corbelli, è stato di recente nominato presidente dell’Aif, raggiungendo il risultato di essere il primo laico e anche il primo non italiano a ricoprire l’incarico. Originario di Friburgo, in Svizzera, 42 anni, Brulhart è stato per otto anni Direttore della Financial Intelligence Unit (Fiu) del Liechtenstein ed è considerato anche lui un vero esperto nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, tanto che la sua scelta come consulente fu spiegata nel 2012 da padre Federico Lombardi, portavoce del Papa, come il segnale forte per rispondere alle raccomandazioni di Moneyval. «La Santa Sede», disse Padre Lombardi, «ha deciso di avvalersi della collaborazione sistematica di un esperto internazionale nelle attività della lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo».
Lo svizzero Bruhart e l’ispano-americano Zarate, che ha lavorato nello staff del presidente George W. Bush nella lotta al terrorismo finanziario, scovando investimenti di Saddam Hussein per milioni in mezzo mondo, sono entrambi parte di questa componente anglofona, per non definirla cordata, che pesa sempre di più e si sviluppa intorno a Pell e la cui forza si è vista durante la partita per lo Ior.
Il Papa all’inizio aveva pensato di chiudere la banca, così screditata, ma poi è prevalsa l’idea di bonificarla internamente e ridimensionarla a poco più di un semplice sportello interno. Nel frattempo, come al solito, intorno allo Ior è ripartita un’altra delle solite partite di potere. E come sempre dossier giornalistici e indagini giudiziarie hanno scandito le fasi dello scontro.
Non è una novità. Il regno di Marcinkus si chiuse nel 1989 ben oltre il crack Ambrosiano, l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il finto suicidio di Roberto Calvi e l’avvelenamento di Michele Sindona. A essi seguirono poi i vent’anni di gestione di Angelo Caloia, il principe della finanza cattolica che doveva far dimenticare ogni scandalo. Le vicende che hanno recentemente colpito il finanziere gettano però una luce ben diversa su quell’esperienza. Su Caloia, infatti, è finito qualche schizzo, penalmente irrilevante, dell’inchiesta Expo 2015, ma soprattutto, con inusuale procedura di trasparenza, agli inizi di dicembre il Vaticano ha comunicato che il Promotore di Giustizia, Gian Piero Milano, ha messo sotto inchiesta Caloia e l’ex direttore generale dello Ior, Lelio Scaletti, per peculato riguardo alcune operazioni immobiliari avvenute tra il 2001 e il 2008. Sotto la lente è finita la cessione di 29 immobili dello Ior a Roma e a Milano (praticamente l’intero patrimonio immobiliare della banca) e sono stati messi sotto sequestro i conti personali che Caloia e Scaletti hanno mantenuto nello Ior e su cui sono stati trovati 16 milioni di euro (l’ex presidente si è detto vittima di operazioni non promosse da lui, ideate da altri, e che da lui sarebbero state solo avallate nel suo ruolo al vertice della banca).
Indagini a parte, Caloia aveva perso il suo incarico anche per effetto della pubblicazione del libro Vaticano Spa, scritto da Gianluigi Nuzzi sulla base dell’archivio segreto di uno scomparso monsignore di Curia, Edoardo Dardozzi, che dimostrò come anche nei vent’anni della sua presidenza avesse operato uno Ior parallelo, con un traffico continuo di denaro sporco, documenti cifrati, tangenti e rame, tante trame. Nel 2009 Benedetto XVI (alla fine anche lui travolto dalla pubblicazione di carte segrete trafugate dal suo stesso appartamento e recapitate a Nuzzi) decise quindi di fare tabula rasa nominando presidente della banca Gotti Tedeschi, indicatogli dal segretario di Stato Bertone.
Gotti Tedeschi, all’epoca numero uno di Banco Santander in Italia, si stava già occupando della gestione del Governatorato, in rosso per 15 milioni di euro e aveva contribuito anche alla stesura dell’enciclica Caritas in veritate. Un anno dopo, però, i rapporti tra Gotti Tedeschi e Bertone erano già diventati freddissimi. Tutta l’esperienza allo Ior si è dimostrata un Vietnam per il banchiere, che è stato pure l’ispiratore della legge antiriciclaggio del 2010, quella che doveva far rientrare il Vaticano all’interno delle regole internazionali anti evasione e riciclaggio. Norme in seguito annacquate, mentre sempre nel 2010 è esploso un nuovo scandalo, con il sequestro presso la Cassa di Credito Artigiano (ora Credito Valtellinese ) di 23 milioni dello Ior per violazione della normativa antiriciclaggio, primo step di una serie di misure che ha portato successivamente al blocco di 130 milioni di euro e a un pressing durissimo della Banca d’Italia sull’istituto vaticano, solo ora in via di superamento. Ebbene, proprio da quel sequestro è partita la vicenda che ha portato nel 2012 al defenestramento di Gotti Tedeschi, con una procedura umiliante.
L’intero board, su input di Bertone, ha sfiduciato il banchiere sulla base di nove accuse, la prima delle quali era la sua «incapacità di portare avanti i doveri di base del presidente», ma pesava pure la «mancanza di prudenza e precisione nei confronti della politica dell’istituto», l’incapacità «di fornire spiegazioni sulla diffusione dei documenti in possesso del presidente» e la diffusione «di notizie imprecise sull’istituto». Quest’anno, però, i magistrati che hanno condotto l’inchiesta causata dal primo blocco dei 23 milioni (solo ora rientrati nella disponibilità dello Ior), hanno archiviato la posizione di Gotti Tedeschi, considerandolo del tutto estraneo all’operazione, eseguita dall’allora direttore dello Ior, Paolo Cipriani e dal suo vice Massimo Tulli, al di fuori e contro le policy introdotte dal presidente. Non solo: nel dispositivo di archiviazione i magistrati hanno sottolineato pure il «carattere tutt’altro che episodico» dell’operazione eseguita da Cipriani e Tulli, che sarebbe «solo un esempio di ben più ampia realtà».
Cipriani e Tulli sono rimasti i deus ex machina dello Ior, con il beneplacito di Bertone, pure sotto la gestione di von Freyberg, voluto dall’ex segretario di Stato durante le ultime settimane del pontificato di Benedetto XVI. Per la verità, pochi mesi dopo l’elezione al Soglio di Pietro, Francesco aveva proceduto a inviare allo Ior un suo uomo di fiducia, nominando come prelato, figura chiave nella banca, una sorte di rappresentante permanente dell’azionista, monsignor Battista Ricca, che però venne immediatamente impiombato dalla diffusione di imbarazzanti dossier su vicende del passato a sfondo omosessuale. Solo un anno e mezzo fa, dopo ulteriori bordate di fango arrivate sulla Torre dello Ior e su esplicita sollecitazione di Bergoglio, Cipriani e Tulli hanno dato le dimissioni «nell’interesse dell’istituto e della stessa Santa Sede». Bertone, del resto, era ormai in disgrazia e stava per perdere l’incarico, mentre Francesco aveva già avviato la sua riforma. La palla è passata in mano a Pell, che ha completato in luglio la rivoluzione, sostituendo anche von Freyberg con De Franssu, mentre come direttore generale Ior è stato scelto Rolando Marranci, una carriera passata in Bnl (dove è stato anche cfo della filiale di Londra e responsabile dell’Ufficio Controlli Contabili per la direzione generale e le filiali italiane). Marranci, per la verità, stava già revisionando i conti dello Ior per incarico di Promontory, l’advisor scelto dal Vaticano, un colosso americano del ramo che sta rivoltando come un calzino la contabilità e l’organizzazione attraverso uno staff di professionisti insediati a tempo pieno per il non modico costo di 8,3 milioni all’anno (spesa per il 2013).
Risultato: dopo lo screening approfondito sui 18.900 conti correnti, quelli non in linea (3.300) sono stati chiusi, mentre oltre 2 mila sono stati sospesi, in attesa dei dati richiesti. Le sofferenze, poi, sono state stralciate (tra queste i 15 milioni a fondo perduto concessi alla Lux Vide di Ettore Bernabei e il prestito infruttifero da 12 milioni alla diocesi di Terni). I numeri finali ne hanno ovviamente risentito e, complice anche il crollo del prezzo dell’oro, gli utili sono scesi dagli 86 milioni del 2012 a soli 2,9 milioni, il che ha permesso comunque di staccare un dividendo all’azionista unico, ossia il Papa, di 54 milioni. Ma anche in futuro i numeri sono destinati a rimanere contenuti, visto che lo Ior diventerà una banca retail per i conti dei cittadini del Vaticano e dei dipendenti. Le operazioni finanziarie saranno gestite dall’Apsa e dalla nuova sgr, la Vam, Vatican Asset Management, che partirà sotto la gestione Ior per diventare poi indipendente.
Anche il Consiglio di sovrintendenza è stato totalmente rinnovato. A casa quelli che avevano liquidato Gotti Tedeschi e sostenuto i manager interni (erano l’americano Carl Albert Anderson, il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, lo spagnolo Manuel Soto Serrano e l’italiano Antonio Maria Marocco), è entrata in campo una squadra espressione dei nuovi equilibri. Oltre a De Franssu e a monsignor Xuereb, in qualità di segretario non votante, sono entrati Clemens Boersig (Germania), Mary Ann Glendon (Usa) e Sir Michael Hintze (Regno Unito), ai quali si sono aggiunti in un secondo tempo il cileno Mauricio Larrain e l’italiano Carlo Salvatori. Quest’ultimo ha un’esperienza al vertice dei massimi istituti di credito come nessun altro. Dal 2010 è presidente della banca d’investimento Lazard Italia e di Allianz Italia, dopo essere stato presidente di Unipol e Unicredit , vicepresidente di Mediobanca e amministratore delegato di Banca Intesa , frutto della fusione tra Cariplo e Banco Ambrosiano Veneto, e prima ancora direttore centrale di Bnl. Un italiano solo, insomma, ma di peso massimo. Così nella torre di Niccolo V sembra cambiato proprio tutto. Se è solo un’impressione lo si capirà presto. Perché alla fine tutto devo ripassare per Francesco, e per lui «San Pietro non aveva il conto in banca».
Antonio Satta, MilanoFinanza 3/1/2015