Giovanni Stringa, Corriere della Sera 3/1/2015, 3 gennaio 2015
MILANO
In pochi lo ricordano, ma neanche sei anni fa il petrolio costava molto meno di oggi. Erano 34 dollari al barile nella primavera del 2009, oggi sono poco più di 50, con le quotazioni ora tornate su valori che non si vedevano — appunto — da quasi sei anni. Nel 2009 il crollo dei prezzi del greggio era una risposta del mercato all’improvvisa crisi scoppiata dopo il crac di Lehman Brothers nel settembre 2008. Oggi, rovesciando un po’ le carte, la «depressione dell’oro nero» viene vista come una sorta di volano per la ripresa, soprattutto per chi ne ha più bisogno: l’Eurozona, il Mediterraneo e, stringendo il cerchio, l’Italia.
In effetti, il 2009 segnò anche l’inizio dei primi segnali di ripresa, tanto per l’economia mondiale quanto per l’Italia. Ma il rimbalzo, sulle rive del Mediterraneo, durò poco. E non solo perché i prezzi del greggio tornarono a salire, fin sopra i 120 dollari già nel 2011. Ma anche perché, in quello stesso anno, la tempesta sul debito dell’Europa meridionale contribuì non poco a portare la regione in una nuova lunga recessione.
E oggi? L’impatto positivo del petrolio meno caro è prevedibile, come sei anni fa. Ma, come allora, bisogna vedere quanto durerà. Anche perché a tutti i vantaggi del calo del greggio — meno costi, più consumi, più occupazione — si accompagnano degli inevitabili rischi. Che non sono pochi.
Innanzitutto c’è l’effetto di un altro calo auspicato da più parti, quello dell’euro sul dollaro: il cambio è sceso fino a 1,20. Due movimenti «positivi» per l’economia — petrolio meno caro ed euro meno forte — rischiano in parte di annullarsi: le quotazioni del greggio scendono ma sono in dollari, moneta che invece si rafforza. Così il crollo del 50% circa dei prezzi (in puri dollari) deve fare in conti con la conversione in euro. Che certo non annulla, ma comunque annacqua la spinta ribassista della materia prima.
Sono però i Paesi produttori di greggio, naturalmente, i primi a essere colpiti dal dimezzamento delle quotazioni. La Borsa di Mosca, per esempio, nel 2014 ha lasciato sul terreno il 45%. Ieri, con il listino russo chiuso, il petrolio è sceso fino a 52,03 dollari (l’indice americano Wti) e a 55,48 dollari al barile (il riferimento internazionale Brent) durante le contrattazioni. E nel Golfo Persico? L’Arabia Saudita, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, ha bisogno quest’anno di un prezzo del petrolio a 106 dollari per garantire il pareggio del bilancio statale. Tuttavia Riad non ha voluto tagliare la produzione per spingere le quotazioni. Evidentemente, il regno saudita ha fatto i suoi calcoli. Dopotutto, il Paese ha le spalle più forti di altri concorrenti della regione per reggere alla tempesta. E prezzi bassi aiutano a rilanciare una domanda di oro nero che è la più bassa degli ultimi sei anni.
Tornando in Italia, minori ricavi oggi per i Paesi produttori significano anche una domanda più contenuta di prodotti occidentali, quindi meno export per noi, che sulle esportazioni facciamo un discreto affidamento. E le ripercussioni dirette coinvolgono anche gli Stati Uniti, grande produttore e consumatore allo stesso tempo. Nelle praterie americane le estrazioni di «petrolio non convenzionale» (per esempio con il contestato metodo del fracking) hanno garantito una forte spinta occupazionale, ma sono ora meno redditizie. E l’ambiente? Fracking a parte, un greggio meno caro potrebbe distogliere l’attenzione dalle cosiddette fonti alternative, che non costano come il petrolio la metà di un anno fa, ma restano meno inquinanti. Un petrolio decisamente meno caro, insomma, può aiutare. Ma la medaglia ha diversi rovesci.
Giovanni Stringa