Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 04 Domenica calendario

Era stato ottimista, Francesco De Gregori, col suo indimenticabile «Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore

Era stato ottimista, Francesco De Gregori, col suo indimenticabile «Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore...». Arrivati sul dischetto, infatti, può succedere davvero che le gambe comincino a tremare. Ma il business, un certo spirito e il progressivo imbrocchimento dei talenti nostrani hanno ora portato il calcio italiano sul fondo di una classifica che glorificherebbe Nino che tira il rigore e che dice molto - anzi, moltissimo - a proposito di paura e di coraggio. Stando ai dati ufficiali delle diverse Federazioni, tra i cinque maggiori campionati europei (Spagna, Inghilterra, Germania, Francia e Italia) il nostro è quello nel quale si dribbla di meno. Cioè, più raramente che altrove si punta l’avversario, lo si disorienta con una finta e lo si supera con successo. Il dribbling, nel calcio, è quel che è lo smash nel tennis, il tiro da tre punti nel basket o la schiacciata «veloce» nella pallavolo: sublimazione e spettacolarizzazione di quegli sport. Ma sono colpi che richiedono - perché difficili da eseguire - tanto e tanto coraggio: i calciatori italiani non ne hanno più. E infatti, in cima alle classifiche individuali dell’«arte del dribbling» figurano campioni di estro e di coraggio, come Hazard (Chelsea) e Messi (Barcellona). Dei nostrani scarsa o nulla traccia. Poco male: con tutti i guai che il Paese ha, chi se ne frega dei dribbling? Errore. E non solo perché il calcio spesso è (espressione logora) una metafora della vita, ma perché con un po’ più fiducia in se stessa e con più coraggio forse anche l’Italia oggi sarebbe messa un po’ meglio di come sta. Se la nostra politica, qualche volta, prendesse di petto un problema, come Messi affronta e dribbla il suo avversario; se invece di ricominciare l’azione puntualmente da capo una riforma ogni tanto la si facesse (metti: quella del Senato, di cui si parla da 30 anni); e se infine il Paese giocasse con coraggio una partita d’attacco invece di aspettare l’infortunio o le difficoltà degli altri (ieri la Spagna, oggi di nuovo la Grecia) non è detto che saremmo al punto in cui siamo. Oppure ci staremmo lo stesso, forse: ma almeno senza il rimpianto di non averci nemmeno provato. Il calcio metafora della vita (gli affari, la violenza, il razzismo...) e qualche volta perfino della politica. Non è vero? Magari no, ma è verosimile. Entrambi gli spettacoli non piacciono più: i cittadini-elettori diminuiscono da anni, così come da anni calano gli spettatori negli stadi. E a nulla serve importare giocatori stranieri o formule prese in prestito dall’estero. Non funziona: e sempre per quella nostra dannata mancanza di coraggio. Esempio. Il Barcellona di Messi vince tutto con il tiki taka (tanti passaggi di fila, fino al dribbling improvviso e vincente)? Bene, il calcio italiano lo adotta, lo copia ma lo trasforma in una melassa fatta di passaggi laterali, timorosi e lenti: una noia. Oppure: in Europa i Paesi scelgono la via delle spending review per far quadrare i conti? L’Italia li imita, impiega mesi a litigare e definire i tagli da fare e poi lascia i progetti nel cassetto, perché ci vuol coraggio - giustamente - a limare sprechi, accorpare piccoli Comuni e minuscoli tribunali, a cancellare rendite di posizione e privilegi. L’estate scorsa, candidandosi alla presidenza della Federcalcio contro Carlo Tavecchio (quello dei calciatori neri che mangiano banane...) Demetrio Albertini - che ha giocato nel Milan di Gullit e Van Basten: gente che altroché se aveva il coraggio di dribblare - disse che al calcio italiano serviva un Renzi, e che quello era il suo programma: innovare e cambiare. Coraggiosamente. Non fu eletto, ovviamente, confermando il sospetto che il calcio sia il tempio della conservazione (e della noia, qui da noi) più ancora della politica. Renzi, infatti, almeno è riuscito a provarci: Albertini nemmeno quello. Il tutto - paura e coraggio, politica e calcio - mertita un’ultima avvertenza. Matteo Renzi è un intrepido, solo gioco d’attacco, polemiche dirette, pochi tatticismi e nessuna attenzione alla difesa. E’ lodato per questo. Considerato una novità. E raccoglie e rilancia ottimismo e speranze. Nel calcio c’è un signore che, per animus e filosofia, gli somiglia tanto. Si chiama Zdenek Zeman: e non finisce quasi mai il campionato sulla panchina con la quale lo aveva iniziato, visto che di solito lo cacciano. Perché va bene il coraggio - questo sembra l’italico motto - a condizione che sia quello scriteriato e un po’ incosciente dell’avversario, cioè dell’altro...