Vittorio Giacopini, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014, 28 dicembre 2014
NEL LABIRINTO DEL 1960
Millenovecentosessanta: «L’Italia ringraziava George Marshall e il suo piano, e guardava con curiosità a quel che succedeva nel nuovo mondo, con le sue Marilyn Monroe e i suoi Marlon Brando, Elvis Presley, e John Kennedy. Arrivarono il rock’n’roll, il twist, il rhytm and blues ma anche il calypso e il cha cha...». Sempre in quello stesso anno, più o meno fatale (oltre alla scomunica dei blue jeans da parte del ministro di Grazia e giustizia Gonnella), sotto gli "occhi di pitone" di Giulio Andreotti si inaugurano in pompa magna i giochi della XVII Olimpiade, età moderna. Il giorno stesso della cerimonia d’apertura un C-45 Beechcraft dell’aeronautica militare decolla dalla base aera di Guidonia per un volo di prova sulle aspre lande del Lazio. Roma vista dall’alto, le campagne dell’agro e i rilievi, i fiumi e le marane, il mare. Un paio d’ore più tardi, l’aeroplano si schianta contro l’erta di Monte Pellecchia.
1960 di Leonardo Colombati prende le mosse da un incidente, da una coincidenza, per trasportarci nel cuore di un’Italia fantastica e in pieno mutamento, dove tutto si ingarbuglia e ogni cosa è e non è quel che sembra o appare. Tutto è intrigo. Con una notevole, invidiabile, capacità di miscelare fiction e storia, puntuale ricostruzione e invenzione di sana pianta, Colombati sceglie di raccontare una storia dove tutto è falso e tutto è stranamente vero, o sembra vero. Spie in ascolto dagli uffici di Palazzo Baracchini, spie infiltrate nelle centrali della Teti, informatori, emigrés, prelati, esoteristi, strozzini... «ognuno col suo pezzettino di informazione da dare in pasto al Servizio».
Mille storie si intrecciano e ogni storia converge nel disegno di una trama oscura. Al centro – ragno al centro di una fitta tela – il generale De Lorenzo (coi suoi automi: Colombati gli attribuisce la passione del temibile Federico Umberto d’Amato, il potentissimo responsabile dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, la spia-gourmet); tutt’attorno, una corte ben poco angelica di tirapiedi , barbafinte, intriganti, politicanti. E voci, bisbigli, poco provate indiscrezioni, grosse panzane. A partire da quell’aereo caduto in volo, e dai giochi in pieno svolgimento, 1960 segue – inventa – la vicenda, allarmante, di un possibile piano per rapire il presidente Gronchi (una bufala) e il tentativo, concreto per quanto pacchiano, di un golpe proprio da operetta (esoteristi di nuovo, e nostalgici di ogni tipo, reduci di Salò, reduci della XMas, contaballe, carabinieri). Certo è un gioco ma è un gioco serio. 1960 è un tentativo straordinario di raccontare un’Italia che era e fu evocando lo snodo che avrebbe potuto mutare – in peggio o in meglio? – tutto il corso della nostra storia.
Colombati è abilissimo a giocare su ogni livello. La sua scrittura – vorticosa e divertentissima – è anche una consapevole, molto colta, mai leziosa, operazione di abile montaggio. Nel romanzo – oltre alle spie, alle signore della Roma bene, agli spiantati, ai turisti, alle servette – appare tutta una folla di facce (e di firme) note. Lavorando su materiali d’archivio e di repertorio, ma bravo a metabolizzare ogni cosa e a non farlo vedere, Colombati mette in scena John Fante e Pasolini, Flaiano e Fellini, Ernest Bernhard, Arbasino, Elsa de Giorgi eccetera.
L’Italia, la Roma della Dolce Vita sono ancora lì e ormai già sono una preistoria. Altro che liete sere da Cesaretto, notti e albe al Caffè Rosati.
Ora è il tempo dei complotti, degli intrighi, della paranoia. Ora è il tempo del labirinto. Pynchoniana e postmoderna, la scatenata fantasia di Colombati continua ad accumulare strade, piste, vicoli ciechi, ma intanto, piano piano fa il vuoto, e apre al deserto. Ogni storia possibile, ogni sogno, ogni blanda utopia o illusione sono risucchiati verso il fondo, cupo, di un abisso, nel fetore di un pozzo nero. Ecco: il nodo, l’imbroglio, il mistero. La verità si cela nel Palazzo del Minotauro, una villa tronfia e borghese. Qui, abusivo, vive il dottor de Tremendiis, il malvagio, il torturatore (altro ragno dentro altra tela). Ma poi sono brividi da poco, storie – e canti – da un’estate dimenticata. Tutto è farsa. Anche il tragico, anche il male, anche l’indicibile. L’Italia è tutta una farsa; e in Italia tutto è una gran farsa.
Vittorio Giacopini, Domenicale – Il Sole 24 Ore 28/12/2014