Massimo Franco, Corriere della Sera 3/1/2015, 3 gennaio 2015
Fosse per lui, c’è da scommettere che comincerebbe la visita prevista per l’autunno del 2015 negli Stati Uniti dal confine meridionale: attraversando la frontiera tra Messico e Usa, tra Terzo e Primo Mondo
Fosse per lui, c’è da scommettere che comincerebbe la visita prevista per l’autunno del 2015 negli Stati Uniti dal confine meridionale: attraversando la frontiera tra Messico e Usa, tra Terzo e Primo Mondo. Come tanti immigrati latinoamericani, spesso clandestini. Non lo farà, perché un Papa arriva da Roma a Washington o a New York, come rappresentante di tutta la Chiesa cattolica. La sua identità argentina dice comunque molto sul suo approccio alle Americhe. E contribuisce a spiegare anche perché la mediazione del Vaticano su Cuba tra Barack Obama e Raùl Castro abbia avuto successo. I semi sono antichi. Tra l’altro, «il regime dell’Avana è stato l’unico, tra quelli comunisti — ricorda un gesuita profondo conoscitore di quest’area — a non cacciare mai via il nunzio papale durante la Guerra fredda». La chiesa cattolica si è legittimata come unica istituzione in grado di evitare il passaggio brusco dalla dittatura ad un capitalismo senza freni targato Stati Uniti. Francesco ha raccolto i frutti di una lunga semina, presentandosi come primo «Papa neutrale» tra Washington e l’Avana: incarnazione di quell’«Occidente alternativo» che lo fa riconoscere come mediatore. Il fatto che non sia mai andato negli Usa, che non parli inglese, e che stia studiando quel Paese in vista del viaggio a Filadelfia per la Giornata mondiale della Famiglia, è significativo. Il suo sguardo nei confronti della prima potenza militare ed economica del mondo risente dell’esperienza latinoamericana: dittature sostenute da Washington in nome dell’anticomunismo; interventi controversi del Fmi per raddrizzare economie sempre in bilico, come quella argentina; e l’impressione che l’America australe sia stata trattata da Terzo Mondo. Che poi un simile approccio fosse comprensibile, conta relativamente. Al fondo della cultura di Francesco, venata dall’esperienza del peronismo, il movimento populista del generale Juàn Peron, salito al potere in Argentina dopo la Seconda guerra mondiale, rimane l’idea degli Usa come terra degli yanquis , gli yankees. Anche per questo il Pontefice è un naturale demolitore degli equilibri della Guerra fredda. Li associa a decenni oscuri di lacerazioni negli stessi episcopati cattolici, ora complici dei regimi golpisti, ora affascinati dalla teologia della liberazione subalterna al marxismo. Juliàn Domìnguez, presidente della Camera dei deputati dell’Argentina, di passaggio a Roma per incontrare il Papa a Casa Santa Marta, ha trovato Francesco entusiasta per l’esito delle trattative Usa-Cuba. «In America latina — ha spiegato Domìnguez — diciamo che è caduto il nostro muro di Berlino». Che sia già crollato o stia cadendo, implica una revisione delle coordinate della Chiesa cattolica. Il Vaticano sa che per anni sono stati i vescovi statunitensi i primi a criticare l’ embargo di Washington contro il regime dei Castro. Il problema è come viene interpretato il ruolo di Francesco su Cuba negli ambienti più conservatori degli Stati Uniti: quelli che hanno accusato inopinatamente il Papa di «vendere roba marxista», e criticato Obama per la trattativa. Sono posizioni che potrebbero saldarsi con le riserve dei tradizionalisti Usa per le aperture dottrinali del Pontefice argentino. Colpisce che America , il settimanale dei gesuiti Usa, abbia ripubblicato un’intervista di inizio dicembre di Francesco alla Naciòn di Buenos Aires. Il testo contiene diverse domande e risposte sui «settori conservatori, specialmente negli Stati Uniti»: pezzi di episcopato che temono «il collasso della dottrina tradizionale» e chiedono perché il cardinale conservatore Raymond Burke è stato rimosso dopo l’ultimo Sinodo. Il Papa risponde, rassicura, spiega. Ma si intuisce anche da questo che gli Usa potrebbero rivelarsi la «frontiera» più difficile. Il cattolicesimo statunitense è forte e vivo. Dopo avere pagato risarcimenti alle vittime della pedofilia per quasi tre miliardi di dollari (circa due miliardi e mezzo di euro), ha ripreso credibilità e vigore. I suoi undici cardinali sono stati «grandi elettori» di Bergoglio in Conclave. Il problema è che alcuni di loro ormai esprimono apertamente riserve sul papato. Non si tratta solo di personaggi come Burke o Charles Chaput, a capo della diocesi di Filadelfia. Lo stesso arcivescovo di New York, Timothy Dolan, avrebbe manifestato perplessità. E Francis George, ex arcivescovo di Chicago, il 17 novembre ha rilasciato un’intervista a Crux , il sito di informazione cattolica del quotidiano Boston Globe , contenente critiche esplicite a Francesco. George racconta, tra l’altro, di avere votato Bergoglio perché glielo dissero i cardinali brasiliani, «ai quali feci molte domande»; e di non avere mai parlato a tu per tu con lui, mentre vorrebbe chiedergli «se si rende conto di quello che è accaduto con la frase: “Chi sono io per giudicare?”», riferita agli omosessuali. Vorrebbe fargli presente «come è stata usata e utilizzata in modo distorto». Gli uomini vicino a Bergoglio sostengono che George è irritato per la nomina del successore, l’arcivescovo Blase Cupich, fatta senza consultarlo. Sembra di capire che la scelta sia stata suggerita da Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, unico statunitense del «C9», il gruppo di nove cardinali che consigliano Francesco; e caldeggiata dal coordinatore del gruppo, il cardinale honduregno Oscar Rodrìguez Maradiaga, uomo forte dell’ultimo Conclave. Eppure, dietro le parole di George si indovinano i contorni di una sorta di «Internazionale tradizionalista» che attraversa l’episcopato Usa, e parte di quelli spagnolo, italiano, francese. Il successo papale nella questione cubana potrebbe aggiungere un’ulteriore incognita: anche perché avverrà con la campagna per la Casa Bianca del 2016 nel vivo, e i repubblicani già all’attacco per i presunti «cedimenti ai Castro». I grandi media americani hanno fatto indossare da tempo al Pontefice panni progressisti. Per paradosso, Francesco dovrà rassicurare il proprio episcopato, impegnato in una «battaglia culturale» sui valori contro i Democratici di Obama, che non sono panni nei quali si sente a proprio agio. Ma gli sarà difficile non scontentare nessuno.