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 2014  settembre 28 Domenica calendario

MALESIA, IL BUSINESS DELL’ORO ROSSO CHE SFAMA E MINACCIA IL PIANETA

Irwan da otto anni guida il suo bufalo tra le file ordinate di palme nella piantagione della United Plantation a Teluk Intan, località a tre ore di auto a Nord di Kuala Lumpur affacciata sullo stretto di Malacca. Per 1800 ringit al mese (circa 450 euro) raccoglie i grandi frutti pieni di bacche rosse della palma da olio fino al carro che li trasporterà alla spremitura.
Dalla lavorazione all’export
Da lì, dopo la lavorazione e la raffinazione, l’olio dal colore rosso acceso della palma malese prenderà la via dell’export per diventare un ingrediente fondamentale di molti prodotti di uso quotidiano in Occidente come in Cina e India. Dai biscotti ai saponi, dalle creme di bellezza fino a gelati, margarina, noodle e piatti pronti. Secondo una stima del Wwf, circa la metà dei prodotti venduti in un normale supermercato europeo contiene olio di palma. Da qualche giorno sappiamo anche con esattezza quali, dato che una direttiva europea impone, da dicembre, l’indicazione nelle etichette del tipo di grasso utilizzato al posto del precedente, generico «olii e grassi vegetali». Come molti dei lavoratori nell’industria malese della palma, Irwan è emigrato dall’Indonesia. Ma a differenza di tanti suoi connazionali può ritenersi fortunato. La United Plantation, che con 1,2 miliardi di euro di capitalizzazione di Borsa è una delle principali realtà del settore, garantisce a tutti i suoi oltre 6 mila dipendenti alloggio, assistenza sanitaria qualificata e un salario equo. Le condizioni di lavoro nelle sterminate piantagioni di palma malese - che con l’Indonesia copre l’87% della produzione mondiale di olio di palma - non sono però la preoccupazione principale delle associazioni non governative come Wwf, Greenpeace e Flora and Fauna International.
Avvolti nel fumo
Lo sanno bene gli abitanti di Kuala Lumpur e di Singapore che, lo scorso anno, durante la stagione secca sono rimasti avvolti per giorni in una impressionante cappa di fumo causata dagli incendi appiccati nella vicina isola di Sumatra per deforestare selvaggiamente e avviare nuove piantagioni. Attualmente, l’olio di palma rappresenta il 30 per cento dei grassi alimentari utilizzati dagli abitanti del pianeta, secondo il rapporto Oilworld 2014.
Consumi in crescita
Con l’aumento della popolazione e il miglioramento delle condizioni di vita in molti Paesi in via di sviluppo, il consumo di grassi alimentari è destinato ad aumentare e l’olio di palma, grazie alla resa eccezionale dei suoi frutti rispetto ad altri oli come girasole, colza o soia, sarà ancora più presente sulle tavole del globo. Con conseguenze irreparabili, secondo le associazioni ambientaliste, sul patrimonio di flora e fauna della regione e sull’ecosistema dell’intero pianeta. «Ma la principale causa della deforestazione nel mondo sono gli allevamenti intensivi di bestiame, fonte principale di grassi alimentari nei Paesi più sviluppati», dice Yousif Basiron, amministratore delegato del Malaysian Palm Oil Council, l’associazione dei produttori.
La tutela dell’ambiente
Lo scontro è quello tra sviluppo e tutela dell’ambiente ben noto nell’agenda globale degli ultimi 20 anni. «Abbiamo il diritto di svilupparci - spiega Douglas Uggah Embas, ministro malese di Plantation Industries e commodities -. Quello che dobbiamo fare è bilanciare il bisogno della sostenibilità con quello dello sviluppo». E, assicura il ministro, «in Malesia lo stiamo facendo»: «Qui non esiste un olio di palma prodotto illegalmente», bruciando la foresta pluviale. Ma, prosegue, la volontà del governo è quella di diventare entro il 2020 un Paese completamente sviluppato e lo sviluppo passa anche attraverso l’olio di palma, che attualmente vale il 6% del pil malese e il 10% dell’export. L’obiettivo è di arrivare a 30 milioni di tonnellate di olio prodotto entro il 2020 dalle attuali 20 milioni di tonnellate. Come?
Il rischio per gli oranghi
Aumentando la produttività, certo. E deforestando. Lo dice chiaramente Alfred Jabu Anak Numpang, vice primo ministro dello stato malese del Sarawak con delega per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Il Sarawak, nell’isola del Borneo, è una delle aree più arretrate di un Paese la cui economia è fatta dall’export dell’industria meccanica e dall’elettronica. Ma è anche l’area più integra dal punto di vista ambientale, con l’81% del territorio ricoperto da foresta. Entro i prossimi sei anni la superficie coltivata sarà aumentata di un milione di ettari, prevalentemente a palmenti. «La coltivazione di palma permette ai piccoli proprietari di migliorare le proprie condizioni e di mandare i figli a scuola», dice il vicepremier nel corso di un incontro a Kuching, la capitale del Sarawak. Ma, assicura, lo faremo senza toccare la foresta primaria e tutelando le specie in pericolo come gli oranghi, i grandi primati che proprio nel Borneo e a Sumatra hanno il loro habitat esclusivo. Basta? E chi garantisce che sarà davvero così?
Tra impegni e controlli
Esiste un organismo, il Rspo, che riunisce le Ong ambientaliste e i grandi acquirenti di olio di palma - come Unilever, principale «consumatore» mondiale, o l’italiana Ferrero - e certifica la produzione di olio di palma sostenibile come quella della United Plantation dove lavora Irwan. I suoi criteri, estremamente stringenti, sono applicati però in appena 1,2 milioni di ettari di palmeti malesi contro i 5,1 milioni totali. Molti produttori mal sopportano la rigida griglia di impegni e controlli - e i relativi costi - imposti dalle Ong, accusate apertamente di «voler impedire lo sviluppo del Sarawak» dal governo locale. E comunque, il mercato è il mercato e al di fuori dei Paesi occidentali la sensibilità per la salute degli oranghi è molto, molto relativa. I primi cinque importatori di olio di palma malese sono nell’ordine India, Cina, Unione europea, Usa e Pakistan. Nei primi due Paesi e nell’ultimo «l’interesse per le certificazioni è praticamente nullo», ammette un funzionario governativo.