Alessandro De Nicola, la Repubblica 29/12/2014, 29 dicembre 2014
CIO’ CHE L’EUROPA NON PUO’ FARE PER NOI
Ce lo chiede l’Europa” è una delle frasi più stantie ed insensate della “narrativa” politica italiana, soprattutto perché il risanamento finanziario e le riforme vanno portate a termine essenzialmente per noi, per condurre l’Italia fuori dalle secche del declino economico in cui si dibatte da oltre 20 anni e non essere puniti dai mercati (che non sono la Spectre ma gli investitori, nostrani e stranieri, cui il Belpaese chiede soldi in prestito o in conto capitale).
Da quando si è insediato il governo Renzi, però, il registro è un po’ cambiato ed è l’Italia che ha cominciato a “chiedere all’Europa”.
Prendiamo il famoso piano Juncker che dovrebbe rilanciare l’occupazione e la crescita nel Vecchio Continente e che il nostro premier “pretendeva” in cambio di un bilancio pubblico in ordine. Il piano prevede 315 miliardi di investimenti in Europa, ma sarebbe sbagliato pensare ad una dote di tale entità messa sul piatto dall’Unione europea. In realtà Bruxelles intende investire “solo” 21 miliardi attraverso la Banca europea degli investimenti. Non si tratta però di denaro “fresco”, ma in gran parte di un dirottamento di fondi già stanziati per altri programmi (8 miliardi) o nelle disponibilità della Bei (5 miliardi) che verranno indirizzati a favore del Fondo strategico europeo per gli investimenti (Efsi). Questi 21 miliardi dovrebbero generarne 63 grazie ai finanziamenti dalla Bei e arrivare a 315 attraendo investimenti sia privati che degli stati membri; il tutto dovrebbe accadere in 3 anni, sebbene la Commissione prometta che i progetti saranno vagliati in modo molto severo.
Peraltro, se prendiamo il programma più consistente dell’Unione europea, Horizon 2020, nato per favorire le partnership pubblico-privato sulle tecnologie, la Commissione dichiara che in «sette anni, il contributo europeo di 8 miliardi mobiliterà 10 miliardi dal settore privato e 4 miliardi dagli Stati Membri». Capito? Sette anni per far sì che il settore privato contribuisca meno della metà di quanto faranno la Ue e i governi. Lontani anni luce da quanto si stima per l’Efsi.
Inoltre, è vero che gli investimenti pubblici, come ha ribadito anche recentemente il Fondo monetario internazionale, possono avere effetti positivi sulla crescita del Pil ed incoraggiare quelli privati e la produttività generale (è facilmente intuibile che un’autostrada che unisce un’area industriale ad un porto, aumenta la produttività e magari stimola l’iniziativa privata per costruire stazioni di servizio… salvo che non finisca come la BreBeMi).
Tuttavia, non si deve dimenticare che l’investimento pubblico deve essere giudicato secondo un metro di costoopportunità: i soldi che vengono spesi per un aeroporto pubblico sono sottratti all’investimento o al consumo privato. Quanto deve essere redditizio l’investimento? Non c’è accordo tra gli economisti: ad esempio il Nobel Arrow parla di una forchetta tra l’1 e il 7% l’anno. Burgess e Zerbie pongono l’asticella più in alto, al 6-8% l’anno. Né c’è unanimità di consensi relativamente al rapporto tra investimenti pubblici e crescita economica e, per quanto riguarda l’Italia, domina un po’ di scetticismo.
Su alcuni punti si è sviluppata una certa concordia tuttavia. Il primo è che gli investimenti in infrastrutture sono più redditizi nei Paesi in via di sviluppo che in quelli avanzati (e, nonostante tutto, l’Italia ancora appartiene al secondo gruppo). Il secondo è che finanziare gli investimenti a debito è più efficiente che attraverso nuove tasse, salvo — avverte il Fondo monetario internazionale — in caso di situazioni di mercato avverse che possono verificarsi in Paesi «con un rapporto debito pubblico-Pil già alto o dove i profitti sugli investimenti in infrastrutture siano incerti» al punto che potrebbero alzare il costo del finanziamento e aumentare ulteriormente il debito pubblico (vale a dire la situazione dell’Italia, che quindi difficilmente potrà contribuire più di tanto ai progetti europei che la riguardano, a meno che non tagli la spesa pubblica). Il terzo è che gli investimenti senza una preventiva analisi costi-benefici, attuati malamente e per fini politici possono essere anche peggio della spesa corrente. Orbene, benché l’obbligatorietà della valutazione economica costi-benefici dei progetti di investimento da parte delle amministrazioni centrali sia stato tradotta normativamente nel decreto legislativo 228/2011, e nel Dpcm (3 agosto 2012), essa non è stata ancora attuata e anche i progetti presentati dall’Italia per partecipare all’assegnazione dei fondi del piano Juncker risultano privi di tale analisi. D’altronde, con una spesa in infrastrutture non troppo dissimile da Francia e Germania, l’Italia è al 53mo posto del Global competitvness index per qualità delle stesse.
Riassumiamo: ciò che abbiamo reclamato a gran voce dall’Europa è un piano dai risultati benefici sull’economia incerti, in cui ci sono solo 21 miliardi sicuri e, rappresentando l’Italia 1/8 del Pil Ue sarà fortunata ad averne assegnati 2,5 (ma da dove vengono i soldi europei? Dagli Stati Membri! Quindi una partita di giro o quasi). Il piano si basa su una previsione di co-finanziamento di privati e governi nazionali abbastanza fantasioso cui comunque l’Italia, visto il peso del debito pubblico, non potrà contribuire più di tanto, sempre ammesso che i suoi progetti, non preventivamente valutati, vengano accettati e poi realizzati (solo quest’anno rischiamo di perdere 14 miliardi di fondi comunitari).
Fotografia un po’ pessimista? Può darsi. Ma non siamo di fronte a quel #cambiareverso che ci era stato promesso. Nemmeno con l’Europa.