Roberta Zunini, L’Espresso 2/1/2015, 2 gennaio 2015
UNA RISATA VI SEPPELLIR
[Colloquio con Yasemin Inceoglu] –
SFILATE DI PANCIONI FINTI SU ISTIKLAL CADDESI, l’arteria più lunga e frequentata di Istanbul, per ribellarsi all’avvertimento di un teologo musulmano di evitare di esporsi in pubblico quando si aspetta un bambino; migliaia di foto di donne che ridono a crepapelle postate su Twitter per opporsi alle tirate del vice premier Bülent Arinc sull’inopportunità di ridere in pubblico perché oltraggia la morale islamica; cortei con striscioni zeppi di scritte ironiche e sarcastiche per protestare contro la lezione di “antropologia islamica” del neo presidente Erdogan in cui sottolinea che le donne non sono uguali all’uomo, al massimo complementari. L’annus horribilis delle donne turche è giunto al termine, ma questo non significa che il prossimo sarà mirabilis.
«Per come stanno andando le cose qui in Turchia, il futuro non promette nulla di buono, anzi. Pertanto dovremo continuare a ribellarci». Ribellarsi per Yasemin Inceoglu significa innanzitutto «resistere con tenacia, non con parole ingiuriose», ma sempre e comunque senza alcuna forma di violenza. Questo slogan, coniato molti anni fa dalle femministe turche, vale ancora».
Cinquantaquattro anni, madre, docente di comunicazione presso l’università Galatasaray di Istanbul, periodi di insegnamento negli Usa, in Italia e in India, saggista nonché attivista laica impegnata da anni a sostenere i diritti delle donne e dei bambini, oltre ai principi cardine della democrazia - specialmente la libertà di critica e di stampa - Inceoglu sottolinea che per lei ribellione significa innanzitutto resistere.
Yasemin Inceoglu, resistere a che cosa?
«Ai pregiudizi prima di tutto. Io e altre 56 donne l’anno scorso avevamo lanciato una petizione per chiedere alle autorità turche di liberalizzare il velo anche nei luoghi pubblici. Pur essendo laica e non indossandolo ritengo però che chi vuole lo debba poter fare. Non sa quante critiche mi sono arrivate, anche da parte di amici stretti. Alcuni mi hanno chiesto se fossi diventata musulmana osservante. Non hanno capito che non si può sostenere la libertà solo in un senso. Se portare il velo non arreca danno al prossimo, bisogna fare in modo che chi vuole lo possa portare. L’importante è non ledere le libertà e l’incolumità altrui: un fatto così evidente che farebbe ridere se non fosse drammatico, perché è un segnale di intolleranza a tutti i livelli e da tutte le parti. La società qui in Turchia ormai è totalmente polarizzata».
A proposito di risate, migliaia di ragazze e donne turche hanno mandato tweet con i loro volti sorridenti all’indirizzo del vice premier Arinc dopo la sua infelice dichiarazione che la risata di una donna fatta in pubblico non è gradita al Profeta. Ritiene sia un modo corretto di ribellarsi o un modo per far finta di ribellarsi?
«Ritengo sia stata una forma di disobbedienza civile molto efficace. Qui in Medio Oriente la risata spontanea di una donna - così come l’esternazione di altri sentimenti che indicano felicità, gioia, piacere - appare agli occhi degli uomini come una forma di minaccia, perché in qualche modo evidenzia la nostra indipendenza, la capacità di pensare e provare emozioni senza l’avallo maschile. Insomma una forma di libertà. I dittatori, si sa, vogliono tenere il popolo nella paura, non nell’allegria. E siccome gli uomini che stanno oggi al potere in Turchia sono dispotici e sessisti, va di conseguenza che ci vogliono impaurite e renderci dipendenti da loro. Non era certo la prima volta che il governo Erdogan (fino allo scorso agosto Erdogan era primo ministro, ndr) provocava indignazione con commenti e trovate discriminatorie. Le dichiarazioni di Bülent Arinc non sono una cosa da ridere. Le sue parole illustrano perfettamente come lui e molti uomini turchi vorrebbero che fossimo: una specie senza alcun diritto. Con il loro moralismo non fanno altro che alimentare la violenza, lo stupro e la discriminazione nei nostri confronti. E non è certo ciò di cui abbiamo bisogno, visto che questo è uno dei Paesi con il tasso più alto di femminicidi, specialmente in ambito familiare. Con la campagna via twitter abbiamo dimostrato di essere capaci di pensare con la nostra testa e di saper trovare metodi per cercare di affrancarci dal gioco maschile».
Cosa significa per lei ribellione?
«Una rivolta, come quella avvenuta per difedere Gezi park, dove più della metà dei manifestanti era costituita da donne, e il rifiuto di obbedire a un ordine. Ci si ribella all’autorità: familiare, politica o finanziaria. In realtà ci sono diversi tipi di ribellione: non violenti come la disubbidienza civile, oppure violenti. A mio avviso andrebbero chiamati ribelli solo coloro che usano la violenza. Per i pacifisti che si ribellano, come avvenne a Gezi, senza commettere violenze, userei l’aggettivo “disubbidienti” o “resistenti” più che ribelli».
Lei come si definisce, visto che ha partecipato a Gezi, ha postato la sua foto sorridente via twitter ma ha anche preso parte a cortei e sit in?
«Mi definisco un’attivista. Non ho mai pensato che la violenza fosse un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Potrei anche definirmi disubbidiente o resistente. Ma se per ribelle intendiamo colui che reagisce senza ricorrere alla violenza, posso anche definirmi ribelle».
Perché le donne turche hanno dovuto ricominciare a ribellarsi o a reagire pubblicamente? Cosa è accaduto in Turchia di così grave?
«La Turchia è un Paese dove le donne sono oppresse dalla violenza, anche da parte delle forze dell’ordine che dovrebbero invece difenderle; dal divieto da parte dei familiari, soprattutto nelle zone rurali, di andare a scuola; dalla povertà; dalla disoccupazione. Non siamo rappresentate sufficientemente in Parlamento, al Governo, nei partiti, nelle forze dell’ordine e in magistatura. Ma da quando, circa cinque anni fa, il conservatorismo neoliberale del partito islamico Akp (partito della Giustizia e Sviluppo) al potere da 12 anni ha cominciato a minare i diritti finora ottenuti, si è formata una terza ondata di femminismo che si ispira alle femministe socialiste della prima generazione. Questo movimento ha iniziato a mostrarsi durante i cortei del giugno 2012 per protestare contro i tentativi del governo di minare il diritto all’aborto. Praticamente oggi è impossibile abortire in un ospedale pubblico se non si è sposate. Eppure la legge lo permetterebbe. Il clima politico creato dal governo però ha fatto aumentare il numero dei medici che non lo praticano o che seguono alla lettera un’altra norma che obbliga i sanitari ad avvisare il padre o il marito (qualora la donna sia sposata) della situazione in cui si trova la figlia o la moglie: incinta e decisa ad abortire. Come se fosse un peccato. Un altro frutto amaro di questo atteggiamento moralista, razzista e sessuofobico delle autorità turche nei confronti della donna è l’obbligo per il ginecologo di avvisare il padre se riscontra che una paziente single è in stato di gravidanza. Siamo alla caccia alle streghe, ormai. Salvo poi poter fare tutto se si va in una struttura privata. Chi ha i soldi è come se fosse assolto, o meglio come se non avesse peccato, perché ha fatto tutto di nascosto. È, ribadisco, un’involuzione sociale tremenda. Per questo dobbiamo trovare il modo di non abbassare il nostro grado di ribellione. Altrimenti ci sfileranno tutti i diritti acquisiti con anni di lotte e sacrifici e ci faranno diventare ipocrite. Questo è il risultato una società in cui l’ipocrisia è benvenuta e incoraggiata dalle istituzioni».
Ma qual è allora il modo migliore di ribellarsi?
«Continuare a rifiutare la violenza e mostrare una resistenza passiva. Ma è fondamentale anche rispondere alla violenza degli uomini con la penna e il ragionamento. Non accettare alcuna restrizione imposta. Per fare questo le donne però devono organizzarsi per distruggere i modelli di pensiero imposti e rifiutare tutti i ruoli predefiniti. Noi donne dobbiamo dire ad alta voce che ognuna deve essere libera di impostare la propria vita come meglio crede e che, nonostante questa sorta di totalitarismo culturale che la classe politica dominante ci vuole propinare, noi esistiamo anche se non siamo madri o componenti di una famiglia tradizionale.
Il modo migliore è quello mostrato quando ci siamo riunite a Gezi Park e ribellate contro la violenza gratuita della polizia: per proteggere la vita, per aumentare la consapevolezza circa gli effetti dell’urbanizzazione, per esigere libertà di parola, spazi gratuiti e solidarietà. Ognuna di noi aveva la propria religione, oppure era atea, c’erano single e donne sposate, giovani e anziane, eterossessuali e lesbiche, madri single e donne sposate senza figli, provenienti dalla città e dalle campagne. Individui, sì, ma in grado di lottare assieme per il bene comune».
Non potete abbassare la guardia.
«I nostri rappresentanti e molti uomini turchi pensano che noi o siamo oggetti, o delle “sante” create solo per mettere al mondo bambini da educare come perfetti fedeli, oppure bambine da rinchiudere in casa fino al momento in cui non andranno nella casa di un marito per generare altri figli. La Turchia si sta dimenticando di avere sottoscritto dei trattati internazionali per sostenere i diritti delle donne. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, contengono indicazioni precise tra le quali il diritto a partecipare alla vita politica, alla scuola. Non solo: sottolineano anche che noi abbiamo diritto a strutture sanitarie pubbliche e adeguate per poterci sottoporre a un aborto sicuro e protetto dal diritto alla privacy».
Ma agli occhi delle donne turche anche la privacy appare sempre più un lusso per soli uomini.