Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 31/12/2014, 31 dicembre 2014
UN ANNO SULLE MONTAGNE RUSSE
Un anno politico tutt’altro che piatto, quello che si archivia oggi. È l’anno del governo e del 41% di Matteo Renzi e dell’ascesa neopopulista di Matteo Salvini, di premier dimissionati, come Enrico Letta, o di leader calanti come Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.
Un anno che, inevitabilmente, fa registrare protagonisti in positivo, talvolta per merito o per fortuna, e in negativo, per colpa o per il fato avverso.
Ne abbiamo selezionati 10 fra i primi e altrettanti fra i secondi.
I MIGLIORI
Angelino Alfano. Bersaglio concentrico di forzisti d’ogni specie, falchi o colombe d’accordo nell’attaccarlo, e dei piddini antirenziani, che utilizzano l’Ncd per bollare come destre le scelte del premier, il ministro degli Interni continua a tenere a galla il suo piccolo vascello.
Con un occhio ai caotici centristi udicini e post-montiani e con un altro all’elettorato berlusconiano, Alfano punta a tenere botta, ossia a sopravvivere al renzismo e a questa fase di liquidità politica come non se ne erano mai vissute. Con la convinzione che governare paghi, alla fine. Specialmente in ministeri, il suo, quello di Maurizio Lupi, le infrastrutture, e quello di Beatrice Lorenzin, la sanità, di cui la gente percepisce la difficoltà ma anche l’impatto.
Voto: 6+.
Silvio Berlusconi. I vari esegeti del Patto del Nazareno ci hanno visto una vena patrimonialista, descrivendo il teorico della Rivoluzione liberale come un Mazzarò qualsiasi, preoccupato solo della Roba.
Interpretazioni che non tengono conto della complessità dell’uomo, il quale annette al dialogo con Renzi il valore di una negoziazione fra pari, che lo legittima e che, dopo vent’anni, nel momento stesso in cui arrivano le condanne, lo monda dalla scorza criminale costruitagli dai nemici. Dal suo punto di vista, che in B. è tutto, un anno ottimo. È se Forza Italia ne soffre e ne soffrirà pazienza.
Voto: 7-.
Pippo Civati. Malgrado la sua propensione naturale a rendesi antipatico, per quel tono da saputo che non lo abbandona mai, il deputato monzese registra un bilancio lusinghiero: ha creato una sua area omogenea nel Pd, l’unica genuinamente alternativa a Renzi, e che, a differenza dell’altra minoranza, non è affatto incline al compromesso. In attesa di decidere se lo sbocco sarà fuori dal partito, in un soggetto plurale di sinistra vecchia ma moderna nella declinazione, Civati si muove, aggrega, occupa gli spazi lasciati da quelli della Ditta.
Voto: 7-.
Dario Franceschini. Era arrivato al Collegio romano suscitando la stizza dei sopracciò della sinistra intellettuale, che amoreggivano col predecessore, Massimo Bray, per via del suo understatement e del suo zainetto, avendogli perdonato persino la sua estrazione dalemiana. Così si era immediatamente cominciato a sputare fiele sul neomistro dei Beni culturali, ricordandone la fatiche narrative certo non destinate a guadagnargli un Nobel per la latteratura. Eppure Franceschini ha impostato una riforma di musei e sovrintendenze che finalmente pare introdurre elementi di modernità nella gestione dei beni culturali in Italia.
Voto: 7.
Giorgio Napolitano. La fretta del Colle nel fare le riforme che servono al Paese ha tolto le castagne italiane dal fuoco più di una volta. Una è stata a febbraio 2014, quando Re Giorgio ha avuto chiaro che il felpatissimo Enrico Letta, col suo governo esangue, mandava a sbattere il Pd di Renzi e costruiva ponti d’oro all’antipolitica grillina ma soprattutto rendeva impossibili le riforme quali che fossero.
Napolitano ha avallato lo scalpitante segretario Pd nella sua ascesa a Palazzo Chigi ma correggendone alcune intemperanze nella formazione dell’esecutivo e nell’approccio un po’ troppo guascone alla macchina governativa, sostenendone poi il percorso dinnanzi alle rivolte sottotraccia di tanti piccoli poteri feriti. Una prova della sua grande statura politica. Gigantesca quando ha dovuto subire, alla sua veneranda età, l’affronto d’esser trascinato in tribunale seppur da testimone e seppure a casa sua.
Voto: 9.
Pier Carlo Padoan. Appena arrivato lo dipinsero come uomo competente ma troppo gradito a Massimo D’Alema. L’economista ex-Ocse ha mostrato molto altro: s’è dovuto sobbarcare tutta la furia creativa del premier e della sue slide, trovandogli continuamente le coperture e, in questo, riconoscendo il primato della politica.
Contemporaneamente ha dovuto usare la sua moral suasion per rassicurare Bruxelles e, quando non è bastato, ha accettato persino i metodi renziani, come la pubblicazione della lettera del commissario Jyrki Katainen sul sito del Mef. Non da poco il polso che ha dovuto usare in Via XX Settembre, sede del ministero, per domare l’orgoglio parroccone dei superburocrati che volevano far la guerra all’arrogante inquilino di Palazzo Chigi. Faticacce che forse lo porteranno al Quirinale.
Voto: 7+.
Federico Pizzarotti. Debito ridotto al comune di Parma e tutti e due i piedi ben piantati nel movimento: un bilancio lusinghiero per il sindaco pentastellato, avversato da tempo dal duo Beppe Grillo-Gianroberto Casaleggio, tanto che sul blog del fondatore apparve, a maggio, un post severissimo sul non esaltante risultato delle europee nella città ducale. Fede, come lo chiamano i suoi, è ormai il riferimento di chi creda che un altro M5s è possibile.
Voto: 7.
Matteo Renzi. In nemmeno un anno di governo ha accumulato piu avversari che riforme. Quelle fatte o ormai approntate, il Jobs Act e mezzo Senato, non entusiasmano, perché frutto di una mediazione estenuante con la minoranza del partito. Tuttavia ci sono. Così come si vede l’inizio della riforma della giustizia civile, di quella della pubblica amministrazione, di quella del Terzo settore. E poi c’è quella della scuola, che sarebbe ardito definire riforma ma che certo introduce elementi di merito e ha... Il merito di tornare a investire sull’educazione dopo anni di tagli lineari.
I tanto vituperati 80 euro, ammesso che non arrivino prima o poi a muovere i consumi, restano un’operazione redistributiva che, comunque la si veda, denota un notevole coraggio politico.
È forse il massimo che si può ottenere con una maggioranza parlamentare che, per il Pd, è residuata dal Porcellum gestito dal Tortello magico bersaniano, e che quindi non solo non è bulgara ma nemmeno macedone. Una camicia stretta che probabilmente dovrà essere strappata nelle urne anticipate, se ci sarà una legge elettorale buona allo scopo e soprattutto un Colle amico.
Restano i molti errori di percorso, dalla compagine ministeriale in parte non all’altezza e all’indugio eccessivo nel costruire uno staff, gli uni e l’altro figli di una difficoltà quasi patologica a delegare, nota negli anni fiorentini e diventata macroscopica in quelli romani.
Resta un’azione europea intermittente, a pendolo fra posizioni coraggiose e quasi muscolari verso Jean Claude Juncker, che forse meritavano miglior destino di una nomina, più di prestigio che di peso reale, come quella di Federica Mogherini. Eppure è in Europa il premier sa di poter risolvere molti dei problemi italiani, rimuovendo almeno in parte i vincoli che ci strangolano.
Tutta chiari e niente scuri è, viceversa, la gestione del Pd: la Ditta identitaria non esiste più, il partito novecentesco che scaldava il cuore dei vecchi militanti, ma che era scudo a chiunque non avesse lo stesso Dna, è svanito. Più che sdoganare il Nazareno, Renzi ha sdoganato gli altri Italiani che oggi lo possono votare. E questo è un merito storico.
Voto: 6/7.
Matteo Salvini. S’è emancipato rapidamente dal suo padrino politici, Roberto Maroni, rompendo gli accordi di ripartizione che vedevano lui in Via Bellerio, Bobo governatore lombardo, e Flavio Tosi candidato nazionale al prossimo giro. Ha rotto ma senza rompere pubblicamente e, dando alla vittoria delle europee una forte connotazione personale, ha impedito agli altri di formulare denunce plateali di slealtà. D’altra parte quelle elezioni sono state il suo capolavoro: Salvini ha saputo cavalcare la battaglia «no eurista» senza neppure pagare lo scotto di far eleggere il professor Claudio Borghi, che ne era il simbolo, ma lasciando che i capataz leghisti facessero incetta di preferenze e si prendessero i seggi a Strasburgo.
Ora il segretario vuole per sé la leadership del centrodestra e si gioca il tutto per tutto accreditandosi come leader nazionale e post-padano. Qui si parrà la sua nobilitate.
Voto: 7+.
Flavio Tosi. Ha mostrato una delle doti che, a un politico, non possono mai mancare: la capacità di adattarsi. Il sindaco veronese, viste sfumare le primarie del centrodestra l’anno scorso per il ritorno di B., non ha affatto ammainato la bandiera della sua fondazione «Ricostruire il Paese», e ha stretto accordi con Maroni e Salvini par mantenere il suo diritto a riprovarci. Nemmeno la vittoria del segretario alle europee, con la disdetta delgli accordi intrapadani che ne è seguita, hanno indotto Tosi a cambiar programma. Anzi, da Verona, il sindaco ha continuato a tessere la sua tela di rapporti per costituire un soggetto politico moderato, capace di aggregare centristi e destre non antisistema, nella convinzione che l’Italia non sappia pensare populista.
Voto: 6+.
I PEGGIORI
Pier Luigi Bersani. Aveva promesso di non abbandonare la nave dopo la non-vittoria del 2013: sarebbe rimasto da mozzo, anziché da comandante. L’anno che si chiude mostra però che il ponte su cui ha scelto di faticare non è l’ammiraglia democrat ma una corazzata di Kronstadt del 1921, di quelle della rivolta dei marinai ultrabolcevichi che si ribellarono a Lenin, tanto che dovette andare Troskji a farli ragionare. A cannonate.
Bersani non ha mai smesso un secondo di contestare il suo segretario, ossia Renzi, come lui non avrebbe mai tollerato quando era al Nazareno. E il fatto che, alla fine, abbia votato sì ai provvedimenti governativi che avversava pubblicamente non è un attenuante: lo ha fatto solo per evitare un voto anticipato che sarebbe costato caro ai suoi, in termini di ricandidature.
Un’opposizione inutilmente dura che però non aggrega e non costruisce: a coagulare il malcontento, a raccogliere le macerie della Ditta ci pensa Civati.
Voto: 4.
Renato Brunetta. Col suo Mattinale, il notiziario quotidiano di Forza Italia che governa personalmente, ha distillato ogni giorno veleni contro Renzi e il suo governo e contro i fratelli separati, ormai neppur più cugini, del Ncd ma, alla fine, il falco azzurro Brunetta ha svolazzato inutilmente su Palazzo Grazioli: alla prova dei fatti il Cavaliere non lo ha ascoltato mai, provvedendo ad aggiornamenti regolari del Patto del Nazareno.
I fatti hanno dimostrato che un Denis Verdini calante conta sempre più di lui.
Voto: 4.
Susanna Camusso. È andata alla guerra del Jobs Act con metodi e parole d’ordine del novecento, facendo persino passare Maurizio Landini per un moderno e pragmatico sindacalista. Anziché sfidare il premier sul terreno dell’innovazione politica, cogliendo l’opportunità che la crisi e l’incalzare dell’Europa poneva, la segretaria Cgil ha scelto di recitare un copione vecchio e perdente, culminato in uno sciopero generale addirittura successivo all’approvazione della legge che si contestava.
Un anno in cui la Camusso s’è fatta trovare esattamente dove Renzi la aspettava e desiderava che fosse, non capendo che l’unico modo per metterlo in difficoltà è sorprenderlo, uscendo dalle parti che lui accuratamente assegna.
Voto: 3.
Rosario Crocetta. Ormai giunto al versione «ter» della sua giunta regionale, l’ex-sindaco di Gela, dopo tante prove muscolari sopratutto verso il Pd, il presidente siciliano ha dovuto accettare l’invio di un supertecnico di fiducia di Renzi e Graziano Delrio, l’ex Ernest Young Alessandro Baccei, assessore all’economia, per provare a governare i conti. A rendere più paradossale il suo secondo, fallimentare, anno di governo, l’idea di fare della sua lista personale, il Megafono, un nuovo partito nazionale, con apertura di una prima sede a Firenze.
Voto: 3.
Massimo D’Alema. Un anno orribile, per il Lider Maximo, culminato nella inaudita contestazione al corteo cgiellino di Bari.
Un anno in in cui, più che la mancata nomina a commissario europeo in sé, ha fatto scalpore la mancanza di una rete di relazioni internazionali che contassero: sarebbe infatti bastato pochissimo, stante la oggettiva debolezza della futura Lady Pesc, imporre a Renzi un altro candidato. Non si è mosso niente, a impietosa dimostrazione che l’Ulivo mondiale, gli anni alla Farnesina e a Strasburgo e all’Internazionale socialista, sono un pallido ricordo. Più che la rottamazione renziana poté infatti l’oblio continentale.
Sul piano dello stile poi, di questo 2014, resterà il ricordo della direzione piddina di settembre, quella che discusse il Jobs Act, con l’inusuale spettacolo di una sua arrabbiatura pubblica, per giunta in diretta su YouDem.tv. Un momento di debolezza che il D’Alema dei tempi migliori non avrebbe mai tradito.
Voto: 2.
Stefania Giannini. Come segretario di Scelta civica ha portato il partito ex-montiano al disastro delle europee e neppure la pronta offerta di dimissioni ha potuto cancellare questa disfatta. Con un aggravante: l’annuncio, da ministro stavolta, dell’abolizione del test di medicina, a poche settimane dal voto. Roba da far impallidire Achille Lauro, buonanima. E, sempre da ministro, non è riuscita a mettere il cappello sulla riforma della scuola, che è risultata un parto del premier. Un dicastero difficile, in un momento difficile certo, ma l’ex-rettora della Stranieri di Perugia rischia di passare alla storia politica come il ministro che meno ha contato quando più l’esecutivo è intervenuto sulla sua delega. A riprova di un deficit di personalità politica, la titolare del Miur non ha avuto il coraggio di rettificare l’improvvida uscita del suo sottosegretario, Davide Faraone, sulla bontà creativa delle occupazioni, meritandosi così il peggiore dei contrappassi: essere smentita dal sottosegretario stesso sui test di cui sopra.
Voto: N.C.
Beppe Grillo. Stanchino o no, l’anno 2014 di Grillo passerà alla storia del movimento come quello degli iperbolici proclami, «vinciamo noi», e delle fughe in massa di eletti e degli elettori. Nonché della clamorosa contraddizione del principio «uno vale uno», criterio basilare che aveva portato persino alla rotazione dei portavoce, con l’investitura del direttorio dei vice, formato da Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Roberto Fico, Carla Ruocco e Carlo Sibilia.
Voto: 5.
Ignazio Marino. L’inchiesta su «Mafia capitale» ha fatto capire che alcune rivolte delle periferie erano probabilmente costruite a tavolino e che certe critiche piddine-romane al suo governo non erano troppo genuine e dettate dal suo esser refrattario ai giochi di apparato.
Il sindaco però non può rifarsi una verginità a buon mercato, neppure essendo un bravo chirurgo: alle primarie che ne determinarono la candidatura, l’abbraccio di un certo Pd non lo schifò affatto. E il suo governo capitolino non ha brillato mai. Il Marino-bis, col quale doveva imbarcare personalità di rilievo e segnare una rottura col passato, s’è rivelato un rimpasticchio.
Voto: 5-.
Giorgia Meloni. L’anno che si chiude vede ancora ridursi il numero dei suoi Fratelli d’Italia: Guido Crosetto s’è rimesso a fare il manager e Gianni Alemanno è precipitato nel turbine «der Cecato». Ma la ex-giovane militante missina della Garbatella non può incolpare il fato: c’è il suo progetto politico che a mostrato tutti i suoi limiti e la sua leadership tutti i suoi errori, come quello, rinfacciatole dalla lombarda Viviana Beccalossi, d’aver lasciato a Salvini l’esclusiva italiana del lepenismo dilapidando un piccolo patrimonio della destra italiana. Jean Marie Le Pen, in Italia, conosceva solo Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, sua figlia invece non ha occhi che per «Matteó».
Voto: 5.
Nichi Vendola. Un patrimonio politico sperperato, eroso lentamente come un castello di sabbia sulla spiaggia di Polignano a Mare (Ba), quando s’alza lo scirocco. Dalla sua prima elezione a governatore, quasi 10 anni fa, una narrazione via l’altra, Vendola ha consumato la sua immagine e azzerato un intero partito. Opera cominciata l’anno precedente, per mano grillina e, in misura minore, ingroiana, ma certo completata nel 2014, con la prima consistente diaspora parlamentare. E non ancora terminata, tanto per quanto si speri nell’importazione dei brand Tsipras e Podemos.
Voto: 3.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 31/12/2014