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 2014  dicembre 28 Domenica calendario

CAPELLO, DALLA SCRIVANIA AL CAMPO PER RICREARE IL GRANDE MILAN

CAPELLO, DALLA SCRIVANIA AL CAMPO PER RICREARE IL GRANDE MILAN -
E’ una regola della storia: a un periodo di rivoluzione e di cambiamento ne succede sempre uno di restaurazione. In termini più prosaici si può dire che dopo, il fuoco e l’incendio, arriva l’acqua e la situazione ritorna com’era prima. E’ quello che accadde al Milan all’inizio degli anni Novanta. Il furore tecnico e psicologico di Arrigo Sacchi durò la spazio di quadriennio, dal 1987 al 1991, e poi anche il Robespierre di Fusignano dovette farsi da parte, la sua forza propulsiva essendosi ormai esaurita e avendo, anzi, provocato non pochi malumori all’intero dell’ambiente. Il primo ad accorgersi della rivoluzione che era giunta all’epilogo fu Silvio Berlusconi che, con cinismo imprenditoriale, brigò per mandare Sacchi sulla panchina della Nazionale (al posto di Azeglio Vicini) e scelse per il nuovo corso rossonero un uomo che, fino ad allora, non aveva avuto esperienze da allenatore di alto livello: Fabio Capello. Fu una mossa astuta ed efficace: il Milan, più o meno con lo stesso gruppo di giocatori, tornò a vincere e Fabio Capello s’impose come uno dei tecnici più concreti del calcio italiano.
UN AMBIENTE SERENO A parlare per lui ci sono i successi con il Milan, ma anche quelli con il Real Madrid (in due momenti diversi), con la Roma e con la Juventus prima di iniziare l’avventura come selezionatore di nazionali, e quando un allenatore vince ovunque significa che gran parte del merito è suo, non soltanto dei giocatori. Al Milan, ad esempio, gli consegnarono una squadra che molti definivano «bollita». Stanchi e logorati dai metodi di Sacchi, si pensava che Baresi e compagnia non avessero più energie. Capello, per riaccendere il fuoco, utilizzò una tecnica antica: calmò l’ambiente, lo rasserenò, evitò di alzare i toni, mise ogni giocatore nel proprio ruolo e concesse libertà. Ne nacque una cavalcata fantastica: il Milan vinse lo scudetto in carrozza, 22 successi, 12 pareggi e nessuna sconfitta. Squadra di marziani. E agli inguaribili nostalgici, quelli che si schieravano con Sacchi e contro Capello, era sufficiente mostrare qualche numero per tacitarli: 74 gol realizzati e soltanto 21 subiti, Van Basten capocannoniere del torneo con 25 reti. Basta così?
UNA MACCHINA PERFETTA Capello non vendeva fumo, ma faceva risultati: ne inanellò 58 positivi di fila, un record. E sempre con il suo modulo di riferimento, il 4-4-2. La difesa era un bunker con Tassotti, Costacurta, Baresi e Maldini a far la guardia alla porta di Sebastiano Rossi. A centrocampo le geometrie di Albertini e la potenza di Rijkaard, sulle fasce l’estro Donadoni e la cavalcate di Gullit, e là davanti Van Basten e Massaro. E quando Van Basten fu costretto a fermarsi per i guai alla caviglia, ecco che Capello dimostrò di essere un abilissimo stratega: non aveva un sostituto all’altezza, non c’era al mondo uno come l’olandese, e allora l’allenatore pensò di rinforzare il centrocampo con Desailly e lasciò a Massaro il compito di dare fastidio alle difese avversarie. Ne nacque un Milan meno spettacolare e più sparagnino, segnava un gol e si difendeva, vinceva le partite 1-0, pochi fronzoli, tanta sostanza. In rossonero Capello conquistò quattro scudetti e raggiunse per tre volte la finale di Coppa dei Campioni vincendone però soltanto una. Ma che successo, quel successo: Atene 1994, di fronte il grande Barcellona guidato Johan Cruijff. Parevano spacciati, i rossoneri, contro il genio di Romario e l’abilità di Hristo Stoichkov, e invece diedero un’autentica lezione di calcio: 4-0. Quel Milan era una macchina perfetta.
UN’IMPRESA CAPITALE Chiusa l’avventura in rossonero si trasferì in Spagna, al Real Madrid, chiamato dal presidente Lorenzo Sanz. I blancos attraversavano un periodaccio, erano fuori dalle coppe europee, il pubblico fischiava. Capello, con pragmatismo italiano, costruì una squadra che sapeva stare sul campo, attaccava e difendeva compatta e, alla fine di una stagione entusiasmante, nonostante gli spettatori non amassero il suo calcio poco bailado, vinse il duello con il Barcellona e conquistò la Liga. Poi salutò tutti e tornò al Milan, la sua famiglia. Ma questa volta sbagliò, perché il ciclo d’oro era finito e la miniera era stata prosciugata. Siccome, tuttavia, l’uomo amava le sfide, eccolo tornare sul palcoscenico, dopo un anno sabbatico. Accettò l’offerta della Roma, ben sapendo a che cosa andava incontro: allenare i giallorossi era un’impresa, vincere una specie di illusione. Lui seppe trasformare il sogno in realtà: nella primavera del 2001 portò il tricolore nella capitale. E, considerando che la Roma di scudetti ne ha conquistati soltanto tre nella sua storia, quest’impresa va inserita nel Guinness dei primati.
ESPERIMENTO RIUSCITO Si dirà: aveva una squadra di fenomeni, da Totti a Batistuta, da Cafu a Samuel, e i «panchinari» si chiamavano Montella e Nakata. Obiezione accolta, ma quella Roma lui seppe forgiarla con l’esperienza di un orafo e guidarla con fermezza in mezzo alle inevitabili tempeste stagionali. Pur essendo da sempre un amante della linea a quattro in difesa, nel periodo giallorosso sperimentò la retroguardia a tre. E a chi chiedeva a gran voce l’utilizzo di Montella nel trio d’attacco, assieme a Totti e Bati-gol, lui rispondeva schierando quasi sempre Marco Delvecchio, la sua coperta di Linus: dava equilibrio a tutta la sua creatura ed evitava che entrassero spifferi quando gli altri attaccavano. Qualcuno sosteneva che i suoi fossero metodi da sergente di ferro, e forse è vero, ma dite voi se a Roma un altro avrebbe potuto fare meglio. Difficile, praticamente impossibile.