Franco Lorenzoni, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014, 28 dicembre 2014
MAESTRO DI PALCOSCENICO E VITA
Nel 1981, compiuti gli 80 anni, Eduardo De Filippo fu chiamato a tenere a Roma un corso di drammaturgia teatrale da Ferruccio Marotti, che aveva un’idea aperta dell’Università.
«L’uomo nasce vecchio e poi ringiovanisce tutta la vita, ci disse, perché la nascita è il punto di arrivo su questa terra e la morte il punto di partenza per quelli che vengono dopo. Anche se da giovani ci sentiamo la forza di far girare il mondo a modo nostro, non vi pare che la forza di miliardi di esperienze fatte da altri ci possano aiutare? Io sono convinto di sì. E sono convinto che persino per confutare un’esperienza del passato bisogna averla approfondita e persino amata. Se si usa la vita che continua, la tradizione, senza fermarsi al passato, essa ci può dare le ali. Se ce ne serviamo come un trampolino, salteremo molto più in alto che se partissimo da terra».
La prima lezione Eduardo ce la diede ascoltando per tre giorni con grande attenzione i brevi monologhi con cui noi studenti ci presentavamo alla selezione. Al termine rincuorò la platea di troppi aspiranti drammaturghi dicendo: «Forse tra voi c’è un solo drammaturgo o nessuno, perché non ne nascono molti in un secolo, ma se il teatro vi appassiona c’è posto per voi come comparse, attori, costumisti, attrezzisti, trovarobe». Non era ancora esplosa la moda della scrittura creativa, ma già circolava l’illusione che si potesse essere tutti artisti ed Eduardo, con fare sornione, ci metteva in guardia da quell’insopportabile dilatazione dell’ego che sarebbe esplosa nei decenni successivi.
Il teatro per lui era una comunità chiamata a fare da specchio alla comunità più vasta della città e, per compiere questa sua missione, aveva bisogno di tutte le arti e i mestieri, che dovevano sostenersi vicendevolmente. Quando il padre Scarpetta intuì le doti letterarie del figlio – ci raccontò un giorno – a me ancora adolescente diede due indicazioni: «Leggi tutto Guglielmo e vai per un anno ogni mattina in tribunale a seguire i processi penali». Eduardo seguì alla lettera i suggerimenti del padre capocomico e, in una delle sue più belle lezioni, ci raccontò nei minimi dettagli come alcuni personaggi delle sue commedie lui li avesse visti in carne e ossa in tribunale.
Del resto, soleva ripetere, gli accadimenti umani di rilievo sono meno di una quindicina: gelosia e ansia di possesso, eredità e paura della morte, vendetta, amore filiale, amore passionale... e dove, se non in tribunale, si assiste alla messa in scena degli esiti estremi a cui portano tali curvature del carattere umano?
Riguardo a Guglielmo, fece esercitare un gruppo di noi studenti un anno intero a scrivere la continuazione di Il mercante di Venezia di Shakespeare, intraprendendo quel corpo a corpo con un testo classico, premessa obbligatoria per sperimentare le proprie capacità drammaturgiche.
La struttura del dramma costituiva un’impalcatura imprescindibile nella sua idea di teatro. «Se hai un’idea, domandati se può durare tre atti o lascia perdere», ci diceva. Quando scrivi un dramma devi avere in mente l’intero svolgimento, ma dare l’illusione allo spettatore che è lui che sta costruendo la storia capendo tutto, senza fargli mai accorgere che invece sei tu che, piano piano, col cucchiaino lo stai imboccando.
Era così importante la consequenzialità geometrica nella composizione di una commedia, che un giorno lanciò un’invettiva contro coloro che smontano i testi teatrali. Voi dovete mettere in scena una tragedia di Shakespeare, non da Shakespeare. Io maledico per sette generazioni chi oserà cambiare una sola virgola di un mio dramma! Il rigore dello scrittore, in lui che era drammaturgo, primo attore e persino compositore delle musiche di scena, come Chaplin, si prolungava necessariamente nel rigore del regista. Così regalò a noi studenti la possibilità di assistere a tutte le prove di una commedia con Paolo Graziosi e Lina Sastri.
In una delle ultime prove fece una litigata furibonda con Paolo Graziosi. Aveva dimenticato una battuta ed Eduardo lo insultò davanti a noi studenti, dicendo che era un attore sindacale, uno che uscito dalle prove pensava ad altro, che non sognava la notte il personaggio, non si svegliava la mattina con il personaggio, non credeva in quello che faceva.
Restammo di stucco, imbarazzati da tanta foga. Poi, una volta che Paolo Graziosi uscì di scena, si rivolse a noi giovani spettatori esterrefatti sussurrando: «Tre giorni prima, litigata a morte con il primo attore, un giorno prima litigata a morte con la prima attrice... e lo spettacolo esce perfetto».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Franco Lorenzoni, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014