Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 02 Venerdì calendario

GIORNALI, LA CARTA RESISTE ANCORA

Ci sono un po’ di lezioni che i quotidiani italiani possono trarre dalla esperienza statunitense per continuare a occupare anche nel 2015 il ruolo centrale che tuttora hanno nell’informazione dei cittadini. E portare a casa pure dei bei soldini.
Innanzitutto, non è vero che i giovani tra i 18 e i 34 anni non leggono i quotidiani tradizionali.
Anzi, lo fanno in massa, smentendo quella che è diventata una leggenda metropolitana che si autoalimenta soprattutto tra i giornalisti, con una buona dose di tafazzismo.
Gli abbonamenti digitali, poi, sono un’ottima via per trovare nuove fonti di ricavi, ma si deve sapere sin da subito che c’è solo un limitato gruppo di lettori disposti a pagare sul web, oltre al quale non si può andare.
Bisogna spingere sul cosiddetto native advertising, ovvero contenuti pubblicitari realizzati internamente dalle case editrici con la qualità e l’approccio proprio del giornalismo: attenti, tuttavia, a non esagerare nello storytelling, nel raccontare storie molto belle, artistiche, ma prive di una finalità realmente commerciale.
Infine, ricordarsi sempre che è ancora la carta stampata, adesso e nei prossimi anni, ad assicurare la gran parte degli introiti di una casa editrice, sia attraverso la vendita delle copie, sia grazie alla raccolta pubblicitaria. Perciò, nonostante i ricavi non stiano crescendo, si deve sempre investire anche su questo fronte.
Al New York Times, che è il quotidiano tradizionale per eccellenza nella cultura americana, si sono accorti, per esempio, di avere un grande seguito tra i giovani.
Certo, la fascia tra i 18 e i 34 anni ha pubblicazioni native digitali fatte apposta per loro, come BuzzFeed o Elite Daily. Ma se si scorre la classifica di ComScore quanto a siti di informazione, ad esempio, ci si accorge che il New York Times è quarto, dietro BuzzFeed, Gawker e Complex, e con un numero di utenti unici del 20% superiore a un fenomeno per giovanissimi come Vice. La pubblicazione sul web che ha più successo sul target 18-34 anni è invece Elite Daily, con il 71% dei suoi lettori in questa fascia. Ma, tanto per fare un altro esempio, due brand storici come Cosmopolitan ed Esquire sono ai primissimi posti con, rispettivamente, il 62% e oltre il 50% di lettori tra i 18 e i 34 anni. Segno, quindi, che pure un editore tradizionale tipo Hearst ha capito come si deve lavorare nel nuovo mondo digitale.
Perciò il target giovane non deve essere dato per perso a favore di media nuovi. Bisogna conquistarlo.
Giusto, poi, puntare sui pay wall, sugli accessi a pagamento. Il New York Times li ha introdotti nel 2011 e ora gli abbonamenti digitali, a quota 875 mila, sono superiori a quelli del cartaceo. Lo zoccolo duro, tuttavia, è stato raggiunto, e la crescita si è fermata. Ci sono stati altri tentativi per monetizzare le operazioni su Internet: ma i sei dollari al mese per la New York Times opinion non hanno sfondato, così come gli otto dollari al mese per NYT Now, app pensata per i nativi digitali.
E pure l’offerta verticale dedicata alla cucina, Cooking, con un buon riscontro di pubblico, non ha ancora avuto successo sul fronte dei ricavi.
Nelle case editrici il motore principale resta, adesso e per i prossimi anni, la carta stampata: al New York Times il 75% della raccolta pubblicitaria, per esempio, arriva dalla carta. E non è un caso che si continui a investire anche sulla carta: il prossimo 22 febbraio è prevista l’uscita del nuovo Sunday magazine, con un progetto di restyling costato molti milioni di dollari.
Diciamo che nel nuovo mondo digitale non si inventa nulla, semplicemente ci si adegua al mutato ambiente: anche il fattoquotidiano.it, ad esempio (vedere servizio a pagina 21), scopre nel 2015 la cronaca nera, le indiscrezioni dal Palazzo, gli inserti sui piaceri della vita. Ovvero tutta roba da vecchia editoria. È un esempio di notiziario online di grande successo, ma, come ammette lo stesso direttore Peter Gomez, «lo stipendio ce lo pagano ancora quelli della carta stampata».
Una strada che negli Stati Uniti sta prendendo piede per fronteggiare la crisi dei ricavi pubblicitari è quella del cosiddetto native advertising: ovvero, servizi a scopo pubblicitario realizzati internamente (l’evoluzione digitale dei vecchi publiredazionali), e che diventano post o liste (i dieci migliori ristoranti, le dieci località da visitare ecc.) piacevoli da leggere.
Negli Stati Uniti il native advertising vale nel 2014 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro. E al New York Post, dopo aver tagliato 100 posti di lavoro in redazione, hanno invece creato un nuovo team di 21 persone dedicato al native advertising: ci sono giornalisti provenienti da Business week, BuzzFeed, Huffington Post, e poi esperti di social media e di contenuti, designer, producer. Nel 2014 sono stati prodotti oltre 40 post commerciali, nella forma di articoli narrativi arricchiti di audio, grafici, foto ecc., tra gli altri per Netflix, Goldman Sachs, Shell, United airlines. Si utilizza la qualità giornalistica di scrittura e narrazione, tipica del New York Times, per abituare i lettori ad avere un approccio storytelling e multimediale alla pubblicità. E grazie al native advertising, i ricavi pubblicitari digitali del New York Times sono saliti del 16,5% nel terzo trimestre 2014. Unico problema: su circa 40 post, solo due avevano una storia fortemente connessa al brand di cui parlavano. Negli altri, il brand in questione poteva essere sostituito con un altro senza problemi: centrale era la storia, il bel racconto, non lo scopo commerciale di questa iniziativa. E questo è un errore che si deve evitare. Ma, ci domandiamo: in quanti spot pubblicitari tradizionali si potrebbe sostituire un brand, un prodotto, con un altro, senza creare problemi di coerenza della storia? Direi in quasi tutti.
Claudio Plazzotta, ItaliaOggi 2/1/2015