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 2015  gennaio 03 Sabato calendario

MARIO CUOMO - PEZZI DEL CORRIERE DELLA SERA


VIVIANA MAZZA
DALLA NOSTRA INVIATA New York «l liberal perdono il loro poeta», titola il sito web Politico . Su ordine del sindaco Bill de Blasio, tutte le bandiere degli uffici di New York rimarranno a mezz’asta per un mese in memoria di Mario Cuomo, primo governatore italoamericano di New York dal 1983 al ‘94, grande icona della sinistra, ma anche l’uomo che spezzò i cuori di molti democratici rifiutando di candidarsi alla presidenza.
Mario Cuomo è morto all’età di 82 anni per insufficienza cardiaca poche ore dopo che il figlio Andrew, l’attuale governatore di New York, aveva pronunciato il suo discorso di insediamento al secondo mandato senza dimenticare di citarlo: «Mio padre è nel cuore e nella mente di ogni persona presente». Più tardi, un altro dei figli, il giornalista della Cnn Chris Cuomo, ha commentato: «Ha aspettato il giorno di Andrew e poi ha mollato. È stato un padre fino alla fine».
I siti web e le prime pagine dei giornali sono stati inondati di tributi. «Un ragazzo cattolico del Queens che credeva in Dio e nell’America – lo ha definito Obama - Una voce risoluta per la tolleranza, l’inclusività, l’equità, la dignità». «Un faro dei valori liberal, in un’era in cui erano screditati, capace di sfidare Reagan al culmine della sua presidenza», ricorda il New York Times .
«La sua vita incarna il sogno americano», scrivono in un messaggio congiunto Bill Clinton (suo iniziale rivale e poi alleato) e Hillary (che Cuomo incoraggiava a «fare qualcosa di veramente grande»). I reverendi Al Sharpton e Jesse Jackson elogiano il suo impegno per i diritti civili e qualcuno lamenta che non ci siano più politici davvero di sinistra come lui
Ma il rispetto supera gli schieramenti. L’ex sindaco Bloomberg lo ammira perché «non si fece mai piegare dai venti politici, né sulla pena di morte né su altre questioni». Cuomo fu infatti uno dei pochi politici americani a opporsi alla pena di morte e, da cattolico, sostenne il diritto all’aborto.Molti repubblicani lo definiscono «un gigante della politica»: dal governatore George Pataki che lo sconfisse nel ‘94 a quello attuale del New Jersey Chris Christie.
Anche il New York Post, pur sottolineando le divergenze ideologiche, lo esalta per le abilità oratorie e lo ringrazia per aver salvato il quotidiano dalla bancarotta nel ’93.
Non manca chi, sia a destra che a sinistra, nota che i risultati ottenuti da Cuomo non sempre furono all’altezza della sua retorica. «Si fa campagna elettorale con la poesia, si governa con la prosa», ripeteva lui stesso. Ma molti reporter che con questo governatore «brillante e frustrante« hanno condiviso 12 anni di lavoro e di vita sembrano preferire oggi gli aneddoti piuttosto che i bilanci. «Per i reporter degli anni 80, Cuomo era una rock star e i suoi discorsi venivano raccontati come si fa con i concerti», scrive David Colton su UsaToday .
Viviana Mazza

INTERVISTA A GAY TALESE
ENNIO CARETTO
«La comunità italo-americana ha perso il più grande dei suoi figli e l’America ha perso uno dei suoi migliori leader. Mario Cuomo non era solo il simbolo del riscatto e del successo della nostra etnia dopo decessi di fatiche e incomprensioni. Impersonava anche la giustizia, l’eguaglianza e la tolleranza a cui si dovrebbe ispirare la nostra nazione, la faceva sognare come la fece sognare Kennedy. Figurerà nella storia di New York come uno dei suoi governatori più amati».
Così, al telefono dal suo appartamento a Manhattan, lo scrittore Gay Talese, l’autore di «Onora il padre» e di «Ai figli dei figli», ricorda il più eloquente e carismatico dei politici italo americani, un uomo che per la maggioranza del pubblico avrebbe meritato la Casa bianca.
Come giornalista del «New York Times», lei ne seguì l’ascesa negli anni Settanta. Lo conosceva bene?
«Sì, come quasi tutti gli italo americani di New York, e lo ammiravo, innanzitutto come uomo. Eravamo nati nello stesso anno, venivamo da famiglie modeste del Meridione, avevamo ricevuto la stessa educazione, nutrivamo gli stessi principi, ci eravamo fatti strada da soli nella Grande Mela studiando e lavorando, spronati dai nostri genitori. Nella comunità italo-americana mi sentivo un pioniere come lui. Ma nella maturità mi resi conto che stava facendo per essa molto più di me. Era la sua bandiera, il suo modello».
In che senso?
«Essere italo americani oggi può essere un vantaggio, ma ancora quaranta, cinquanta anni fa era uno svantaggio, molte porte erano loro chiuse. Sì, tra gli idoli del nostro paese c’erano anche italo-americani, il campione di baseball Joe DiMaggio che sposò l’attrice Marilyn Monroe a esempio, o il grande cantante e attore Frank Sinatra. Ma era in parte folclore, e infatti per la maggioranza della popolazione lo stereotipo dello italo-americano rimaneva quello del mafioso. Mario Cuomo dimostrò che era falso».
Come fece?
«Io credo che ci riuscì oltre che per i suoi straordinari intelletto, cultura e comunicativa anche per la sua onestà e per il suo impegno sociale. Era l’ultimo dei leoni liberal, come ha scritto un giornale, un democratico genuino, ma era soprattutto un uomo decente, un buon padre di famiglia, caritatevole, persino idealista. Quando parlava, la gente avvertiva che era sincero, che i suoi programmi di riforme erano davvero intesi per il bene comune, che si atteneva a un codice etico. Non a caso faceva paura ai repubblicani».
Il suo governatorato pose quindi fine ai pregiudizi nutriti dall’America sugli italo americani?
«Secondo me sì. Mario Cuomo seppe trascendere le proprie origini. Raccoglieva in sé il meglio dell’Italia e degli Stati uniti. Era un patriota americano, ma era anche il custode dei valori italiani. Su queste basi, prima di lui un altro politico della nostra etnia, Fiorello La Guardia, il sindaco di New York, un repubblicano, aveva attratto forti consensi. Ma era stata una parentesi, nessun italo-americano aveva raccolto la sua eredità. Con Cuomo, si aprì un nuovo capitolo».
Vuole dire che nemmeno in politica c’è più limite a quanto gli italo-americani possono raggiungere?
«Esattamente. Alla Corte Suprema siedono più italo-americani che esponenti delle altre etnie. Negli ultimi decenni abbiamo retto Ministeri e Forze armate. Prima o poi arriveremo anche alla Casa Bianca. Sono convinto che ci saremmo già arrivati negli anni Ottanta o Novanta con Mario Cuomo se si fosse candidato».
E’ vero che rifiutò di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti perché un membro della famiglia era sospettato di legami mafiosi?
«Penso di no, anche se Bill Clinton, suo compagno di partito, che temeva di essere eclissato da lui, vi accennò nel corso della vittoriosa campagna elettorale del 1992. Cuomo era un uomo molto riservato, molto protettivo della famiglia e molto lontano dai pettegolezzi e dagli scandali. A mio parere, non si sentì di pagare il prezzo familiare e personale che le nostre elezioni comportano. Non gli fu facile, tenne l’America in sospeso per mesi e mesi, tanto che lo definirono un Amleto».
Sarebbe stato un grande presidente?
«Immagino di sì. Alla convention democratica di San Francisco del 1984, da cui emerse anche Geraldine Ferraro, la prima italo-americana candidata alla vicepresidenza, Cuomo tenne un discorso trascinante come non se ne sentivano dai tempi di Kennedy. Per quanto concerne la politica non aveva nulla di amletico. Era dalla parte dei deboli, praticava la politica dell’inclusione. Non sapremo mai come sarebbe l’America oggi se fosse stato presidente per otto anni».