Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/1/2015, 3 gennaio 2015
Addio a Cuomo, “l’italiano” che non poteva essere Presidente L’ex governatore di New York è stato la stella democratica per decenni Ma non ha mai corso per la Casa Bianca: colpa del suo nome, Mario Paolo Mastrolilli Noi italiani lo ricorderemo sempre perché è stato il primo dei nostri a farci sognare la Casa Bianca, dall’ingresso principale
Addio a Cuomo, “l’italiano” che non poteva essere Presidente L’ex governatore di New York è stato la stella democratica per decenni Ma non ha mai corso per la Casa Bianca: colpa del suo nome, Mario Paolo Mastrolilli Noi italiani lo ricorderemo sempre perché è stato il primo dei nostri a farci sognare la Casa Bianca, dall’ingresso principale. Ma per gli americani Mario Cuomo, l’Amleto dell’Hudson che per spiegare la sua visione citava il teologo Teilhard de Chardin, è l’ultimo simbolo di una politica che forse non esiste più. Una vocazione non ispirata dall’ambizione o dalla convenienza, ma da cosa ogni uomo poteva fare per migliorare la vita dei suoi simili. Lo aveva ripetuto durante l’ultima intervista che gli avevo fatto, poco più di un anno fa, per ricordare l’assassinio di John Kennedy e cosa aveva significato per la sua vita: «Credere che lo Stato può cambiare le cose per il meglio, e può farlo per il bene degli emarginati, gli esclusi, e le minoranze vittime del pregiudizio razziale». Passaggio di testimone Cuomo è morto il primo gennaio, per cause naturali legate ai suoi problemi al cuore. Poche ore prima il figlio Andrew, chiamato con lo stesso nome del nonno, aveva giurato per la seconda volta come governatore di New York. Una rivincita che Mario aveva assaporato con gusto, ma senza spirito di vendetta, dopo la sua sconfitta nelle elezioni per la stessa carica nel 1994. La famiglia Cuomo ormai sta a New York come le famiglie Adams e Bush stanno a Washington, anche se proprio la mancata corsa alla Casa Bianca resta forse il rimpianto più grande del patriarca dell’America liberal. L’infanzia nel Queens Mario era nato 82 anni fa da Andrea e Immacolata, immigrati senza un soldo da Salerno. Lui, cresciuto al Queens nel negozietto di famiglia, non aveva mai rinnegato questa sua origine. Appena poteva cercava di parlare italiano, ed era curioso sentire come in inglese fosse uno degli oratori più raffinati degli Stati Uniti, mentre nella lingua dei suoi genitori usasse invece le espressioni del dialetto campano che aveva imparato da loro a casa. Era destinato a fare il campione di baseball, Mario, e da giovane gli avevano offerto un contratto da professionista: il nuovo Joe DiMaggio, magari. Però una palla presa in testa aveva chiuso la sua carriera, togliendolo allo sport e regalandolo alla politica. Era tornato a studiare alla St. John’s University, dove si era innamorato di una compagna di classe di origini siciliane, l’elegante Matilda Raffa. Era diventato avvocato, si erano sposati, e da buona famiglia italiana di altri tempi avevano messo al mondo 5 figli. Le «due città» Lui però era destinato alla politica, e dopo un fallito tentativo di diventare sindaco di New York, nel 1982 era stato eletto governatore. Due anni dopo, durante la Convention democratica di San Francisco, aveva sfidato il presidente Reagan, dicendogli che l’America non era proprio quel «villaggio splendente in cima alla collina» di cui lui parlava: «Piuttosto è un “racconto di due città”, dove alcuni prosperano, e molti faticano a tirare avanti». Quella sera era nata una stella, che aveva oscurato il candidato ufficiale Mondale. Mario però aveva rinunciato a correre prima nel 1988, lasciando il posto a Dukakis, e poi nel 1992, quando era nata la dinastia dei Clinton. In questa occasione, la più grande, un aereo lo attese sulla pista di Albany fino all’ultimo momento per portarlo ad iscriversi alle primarie, ma lui decise di non salirci. Mario ha spiegato la decisione di non candidarsi col fatto che non aveva potuto passare la «finanziaria» dello Stato di New York, a causa dell’ostruzionismo dei repubblicani: un liberal che voleva investire per costruire una nuova America non poteva bussare alla porta della Casa Bianca con un bilancio in deficit, fatto di tagli alle spese e aumenti delle tasse. Altri però mormorano che la vera ragione sia stata la paura dei fantasmi nel passato della famiglia siciliana della moglie, che potevano riemergere deragliando la sua campagna con i vecchi pregiudizi contro gli italiani. «Il tuo nome è Mario, Mario, Mario», gli aveva ripetuto il vice presidente repubblicano Quayle. Principi fermi Quello era stato insieme lo zenith e il nadir della carriera di Cuomo. Due anni dopo, infatti, era stato sconfitto da George Pataki, al quarto tentativo di essere confermato governatore. A batterlo non era stato tanto il suo avversario, quanto la crisi economica e la fermezza dei suoi principi. Mario era contrario alla pena di morte, e ogni anno metteva il veto preventivo al suo ritorno nello Stato. La criminalità però era salita in città, e Pataki l’aveva sfruttata per attaccare il governatore che non voleva riaccendere la sedia elettrica a Sing Sing. La sconfitta aveva amareggiato Mario, che aveva chiesto a Clinton di nominarlo giudice della Corte Suprema, ma poi aveva ritirato la sua candidatura. Era tornato a fare l’avvocato, a coltivare la rivincita del figlio Andrew, e ad osservare l’America come nessuno sa più fare.