Valeria Palermi, L’Espresso 2/1/2015, 2 gennaio 2015
CAMBIARE PER RESTARE SE STESSI
[Colloquio con Francesco De Gregori]
CI SIAMO CRESCIUTI INSIEME, semplicemente. Ci siamo sgolati con “Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo”. Innamorati del più improbabile degli amori, quello per la donna cannone. Ritrovati a cantare Viva l’Italia, noi che in questo paese non ci crediamo molto. Dai nostri LP è passato ai cd, poi agli iPod, e da lì in quelli dei figli, senza doverglielo suggerire. C’è sempre stata una canzone di De Gregori, in qualche fase della nostra vita: Alice, Generale, Rimmel, Santa Lucia. Natale.
Ci vuole qualcosa di speciale ad attraversare le generazioni, tre o quattro, e riuscire sempre a toccare testa e cuore delle persone. Poesia, certo. Ma soprattutto coerenza. Vuol dire che nel tuo mondo ci si può riconoscere. Per questo esce il nuovo disco di Francesco De Gregori, “Vivavoce”, e diventa subito disco d’oro. Perché se la storia siamo noi, lui è un pezzo della nostra storia.
“Vivavoce” rivisita 28 canzoni del suo repertorio e le ripropone con arrangiamenti inediti. Bisogna cambiare per restare coerenti?
«È il punto nodale. Un apologo: un uomo chiede a una ragazza quanti anni ha. Lei risponde: 18. E lui: bugiarda, l’anno scorso mi hai detto che ne avevi 17. Verità e coerenza a volte vengono lette come menzogna, succede anche con le canzoni. Per me coerenza è suonarle oggi come sento che vanno suonate, in modo diverso da 20, 30, 40 anni fa. Sarebbe incoerente pretendere di rifarle uguali: è cambiata la mia voce, sono cambiati i miei musicisti. Sono cambiate le nostre teste. Il mondo non sta mai fuori dalle mie canzoni».
Le sono persino costate un “processo politico”, negli anni Settanta al Palalido di Milano: non la trovavano abbastanza di sinistra...
«Oggi i guardiani dell’ortodossia mi fanno meno impressione, ma a 20, 30 anni ti chiedi in continuazione se stai sbagliando. Io sono sempre stato poco allineato, poco d’accordo perfino con me stesso: come nella vignetta di Altan, a volte ho opinioni che non condivido. Ne sono grato, testimonia la mia libertà di pensiero. Se i pensieri di oggi non vanno d’accordo con quello che pensavo dieci anni fa o con quello che va per la maggiore, non mi crea alcun imbarazzo».
Dell’album fa parte “Viva L’Italia”. Una delle sue canzoni contemporaneamente più amate, più criticate, più usurpate.
«Era rischiosa, lo sapevo. Era il ‘79, scioccava il mio pubblico, abituato a considerare il patriottismo retaggio della destra. Ma non è così. Quando arrivarono le prime critiche dissi a tutti: “Rileggetevi le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”. Un libro commuovente e profondo dove tutti questi poveretti messi al muro dai nazifascisti nove volte su dieci chiudevano le lettere dicendo: “Cara mamma/moglie/marito ti saluto, Viva l’Italia”. Il sentimento di appartenenza a un paese non deve essere appannaggio di una sola parte politica».
De Gregori, a cosa serve una canzone?
«A cercare la verità. Non lo fanno solo gli scienziati o i filosofi, ma anche gli artisti. I musicisti».
A un musicista è dedicata l’unica cover di questo album, “Il Futuro”. Perché Leonard Cohen?
«Per me è stato formativo. Cohen ha festeggiato gli 80 anni con un disco meraviglioso, fa ancora concerti meravigliosi... l’ho scoperto con “Suzanne”, mi innamorai di quella voce, quel suono. Io ho avuto tre fascinazioni: De Andrè, scoperto sui banchi del ginnasio, voce pazzesca, direzioni inaudite, carica poetica mai sentita, mi si aprì un mondo; Cohen e Bob Dylan. Ma Cohen si è via via rarefatto, Dylan è rimasto riferimento fortissimo perché riassume in sé diecimila voci, stili, maniere, è un melting pot musicale dell’America, una cornucopia di cose: ha fatto blues, rock, gospel, folk, ora sta addirittura per uscire un suo disco in cui fa il crooner, canta Frank Sinatra. E la sua indipendenza di uomo e d’artista, di intellettuale! A proposito di coerenza, Dylan ha tradito se stesso e il pubblico diecimila volte, pagando anche molti prezzi, come quando si è permesso di abbracciare una chitarra elettrica: l’hanno crocifisso, ma è andato avanti per la sua strada. Tutti pretendono sempre di dirti chi sei e cosa devi fare, ma un artista deve sfuggire a tutto questo».
Americani sono molti dei suoi riferimenti culturali.
«Noi nati nel Dopoguerra siamo tutti un po’ americani. Il mio orizzonte culturale è datato, va da Topolino ai film western, a John Wayne. Mio fratello era innamorato dell’America, del rock, di Elvis Presley. Questa fascinazione la confesso, e non credo di essere il solo. Io amo il Cormac McCarthy di “Cavalli Selvaggi”, Jack Kerouac. Hemingway l’ho letto da ragazzo, “Addio alle armi”, “Per chi suona la campana”. Con “Festa Mobile” ho capito che è uno scrittore seminale. Come Faulkner e Steinbeck».
Europei?
«Joseph Conrad, “Cuore di Tenebra”. Kafka l’ho amato moltissimo, e Céline. Simenon, la sua stringatezza, quei libri che cominciano tutti allo stesso modo, “A Parigi piove, c’è un po’ di nebbia, e il commissario Maigret...”. Un vocabolario minimo, fatto forse di 150 parole, ma riesce sempre a coinvolgerti. Ho cominciato presto a leggere polizieschi. Li leggeva papà, bibliotecario. Uomo di cultura, la sera si godeva il suo giallo Mondadori o un libro di Maigret. I polizieschi mi piacciono anche in televisione, ho visto “True Detective”, serie straordinaria. Amo molto anche la fantascienza».
Che c’entra con uno che ha la passione della storia e gli ha dedicato una canzone, “La Storia” appunto?
«Certe cose la fantascienza le ha evocate. Uno dei miei preferiti è il Ballard di “Il vento dal nulla” o “Condominium”: un’ipotesi del presente. Nemmeno il romanzo storico è mai cronaca, del resto. Letteratura e fantascienza prendono a pretesto la storia per emozionarti, raccontarti un percorso. La storia è uno sfondo necessario per creare personaggi consistenti sul piano lirico».
Se tanti italiani si sentono così coinvolti dalle canzoni di De Gregori, allora, è anche grazie a quel padre bibliotecario, e a una madre insegnante di lettere.
«I primi libri che ho letto sono stati “Pinocchio” e “Cuore”. A casa mia giravano tanti libri, il concetto era “leggiti quello che ti pare”. Allora vivevamo a Pescara, mio padre era il sovrintendente bibliografico delle biblioteche di Abruzzo e Molise, parte del suo lavoro era andare a verificare come funzionavano le biblioteche comunali delle due regioni. Qualche volta portava anche me, e questo mi ha fatto respirare l’idea che è bene far leggere libri. Erano gli anni Cinquanta, si usciva dalla guerra con tanti problemi, ma noi andavamo a Rivisondoli o Guardiagrele e mio padre parlava con chi gestiva la biblioteca di questi paesini, col sindaco. Ero piccolo, ma il senso lo capivo».
Lei che libri ha messo in mano ai suoi figli?
«Nessuno in particolare. Glieli ho lasciati lì. Forse facendo qualche sforzo in più di mio padre perché la loro generazione ha anche altre fascinazioni, dalla televisione a Internet. Oggi sono loro che portano dei libri a me».
Una delle accuse che le fecero, sempre nei Settanta, fu quella di avere “una cultura liceale”.
«Era appena uscito “Rimmel”, lo scrisse Giaime Pintor, che poi divenne mio amico: mi fece un attacco feroce sotto vari aspetti e concluse “De Gregori ha una cultura liceale”. Vero, sono un borghese e ho una formazione liceale. Avercene! Non è una diminutio aver letto cinque o sei libri importanti in quell’età in cui un libro ti dà un’impronta. Oggi mi spiace un po’ sapere che chi ha vent’anni non ha avuto gli stessi miei insegnanti, non ha fatto le mie stesse letture: limita la comunicazione. Certi rimandi per qualcuno sono immediati, per altri no. Se cito “l’Innominato” non è detto che uno di vent’anni capisca. Io uso un alfabeto da cui certe lettere sono scomparse».
Ha presentato “Vivavoce” nelle librerie Feltrinelli. Perché ha voluto accanto Nino D’Angelo e Checco Zalone? Che cosa c’entra lei con loro?
«Erano chiavi per entrare nelle rispettive città, e per testimoniare una vicinanza culturale. Io considero Zalone un intellettuale importante nel cinema italiano di oggi. Fa film che sembrano di cassetta e basta, ma c’è molto di più. Rappresentare l’Italia nella comicità è un gesto intellettualmente forte. Anche i cinepanettoni vorrebbero farlo, ma lì tragicamente cambiano le dinamiche e la voglia di prendersi delle responsabilità nel raccontare. Secondo me Zalone, quando racconta l’Italia, sotto questa apparenza svagata in realtà dà il suo punto di vista. Non si limita a ridacchiare su quello che succede».
Diciamolo: lei è politicamente scorretto. In alcune interviste ha parlato bene di Renzo De Felice e di Papa Ratzinger.
«De Felice era un professore alla mano, era facile chiacchierare con lui. Ero iscritto a lettere e filosofia a Roma, lo conobbi a “Storia dei partiti politici”, la sua cattedra. Faceva leggere la sua opera “Mussolini il rivoluzionario” e dava una lettura eretica del fascismo, dicendo in sostanza che per lungo tempo il fascismo aveva goduto del consenso degli italiani. Contraddiceva quella che lui chiamava la vulgata resistenziale, secondo cui tutto il popolo italiano era stato sotto il tallone del fascismo per un ventennio finché improvvisamente... Così c’era scandalo, ma fuori dell’università. Dentro non fu mai preso di mira».
Ratzinger?
«Il discorso di Ratisbona probabilmente fu frainteso. Il papa parla da papa, non da politico né da islamista. Mi colpì che gli venisse impedito di fare una lezione alla Sapienza. Il papa per me è un intellettuale, e va trattato come tale. Se - giustamente - si permette a Renato Curcio di fare una conferenza dentro l’università, trovo assurdo che lo si impedisca al papa. Il fatto è che Ratzinger non era assolutamente attento alla comunicazione, forse anche questo me lo rende simpatico. Mentre papa Francesco è una figura illuminante anche per come è arrivato al papato, in modo molto attento alla comunicazione. In ogni caso, loro porgono il punto di vista della chiesa. Voler costringere la Chiesa ad assumere posizioni moderniste mi sembra assurdo. Se tu sei fuori dalla cultura della Chiesa che ti frega delle sue posizioni? Anche questa è coerenza».
Sono trent’anni che gli italiani vengono ai suoi concerti, e che lei li osserva dal palco. Come se li è visti cambiare sotto gli occhi?
«Sono peggiorati, siamo peggiorati tutti. Ma magari questa è la visione di una persona come me, quasi anziana, che dice che il burro di una volta era più buono. Mia madre lo diceva sempre ed erano gli anni Sessanta: “Il burro dei miei tempi era un’altra cosa”. Chissà se aveva ragione lei oppure no». n