Margherita De Bac, Corriere della Sera 3/1/2015, 3 gennaio 2015
ROMA È
un uomo molto diverso da quello che in una foto scattata il 17 novembre appare sorridente e in carne, sullo sfondo i paesaggi della Sierra Leone, poco prima di scoprire che era stato contagiato dal virus combattuto in Africa, come volontario di Emergency. Dimagrito di almeno 10 chili, i segni del decubito su nuca e ginocchio, i muscoli come risucchiati dalla disidratazione patita: «Devo recuperare la massa, poi se potrò tornerò in Africa. Paura? Certo, altrimenti sarei un folle».
Fabrizio Pulvirenti racconta commosso la sua esperienza di sopravvissuto. Irriconoscibile rispetto a 37 giorni fa quando arrivò allo Spallanzani di Roma chiuso in una barella bioprotetta, trasportato da Lakka a Roma. Ieri è stato dimesso. Guarito. Per salvarlo è stato fatto il massimo anche a livello di costo. Un milione, tutto compreso, è la stima.
Prima settimana
Allo Spallanzani, centro di eccellenza per la cura delle malattie infettive, era tutto pronto. Da mesi si addestravano per affrontare l’emergenza. Ad attenderlo il 25 novembre c’era una task force speciale, 15 infermieri e altrettanti medici. Fino ad allora tante simulazioni, il personale selezionato, esercitato nel proteggersi e lavorare in un reparto di alto isolamento. Si è subito capito che la faccenda era seria. Il secondo giorno il primo momento critico. La trasfusione di una sacca di plasma di un’infermiera convalescente, curata in Spagna, portata con procedura speciale da Madrid, scatena una reazione abnorme. Pulvirenti interrompe gli essenziali contatti telefonici e via mail con parenti e colleghi dell’ospedale Umberto I di Enna, la città dove lavora. Un segnale negativo. E infatti peggiora, i bollettini medici si fanno più scarni. La situazione precipita, il virus guadagna terreno, cominciano a manifestarsi gravi emorragie, l’attacco più travolgente di Ebola.
Seconda settimana
Sei dicembre, tarda serata. Due medici dell’unità di crisi abbandonano la cena di lavoro organizzata con un gruppo di infettivologi e corrono in ospedale per l’emergenza che temevano. Le condizioni del «paziente zero» italiano sono in declino rapido. È incosciente, il suo organismo ha ceduto. Lo trasferiscono in rianimazione, sgomberata in poche ore dei malati «ordinari» che vengono accolti da altri centri romani. La città si mobilita. Fabrizio è debilitato dalla perdita di diversi litri di liquidi, 5 litri al giorno, la febbre oltre 40: «Ho cercato di far prevalere la razionalità dell’infettivologo. Poi il paziente ha avuto il sopravvento». Per la squadra che lo assiste il rischio di contagio aumenta. Serve una seconda trasfusione di plasma, ricco di anticorpi che potrebbero contrastare l’infezione. Stavolta la sacca viene dalla Germania. È del suo stesso gruppo sanguigno. Una fortuna.
Il ministero della Salute coordina le operazioni con decreti, autorizzazioni speciali, sostegni economici. «L’Italia che funziona e tutto il mondo ammira», dice il ministro Lorenzin che ha ricevuto le congratulazioni di Napolitano (estese al direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito).
Terza settimana
Dopo cinque giorni di estrema preoccupazioni e lotta tra vita e morte, il medico di Emergency si riprende, i valori evidenziati dalle analisi migliorano, i laboratori di virologia lavorano in modo frenetico. Viene dato il via libera a un altro farmaco sperimentale. In tutto saranno quattro, in accordo con le organizzazioni internazionali. Ed ecco il ritorno nella stanza non intensiva, ma sempre col massimo di precauzioni: «Ho un vuoto di due settimane, non ricordo nulla». Gli infermieri, finita la paura, non nascondono di averne provata parecchia: «Ci misuravamo in continuazione la febbre, il primo sintomo a comparire. Ognuno di noi temeva di aver eseguito manovre potenzialmente pericolose».
Quarta settimana
Siamo sotto le Feste. Non si sa quale formula terapeutica abbia funzionato. Fatto sta che il dottor Fabrizio comincia a alzarsi dal letto, mangia da solo, riacquista autonomia, riprende i contatti con l’esterno: «Appena potrò tornerò in Sierra Leone, Paese di bellezza straordinaria e donerò il mio sangue perché sia utile ad altri», confidava in un’intervista al Corriere . Non può ricevere visite. Intorno a Natale, il dono sotto l’albero. Negative le analisi sull’ultimo liquido ancora infetto, le urine. Il virus non c’è più. Il convalescente è molto debole, ma intravedere il lieto fine.
Quinta settimana
Anche la seconda analisi di conferma è negativa. Ebola è stata sconfitta. La task force coordinata da Nicola Petrosillo e Emanuele Nicastri, gioisce. Ieri la conferenza stampa, le lacrime, gli applausi.
Della malattia del dottor Fabrizio resta il virus che lo stava uccidendo, il Makona INMI-1, dal nome del fiume dove l’epidemia ha avuto origine e dall’acronimo Istituto nazionale malattie infettive. Ora è al sicuro in un centro americano
Margherita De Bac