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 2015  gennaio 03 Sabato calendario

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gennaio 2015
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LE SCELTE DEI PARTITI
Nessuno li nomina, ma tutti li temono. Chi non obbedisce alle indicazioni dei partiti spesso disarciona chi tenta la salita al Quirinale. E poi scompare senza lasciare traccia. Einaudi fu favorito nel ’48 proprio dai peones insofferenti
SEBASTIANO MESSINA
Dai 101 di Prodi a Fanfani la cavalleria dei franchi tiratori incubo dei candidati al Colle
Prodi, almeno, conosceva il rischio al quale andava incontro. Carlo Sforza, invece, proprio non se l’aspettava. La Repubblica è appena nata e a lui, l’ex mi- nistro degli Esteri repubblicano che ha firmato il trattato di pace con gli Alleati, De Gasperi ha promesso il Quirinale. Sulla carta avrebbe i numeri per mantenere la promessa. Ma alla sinistra dc — Fanfani, Dossetti e La Pira — quel laico mangiapreti con la fama di dongiovanni proprio non va giù, e la mattina del 10 maggio 1948 dalle urne escono solo 353 voti con il nome di Sforza, 98 in meno di quelli che serviranno dal quarto scrutinio.
De Gasperi insiste, ma guadagna solo 9 voti, così manda il sottosegretario Andreotti, il segretario del partito Piccioni e il capogruppo Cingolani a spiegare a Sforza che la battaglia finisce lì. «Come non detto, senza rancore » dice lo sconfitto con un sorriso tirato, ma Andreotti fa in tempo a scorgere sulla sua scrivania il discorso che Sforza aveva già scritto per il giuramento: «Onorevoli colleghi, desidero innanzitutto ringraziarvi...».
La volta successiva, fiutata l’aria, lo stesso Andreotti cerca di mettere le mani avanti e prova a convincere Cesare Merzagora che non gli basterà l’appoggio del segretario Fanfani. Merzagora però ignora l’avvertimento. Ed entra nella trappola invisibile dei franchi tiratori. Se ne accorge solo alle 12,30 del 28 aprile 1955, quando scopre che mancano all’appello 160 voti dei parlamentari della Dc, proprio quelli che avrebbero dovuto sostenerlo per primi. Sfidando gli ordini della segreteria, i ribelli democristiani si sono accordati con l’opposizione. In favore di Giovanni Gronchi, che viene eletto alla quarta votazione con 658 voti: Merzagora si era fermato a 245. «Mi sono fatto giocare come un bambino a moscacieca » commenterà lo sconfitto.
Ma chi sono i franchi tiratori? Dissidenti in libera uscita? Peones insofferenti verso le gerarchie di partito? Non sempre. Anzi, spesso sono stati proprio i leader a manovrarli come uno squadrone di cavalleria su un campo di battaglia. Fanfani, Dossetti, La Pira, Andreotti, Donat Cattin, Piccoli, De Mita, Forlani: non c’è un solo capocorrente democristiano che prima o dopo non abbia organizzato, sollecitato o addirittura ordinato un’incursione dei franchi tiratori.
Persino Aldo Moro, quando nel 1964 decide di fermare la candidatura di Giovanni Leone, ricorre a quest’arma inconfessabile. Convoca nel suo ufficio Carlo Donat-Cattin, leader di Forze Nuove, e gli dice chiaro e tondo: «Leone non deve passare». Sono d’accordo, risponde l’altro, ma come facciamo? «Per quanto mi riguarda io faccio il presidente del Consiglio. Quanto a voi, esistono dei mezzi tecnici». Mentre scendono le scale di Palazzo Chigi, i colonnelli di Donat-Cattin gli domandano, perplessi: «Di quali mezzi tecnici parlava?». «I mezzi tecnici — risponde lui — sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori».
Leone resisterà per 15 scrutini, ma alla fine dovrà ritirarsi. «Per me — racconterà poi — quelle votazioni furono un vero e proprio supplizio cinese. Era come se un burattinaio invisibile organizzasse la ballata delle schede bianche per disorientare il Parlamento».
L’uomo che più di ogni altro è finito nel mirino dei cecchini è Amintore Fanfani, che per tre volte ha cominciato la corsa e per tre volte s’è dovuto ritirare. Lui che aveva organizzato i franchi tiratori contro Sforza e contro Leone, entra nella trappola la mattina del 9 dicembre 1971. Il fatto di aver disarmato i suoi cecchini contro Segni gli lascia sperare di poter contare sull’appoggio compatto dei dorotei, quando scende in pista per la successione a Saragat. Ma si sbaglia. Gli mancano 36 voti al primo scrutinio e altri 16 al secondo, sufficienti per fargli capire quello che un impertinente grande elettore scrive sulla scheda imbucata nell’urna (annullata subito dal presidente della Camera Pertini ma letta lo stesso da Fanfani, che gli sta accanto come presidente del Senato): «Nano maledetto/ non sarai mai eletto».
Si possono neutralizzare, i franchi tiratori? I democristiani ci hanno provato spesso. L’ultima volta nel 1992, per difendere la candidatura di Arnaldo Forlani. La mattina del 16 maggio 1992 ognuno dei parlamentari dc sospettati di cecchinaggio riceve precise istruzioni, perché il suo voto sia riconoscibile. Vengono utilizzate le infinite combinazioni ottenibili scrivendo con penna blu, verde, nera o rossa tutte le formule ammesse, ovvero «Arnaldo Forlani», «Forlani», «on. Arnaldo Forlani», «on. Forlani », «Forlani Arnaldo», «Forlani on. Arnaldo», «on. Forlani Arnaldo » e «Arnaldo on. Forlani». Ma non basta. Al candidato mancheranno 39 voti, e anche lui dovrà arrendersi ai franchi tiratori.
L’unico che sia riuscito indenne dalla trappola dei cecchini è Antonio Segni, uno dei rari candidati che ce l’hanno fatta — come è successo anche a Giorgio Napolitano — con i soli voti della maggioranza di governo. Si comincia il 2 maggio 1962, e si capisce subito che la strada sarà in salita: servono 428 voti, Segni ne ottiene solo 333. I franchi tiratori votano per Gronchi e per Piccioni. Per aiutare il candidato sardo, entra allora in azione quella che viene battezzata “la Brigata Sassari” (Piccoli, Sarti e Cossiga), che s’inventa un metodo per neutralizzare i cecchini: chiedere ai parlamentari di mostrare la scheda, con il nome già scritto, prima di imbucarla nell’urna. Però, dal momento che le schede vengono consegnate all’ingresso dell’aula, basta uscire e rientrare per averne un’altra scheda. Così i più furbi mostrano la prima scheda con il nome di Segni e poi imbucano l’altra che tenevano in tasca. Per impedirglielo, qualcuno ha l’idea di distribuire schede con il nome di Segni già scritto, ma quando un segretario d’aula consegna una di queste schede “pre-votate” al senatore Antonio Azara, l’opposizione se ne accorge e scoppia un tumulto. Che non basterà a impedire, la sera del 6 maggio, la vittoria della «Brigata Sassari». E’ la prima volta che i franchi tiratori escono sconfitti. Anche l’ultima, fino a oggi.
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NESSUNO li nomina, qualcuno li aspetta, tutti li temono. I franchi tiratori sono la cavalleria invisibile che disarciona con un solo colpo chi osa avventurarsi nella salita del Quirinale senza essersi assicurato la fedeltà delle truppe. E mentre il quasi-presidente, colpito e affondato, riflette sul destino cinico e baro, loro scompaiono senza lasciare traccia.
Chi erano, per esempio, e che volti avevano, quei 101 cecchini che due anni fa, la sera di venerdì 19 aprile, impedirono a Romano Prodi di diventare capo dello Stato? E come si chiamavano, da chi erano comandati, quei 224 franchi tiratori che il giorno prima avevano sbarrato a Franco Marini la strada che porta al Quirinale? I sospetti abbondano, le certezze mancano. Sul campo resta solo qualche indizio, del tutto inutile per evitare un’altra imboscata al giro successivo. Ecco perché oggi, quando manca meno di un mese alla prima votazione del Grandi Elettori, le grandi manovre puntano innanzitutto a evitare questa trappola.
Il ricordo di quell’aprile di due anni fa brucia ancora, soprattutto nella memoria dei suoi protagonisti. E magari Pierluigi Bersani si starà ancora rimproverando di aver sottovalutato l’ammutinamento del Capranica. E’ la sera del 17 aprile, quando una tumultuosa assemblea dei parlamentari del centrosinistra accoglie le sue parole («Quella di Marini è la candidatura più in grado di realizzare le maggiori convergenze...») con una valanga di dissensi. «Non voterò mai per uno di quelli che hanno affossato l’Ulivo» annuncia la prodiana Sandra Zampa. «E’ un nome che divide» avverte Matteo Orfini a nome dei «giovani turchi», mentre Vendola e i suoi abbandonano polemicamente la sala e arriva l’eco della stroncatura appena pronunciata da Matteo Renzi davanti alle telecamere di Daria Bignardi: «Votare Marini significa fare un dispetto al Paese».
Forse, la vigilia del 18 aprile una data che alla sinistra non ha mai portato bene - se Bersani riflettesse bene sul risultato della votazione segreta (solo 222 sì su 496) il segretario del Pd potrebbe ancora evitare il massacro del giorno dopo. Ma il segretario del Pd decide di andare avanti, contando sui voti di Berlusconi: è un disastro, persino la sua portavoce Alessandra Moretti (appena eletta deputata) gli volta le spalle. E Marini, che sulla carta può contare su oltre 700 preferenze, si ferma a quota 521, uscendo di scena per la più massiccia emorragia di voti nella storia delle elezioni presidenziali. «Qualcuno ha preparato tutto...» commenta sconsolato in Transatlantico il suo fedelissimo, Beppe Fioroni.
Romano Prodi, al quale il giorno dopo tocca la stessa beffarda sorte, racconterà poi di aver previsto tutto. Lui, dal Mali, ha cercato di mettere le mani avanti. Aveva chiesto che i Grandi Elettori votassero a scrutinio segreto, come si faceva nella Dc, ma la sua richiesta è stata aggirata con un’ovazione che deve suonare come una designazione plebiscitaria. Il professore, comunque, ha accettato. Poi arriva quella telefonata. «Mi chiama D’Alema e mi dice: va benissimo il tuo nome, tuttavia decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti. Allora ho capito tutto. Ho chiamato mia moglie e le ho detto: Flavia, vai pure alla tua riunione perché presidente non divento di sicuro...». Quando si aprono le urne, ai voti del centrosinistra mancano 101 schede. Il professore si arrende ma è furibondo. E chiede, in democristianese, le dimissioni di Bersani: «Chi mi ha portato a questa decisione ora deve farsi carico delle sue responsabilità». Le ottiene, ma per lui la partita è finita.