Carlo Carena, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014, 28 dicembre 2014
LA LASCIVA FIGLIA DELL’IMPERATORE
Cesare Augusto seppe costruire e reggere un impero comprendente quasi tutto l’orbe conosciuto, e non seppe governare la sua famiglia. Càpita. D’altronde se la creò e se la trovò tanto complicata che occorre una mappa per districarsi. Dunque, nipote di Giulio Cesare, egli sposò in prime nozze Clodia e in seconde Scribonia, già consorte di Cornelio Scipione, e in terze nozze Livia, già consorte di Druso Nerone, dal quale aveva un figlio, Tiberio, mentre Augusto aveva avuto da Scribonia una figlia, Giulia. Giulia sposò in prime nozze il giovane cugino Marcello e in seconde Agrippa, a sua volta già sposo di Pomponia la cui figlia Vipsania sposò Tiberio, che in seconde nozze sposò poi Giulia. Per completare il quadro dovremmo aggiungere una decina di altri nipoti e cugini discendenti per tutti questi e altri rami.
Nella tribù spiccano soprattutto due personaggi, due donne che l’animarono con le loro ambizioni e scontri ed ebbero un posto cospicuo nella storia e nel romanzo dell’impero romano: Livia e Giulia. La prima, scostante e frenetica per assicurare la successione al trono di Tiberio; la seconda altrettanto frenetica di avventure amorose, per le quali e come tale capace di fare increspare il ciglio a Tacito e di deliziare il pettegolezzo di Svetonio.
Augusto, conservatore, si era studiato bensì di allevarla come un’antica matrona che fila la lana; ma le sue avventure furono tali e tante che essa un bel giorno consacrò a Marte altrettante corone di quante volte si era abbandonata a diversi amanti nella notte precedente. Ciò che aggiungono Velleio Patercolo e Seneca rasenta l’irriferibile.
Ma si può anche rivedere o almeno sfumare questo ritratto acre e reinterpretare il personaggio con una prospettiva meno torbida e una sensibilità progredita, con passione e complici silenzi. Se ne scorgono molti elementi, ed è ciò che ha cercato di fare Giulia Sulpizi (nomen omen?) in Sotto il segno di Venere. Giulia: la figlia di Ottaviano Cesare Augusto.
La giovane Autrice si districa e naviga sicura nel mare tempestoso dello stato di famiglia del primo imperatore di cui abbiano fornito solo un sunto parziale; delineando ampi o minuscoli ritratti e accompagnando la protagonista, che narra in prima persona, attraverso un tumulto di guai e lo smarrimento della solitudine; facendo emergere da quel covo di vipere una personalità ribelle e fiera, determinata, curiosa del mondo e desiderosa di scavarvi la sua parte di donna libera, triste nella sua solitudine e capace di tenere testa anche ai più grandi di lei, tormentata da un irrefrenabile bisogno di amare ancor più che di essere amata. Fedele quasi sino alla fine soltanto al padre, verso cui a dispetto di tutto conserva un affetto indomito, analizzato ripetutamente, in ogni circostanza saliente, e interpretato in modo ogni volta interessante e convincente dall’Autrice: dal momento in cui Giulia lo scorge per la prima volta, al tempo del divorzio da sua madre: «un giovane uomo biondo, con occhi azzurri e intensi, uno sguardo di ghiaccio, talmente freddo e implacabile che non riuscii a capire come molti potessero guardarlo negli occhi»; e poi nella maturità, quando Augusto sta invecchiando e in una suprema contraddizione persino lei, sua figlia, congiura per abbatterlo, ormai con i capelli grigiastri ma i suoi occhi ancora azzurri, "un insieme di debolezza e di forza, di serenità e tormento, di opposti".
Dapprima sono rappresentate l’infanzia e l’adolescenza irrequiete; poi i tre matrimoni a lei imposti dalla ragione politica, ma accettati e a loro modo felici i primi due, concluso il primo con l’improvvisa e precoce morte di Marcello, nipote e speranza stroncata di Augusto, celebrato da Virgilio nel sesto canto (tu Marcellus eris…) e da Ingres in una scena evocata anche dalla Sulpizi in una pagina sobria ma efficace. E tutto sommato felice anche il secondo matrimonio, con l’attempato generale Agricola, benedetto da numerosa prole. Spaventoso invece il terzo e breve con Tiberio, che Giulia aveva disprezzato e tradì come indegno, e che la ricambiò inasprendo le sue condizioni al confino sull’isola di Pandeteria nel mare Campano, dove era stata relegata e segregata dal padre stesso e dove ben presto muore, anche lei nel 14 d.C. poco più che cinquantenne, sfinita.
Può riuscire pleonastico il paragrafo su questo episodio nell’Io, Claudio di Robert Graves, ma serve a far risaltare per contrasto la netta prospettiva della scrittrice: «Tiberio aveva smesso di dormire con lei per tre ragioni: la prima era che Giulia, ormai non più giovane, stava ingrassando, e a Tiberio piacevano le donne sottili. La seconda era che Giulia si mostrava molto esigente, diventava isterica quand’egli si schermiva. La terza era che aveva scoperto che si vendicava della sue ripulse chiedendo ad altri ciò che egli le negava».
Romanzo invece, quello della Sulpizi, appassionato e ammirato, folto e ricco d’immaginazione, se non perfetto per infiltrazioni anacronistiche del discorrere odierno con i suoi stereotipi.
Giulia Sulpizi, Sotto il segno di Venere, Diabasis, Parma, pagg. 540, € 19,00
Carlo Carena, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014