Paola Mastrocola, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014, 28 dicembre 2014
ADDIO PRINCIPE AZZURRO
Abbiamo insegnato ai nostri figli, il 31 ottobre, a festeggiare Halloween. Che bravi siamo stati! Ci siamo riusciti, ora la festa ha preso piede, è entrata in pieno nella nostra società, fa parte della nostra vita. Ora il 31 ottobre abbiamo anche noi la fortuna di vedere per le strade frotte di bambinetti mascherati e festosi, come nei film americani.
Ma noi italiani facciamo ben di più: li accompagniamo. Li portiamo in giro noi, per le vie della città, i figli e gli amici dei figli. Fino a mezzanotte andiamo a spasso a fare «Dolcetto o scherzetto» con i nostri bambini, dopo averli bardati da teschio, strega o pipistrello.
Noi li accompagniamo! Cioè, noi accompagniamo questa ulteriore, demenziale, commerciale festa del nulla. E spesso anche noi, perché i nostri figli non si sentano soli, perché ci percepiscano sempre di più come complici e amici e meno che mai come genitori, ci travestiamo come loro da mostri infernali d’oltretomba, vampiri e cadaveri viventi.
Una volta usavamo mettere un piatto di castagne a tavola, la sera dei morti. Un piatto di castagne destinato ai nostri cari defunti, nella speranza che quella notte, chissà, magari venissero a trovarci. E poi andavamo a letto, in silenzio, pensando a loro, ricordandoli nelle preghiere.
Una volta andavamo anche al cimitero con i nostri figli, il giorno dei morti. Ce li portavamo dietro anche se erano piccoli, perché i nostri genitori avevano portato noi, fin dall’infanzia, a mettere un fiore, a sostare un po’, davanti alle tombe dei nostri cari. Non avevamo paura che i nostri figli s’intristissero o si turbassero: pensavamo che la vita è così grande da contenere, e proteggere, anche i loro turbamenti.
Una volta insegnavamo il culto dei morti, ai nostri figli, non il culto di una zucca vuota.
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C’è la proposta, in certi Paesi europei, di togliere i Principi azzurri dalle favole. Di colpo, li considerano politicamente scorretti. Non va bene, dicono, che alle bambine di oggi arrivi il messaggio che ci si innamora sempre e soltanto di un Principe azzurro, e non ad esempio di una Principessa azzurra; e che l’unico sogno possibile sia sposare un giorno un principe. Che ristrettezza mentale, che arretratezza da pre-femminismo!
Mi dispiace molto per i Principi, che da ora in poi se ne andranno raminghi con i loro cavalli bianchi e i mantelli azzurri al vento.
In quanto al sesso (pardon, al genere) dei futuri fidanzati delle nostre figlie, mi piacerebbe che riuscissimo a sorvolare, o almeno a non entrare tanto nei dettagli.
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«Mi piace».
Clicco e invio che mi piace.
Cosa mi piace, e perché? E se mi piace, cosa ne consegue? E dove mi porta questa mia adesione? E adesione a chi?
I perversi e sottili meccanismi dei social network...
Facciamo le cose per piacere agli altri. Lo abbiamo sempre fatto, d’accordo, ma adesso è smaccato, spudorato. Quel che diciamo e pensiamo, le frasi che scriviamo, i libri, le opinioni, le foto che scattiamo, le feste a cui andiamo, le persone che amiamo... Tutto è per ricevere consensi, perché il maggior numero di persone clicchi il famigerato «Mi piace».
Siamo per piacere.
Una volta non osavamo dire che un ragazzo ci piaceva. E le foto più amate, le poesie preferite, erano il nostro patrimonio personale e segreto, da condividere con due o tre amiche al massimo, non di più. Avevamo l’idea di un’intimità, di un riserbo.
Avevamo anche l’idea di una responsabilità: quando, solo con le persone giuste e al momento giusto, arrivavamo a dire che una cosa o una persona ci piaceva, eravamo consapevoli che quell’affermazione avrebbe avuto conseguenze di cui noi eravamo pronti ad assumerci la responsabilità. Ne rispondevamo, ecco. Sapevamo che qualcuno ce ne avrebbe chiesto conto, e che noi ne avremmo dovuto rispondere. Sì, mi piace. Lo dicevamo apertamente e andavamo fino in fondo. Ma il nostro «Mi piace» era unico, non lo sparpagliavamo a centinaia di persone anche sconosciute, non lo davamo in pasto a chicchessia, perché era troppo prezioso, aveva un senso, e di quel senso (il senso della vita, del mondo) noi personalmente ci facevamo garanti.
Così era, al tempo in cui non c’erano i «Mi piace». Ma oggi i clic contano più di ogni altra cosa. Contano i followers, i voti: in una parola, il consenso. Nello spettacolo così come a scuola, o in politica. Facciamo ciò che agli altri speriamo possa piacere. Facciamo (o diciamo di fare) per essere votati, non per fare davvero le cose, e bene, e per il bene degli altri, o del Paese in cui viviamo.
«Non siamo più un popolo di votanti», ha detto De Rita in un recente articolo: siamo un pubblico.
Un enorme, gigantesco Pubblico di fronte a uno Spettacolo perpetuo.
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Una volta si parlava ai posteri. I poeti antichi non si curavano di piacere ai propri contemporanei, perché erano sicuri che l’opera andasse oltre, anzi, che fosse destinata unicamente alle genti ancora da venire.
Non importava non essere capiti nel proprio tempo, anzi, era scontato. Si parlava agli altri, a quelli che sarebbero venuti dopo. Petrarca scrisse una lettera direttamente a loro, ai posteri, per far prima.
Si aveva una incrollabile fiducia nella poesia, il cui fine era eternar le genti, rendere immortali gli eroi, nonché i loro cantori. Quando Eurialo e Niso muoiono, Virgilio se ne esce con quella sua incredibile affermazione: «Fortunati entrambi! Se qualche potere posseggono i miei versi, mai verrà giorno che alla memoria del tempo vi sottragga, finché i discendenti di Enea la rupe immobile del Campidoglio domineranno e il padre dei Romani avrà impero sul mondo!». Certo, fortunati Eurialo e Niso che, morendo da eroi, hanno trovato il poeta che li ha resi eterni. Ma fortunato anche quel poeta, che infatti continuiamo ancora oggi a leggere nelle scuole...
Non omnis moriar, diceva Orazio. Essendo poeta, avendo scritto quel che ho scritto, «non morirò tutto», qualcosa di me rimarrà: così pensava. E non perché ritenesse meravigliosa la sua opera, ma perché riteneva immortale lei, la poesia.
Oggi invece scriviamo nella totale consapevolezza di non durare. Anzi, di non esistere proprio. E nella paura quotidiana di perdere i file, o che le macchine a un certo punto si rompano, gli schermi si spengano, l’hard disk si svuoti. Siamo sempre sull’orlo dell’abisso. Prossimi a cancellazione. Siamo consapevoli che ciò che scriviamo si perderà all’istante o quasi, si dissolverà nell’aere come cenere. Si pubblicano troppi libri; e se è certo che la pletora dei minimi sparirà, non è detto che i (pochi?) grandi resteranno (ma chi è grande e chi è minimo?). Una volta pubblicare un libro era l’assicurazione non dico per l’eternità, ma almeno per una durata, lunga o brevissima che fosse; oggi i libri non durano, al massimo girano un po’ per il mondo, poi si spengono. Come le stelle.
Non abbiamo più il pensiero dei posteri, non possiamo permettercelo. Noi moriremo con la morte fisica, nulla di noi oltrepasserà il tempo, perché nulla più resta. Nemmeno le cose più incorporee e spirituali come le idee, le poesie, le opere artistiche. Tutto, grazie al mercato, è subito scalzato da ciò che segue, da ciò che è più nuovo, e poi quel nuovo dal più nuovo ancora. E tutto, grazie alla tecnologia, va a finire nell’inconsistenza nebulosa di qualche cloud computing.
Duriamo tutti lo spazio di un mattino.
Anche i nostri morti, sempre più, preferiamo disperderli in cenere nell’aria. Di questo passo, non avremo più neanche un luogo deputato al ricordo, com’era il cimitero.
Come faremo ancora a crederci eterni?
Temo che abbiamo dismesso l’eternità simbolica legata all’arte e alla memoria, e abbiamo optato per un’eternità più concreta, più scientifica. Abbiamo deciso di credere, per esempio, in una vecchiaia che si prolunga oltre misura, nella donazione di organi, nella clonazione, nello schema del Dna che scrive all’infinito la vita dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli...
Va tutto bene. Mi sembrano solo illusioni più tristi.
Paola Mastrocola, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014