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 2014  dicembre 28 Domenica calendario

ROMANO MONTRONI

[Intervista] –
Bologna non è più la vecchia signora dai fianchi un po’ molli. Indurita dalle vicende politiche, delusa da quelle culturali, sembra vivere una fase di declino. Vado a trovare Romano Montroni con questa sensazione addosso. Sembra un corazziere che mi attende sull’ingresso dell’Ambasciatori. La libreria bolognese della Coop che mescola cibo e lettura: gli spazi quasi equamente divisi. Sessanta per cento libro il resto food. Funziona? Domando. «Benissimo. Facciamo un fatturato di circa 8 milioni l’anno. Alla fine sono quattro e quattro». Leggo negli occhi di quest’uomo, che è stato a capo delle librerie Feltrinelli per più di 40 anni, una certa apprensione. E la crisi? Chiedo. «Qui si è fatta sentire meno che altrove», mi risponde. «C’è un po’ di cassa integrazione, ma niente licenziamenti». Montroni ha anche preso il posto di Gian Arturo Ferrari come direttore del Centro per il libro e la lettura. «La prima cosa che ho fatto», dice, «è stata quella di ridimensionare i costi eccessivi».
Montroni si definisce un uomo del fare. Un ottimista che crede nel fattore umano. Nel progresso. Nel miglioramento delle persone. Nella riconoscenza. «Non sarei nulla senza i libri e senza quella dose di fortuna che mi ha consentito di avvicinarmi ad essi», dice. Ha tra le mani un volumetto di Ezio Raimondi, mi legge le prime righe: «” Sono nato in una casa dove non c’erano libri, anche se vi entrava il giornale della città”. Pensavo le avesse scritte per me. Nella casa dove sono nato io, nel quartiere di Sant’Orsola, non c’erano libri. Per giunta non avevo nessuna voglia di studiare. Dunque l’incontro con quell’oggetto cartaceo, enigmatico e intimidente avvenne tardi. Quasi fuori tempo massimo. Ed è incredibile il modo generoso con cui mi ha trattato».
Parla dei libri come fossero delle persone?
«Lo sono, dentro vi scorre la vita. E come la vita, i libri sono a volte misteriosi. Non avrei mai immaginato che grazie a essi avrei scoperto la parte migliore di me. Se invece del libraio avessi fatto un altro mestiere — cosa del resto facilissima perché il mio destino era di finire in fabbrica — non dico che sarei diventato peggiore, ma di- verso sì. Non sono un intellettuale. Né uno scrittore. E quando penso a queste figure — Raimondi, Camporesi, Celli, Benni, Celati, Eco, tanto per fare dei nomi — ritrovo la gratitudine per le loro idee e le loro parole. E mi chiedo: chi sono stato veramente?».
Si è dato una risposta?
«Al netto di tutte le cose che posso dire, di un mestiere comunque bellissimo, resta l’impressione di aver creato dei legami di amicizia. Legami tra le persone e tra le persone e le cose. Se mi guardo indietro è questo che mi colpisce: non c’è storia che io conosca che non sia nata dai libri. Ne sono la prova vivente. Non sarei stato nulla senza la loro presenza».
Quando ha cominciato ad averne la percezione?
«Ricordo che da bambino ogni primo dell’anno, insieme ad altri amichetti, uscivamo alle quattro del mattino. Per le strade gelide di Bologna guardavamo quali erano le finestre ancora accese. Così davamo il buon anno. Alcuni ci accoglievano con una mancia o più spesso un bicchierino di Vov. Tornavamo a casa ubriachi. Ho appreso lì la grandezza e la gentilezza degli operai e degli impiegati. Lì, in quelle case umili ho visto le prime bibliotechine di libri. Modeste, certo, ma anche preziose. Non c’era la borghesia in quei quartieri, ma solo il popolo».
Sembra descrivere un altro mondo.
«Oggi verrebbe da ridere. Chi incontrerebbe più la vecchia e umile coppia capace di farti scoprire la bellezza della musica? Su un piano un po’ scordato lei suonava Mozart e Beethoven; lui spiegava certi passaggi e io ascoltavo con meraviglia quei suoni. C’era qualcosa di magico. La gente era semplice. Anche la politica. Mio padre, vigile urbano, era socialista. La domenica diffondevo l’ Avanti, in seguito, quando mi avvicinai al Pci, passai all’ Unità. La gente aveva fame di politica. Non la disprezzava. Sapeva cos’era».
Dove l’aveva imparata?
«Nelle sezioni dei partiti, nelle case del popolo, ma soprattutto nei bar. Qui in Emilia il bar è un’istituzione. Ho sempre pensato al bar come a un microcosmo dove accadono essenzialmente tre cose: c’è il “Don Giovanni” che parla delle sue conquiste settimanali; ci sono i maestri delle carte e del biliardo; e infine c’è la recita politica: i fatti accaduti e discussi con animosa partecipazione. Il bar è stato per me il luogo di formazione. La mia università. Poi è venuta la libreria».
Quando esattamente?
«Nel 1959. Alla Rizzoli di Bologna cercavano un ragazzo. Non sapevo cosa fosse un libro. Ne intuivo il fascino. E poi mi piaceva il posto: accogliente, bello, in pieno centro storico. Che conoscevo pochissimo. Fui assunto come fattorino. Avevo vent’anni. Nel giro di poco divenni magazziniere e poi commesso. Sono rimasto un paio di anni. Imparavo. Ma ero inquieto. Venni a sapere che un giovane editore milanese stava aprendo una catena di distribuzione con una filiale a Bologna».
E lei bussò.
«Bussai. L’editore era Giangiacomo Feltrinelli. Conoscevo i loro successi: Il dottor Zivago e Il Gattopardo.
In quel periodo facevo il servizio militare in aeronautica. Mi presentai a Milano in via Andegari, nella sede della Feltrinelli, vestito da aviere. In casa editrice conobbi Michele Ranchetti, un raffinato intellettuale prestato in quel momento alla distribuzione dei libri; Alba Morino che curava l’ufficio stampa; Tina Ricaldone segretaria di Giangiacomo, che era stata staffetta partigiana e infine Inge Feltrinelli, bellissima e seducente».
E Giangiacomo non c’era?
«No, non so dove fosse. La prima volta che lo vidi apprezzai la sua informalità. Girava per le librerie con la sua Citroën Ds. Notai questa figura di un’eleganza un po’ dimessa che scaricava pile di Dottor Zivago. Cominciai ad aiutarlo. Cosa fa stasera? Mi chiese. L’indomani sarebbe stato il Natale del 1962. Niente, risposi. Allora ci raggiunga al Don Lisander, brindiamo con tutti i dipendenti. Ricordo l’atmosfera gioiosa. E un particolare».
Quale?
«Erano appena usciti i primi due volumi dell’Adelphi. Festeggiammo anche quelli. Accompagnai un giovanissimo Roberto Calasso e Luciano Foà a comprare dello champagne. Nevicava. E sapevo che anche il mio breve periodo milanese stava finendo. Tornavo a Bologna. Tornavo per aprire la mia prima libreria Feltrinelli, a piazza Ravegnana, proprio sotto le Due Torri ».
Come fu quell’esordio?
«All’inizio tutt’altro che incoraggiante. Fu uno degli inverni più freddi che io ricordi. Inaugurazione bellissima. Ospite d’onore il sindaco: Giuseppe Dozza. In quella veste, di primo cittadino, c’era dal 1945. Sembrava Peppone: gioviale e duro. Ma a differenza del personaggio di Guareschi aveva saputo circondarsi di uomini di cultura che contribuirono a far rinascere Bologna. Dozza, con accanto Renato Zangheri, elogiò l’iniziativa. Ruvido ma incoraggiante. Ma la libreria non decollò. Dopo alcuni mesi ricevetti una lettera preoccupata di Feltrinelli. Fui convocato a Milano. Il conto economico era un disastro. Che fare? Balbettai un maggiore impegno. Giangiacomo mi guardò cupamente».
E che accadde?
«Mi disse: la soluzione è semplice. La libreria deve diventare il cuore della cultura bolognese. Mescolare idee e uomini. Se non fai questo chiudiamo. Ci venne l’idea di far diventare la libreria un luogo di incontro con gli autori. Oggi è prassi scontata. Ma allora rappresentava una novità. Ospitammo una serie di intellettuali importanti. Come lo storico Paolo Spriano, lo psichiatra Franco Basaglia e poi Giovanni Jervis. Venne anche Luce Irigaray che poi ebbe una storia molto bella con Renzo Imbeni. Insomma, fu un successo. La gente cominciò a rispondere. Furono anni incredibili. Di attesa e di sete di sapere. I libri stavano conquistando un posto che mai avevano avuto. Era il risvolto positivo dell’avvenuta industrializzazione, del boom, del consumo di massa».
La Feltrinelli, intendo la casa editrice, era sul confine critico di tutte queste cose.
«È vero. Nessuno ha mai sciolto questo nodo: critichi il mondo capitalistico, ma ne sei parte integrante. Del resto, fu anche un po’ la storia di Giangiacomo. Nato ricco, colto, timido. Posseduto dal sogno di un’eguaglianza e di una libertà sostanziale per tutti, cercò tutta la vita di ribellarsi ai suoi privilegi».
E vi riuscì?
«Posso dire che ci ha provato. La sua sofferenza, anche stralunata, è riconducibile a questo nodo mai sciolto veramente. È stato un italiano atipico».
A cosa pensa, quando dice atipico?
«Come editore non c’era nessuno come lui. Non parlo di bravura o di competenza. Parlo del suo bisogno di sentirsi accettato. Sapeva stabilire rapporti con tutti, alla pari. Senza gerarchie o formalità. Ai suoi occhi valevi per quello che facevi non per come nascevi».
Il ricordo della sua morte?
«Atipico anche in questo. Stavo tornando dall’Unione Sovietica. Era il 1972. Vidi sulla prima pagina del Giorno, che avevano distribuito sull’aereo, quella faccia a un tempo familiare e irriconoscibile. Capii che era lui. Si descriveva la morte anonima e deflagrante di quest’uomo. Fu terribile. Improvvisamente tornarono alla mente tutte le precedenti discussioni. Le incazzature che mi prendevo ogni qualvolta Giangiacomo mi parlava di politica. Ma quella fine aveva qualcosa di surreale e di feroce insieme».
La famiglia come reagì?
«Cosa vuole? Il figlio Carlo aveva dieci anni. Inge mostrò una concretezza straordinaria. Ci fu il funerale. Tra gli editori vidi solo Giulio Einaudi e Giulio Bollati. La tensione era al massimo. I fotografi avevano preso di assedio la famiglia. Noi librai facemmo un cordone di protezione. Poi tutto si sciolse con i canti partigiani e le bandiere rosse. Si annunciavano anni difficili».
Per la casa editrice?
«Per la casa editrice e per il paese. Ad ogni modo senza la presenza di Inge Feltrinelli, che già negli ultimi tempi ne aveva preso in mano le redini, non so se la casa editrice ce l’avrebbe fatta a resistere. Una mano non indifferente gliela abbiamo data con le librerie. Eravamo cresciuti. Eravamo un modello per tutti. E anche una buona fabbrica di profitti».
Il sentimento che mi sembra prevalere in lei è quello della riconoscenza.
«Non me ne vergogno. Non c’è nessun servilismo nella riconoscenza. La psiche umana spesso è strana. Reagisce in modo contrario a chi le fa del bene. A me non è accaduto e ne sono contento. Uno dei momenti più belli l’ho vissuto quando Inge mi chiamò per dirmi: abbiamo deciso di farti un regalo. L’automobile di Giangiacomo, la Citroën Ds, vorremmo che sia tu a prenderla. So che lui ne sarebbe contento».
Un dono rischia di essere un obbligo, un legame troppo forte.
«Ma io trovo bellissimo potermi guardare indietro e apprezzare le scelte di certe persone. Questo non mi ha impedito dopo più di quarant’anni di chiudere il rapporto con le librerie Feltrinelli e aprirne uno nuovo. Un’altra storia. Un’altra avventura. Certo gli editori non sono più quelli di una volta. Ma è così in ogni campo».
Quali ricorda con maggiore affetto?
«Vito Laterza, un gran signore. Che ha fatto tantissimo per la cultura italiana e non solo meridionale. Mi offrì il posto di direttore in casa editrice. Ma ero e resto un libraio. Livio Garzanti: geloso dell’altrui successo, malmostoso ma dotato di grande intuito. In uno slancio di generosità inattesa mi regalò un Rolex che mi rubarono in Brasile. Giulio Einaudi: un aristocratico dell’editoria. Capace di scoprire talenti e affrontare avventure rischiosissime. Fu abbattuto solo dai tassi d’interesse. Roberto Calasso: il suo libro L’impronta dell’editore contiene tutto il sapere e tutto l’amore che un mestiere del genere può esprimere. Ma forse la persona che più di ogni altra ho sentito vicina è stata Roberto Cerati».
Perché?
«Univa due cose rare, se viste insieme: la sobrietà del carattere e la competenza nella professione. Ecco, se c’è una persona alla quale avrei voluto somigliare è Roberto. Per me un maestro di vita. Capace di chiarirmi ogni dubbio. Einaudi parlando di lui diceva: è come il marinaio della corazzata Potemkin. Lui c’è sempre. Sì, era una leggenda. Le leggende aiutano. Ci rendono migliori. Ci fanno dire: qualcuno indica la strada, a noi il compito di seguirla».
Antonio Gnoli, la Repubblica 28/12/2014