Tim Arango, la Repubblica 28/12/2014, 28 dicembre 2014
USAID, IL KAMIKAZE RAGAZZINO CHE DISSE NO ALLA MORTE E ORA SOGNA DI FARE IL DOTTORE
Prima che la guerra sconvolgesse la sua città in Siria, Usaid Barho giocava a calcio, adorava i film di Jackie Chan e la musica pop libanese. Sognava di diventare medico. La sua vita ha subito una svolta, per usare un eufemismo. Una sera il quattordicenne Usaid si è avvicinato all’ingresso di una moschea sciita, ha aperto la giacca e ha mostrato alle guardie il giubbotto esplosivo che portava sotto, per poi arrendersi. «Ci hanno fatto il lavaggio del cervello, ci hanno convinti a unirci al Califfato», ha dichiarato il ragazzo successivamente in un’intervista presso la struttura segreta in cui è trattenuto dall’intelligence irachena. Usaid ha raccontato di essere stato reclutato nella sua città, Manfij, vicino ad Aleppo. «Mi hanno inculcato l’idea che gli sciiti sono infedeli e che fosse nostro compito ucciderli». Gli venne detto che, se non avesse combattuto, gli sciiti sarebbero andati a violentare sua madre. Una volta in Iraq, si rese conto che lo avevano manipolato e pensò alla fuga. Decise che la soluzione migliore era la defezione, una scelta rischiosa. Si offrì volontario come terrorista suicida per potersi consegnare alle forze di sicurezza irachene.
Nelle aree che controlla lo Stato Islamico ha istituito centri per l’addestramento militare e la formazione religiosa dei bambini, con l’intento di creare una nuova generazione di guerrieri. L’Onu ha pubblicato un rapporto sugli orrori inflitti ai bambini dall’Is. A Raqqa il gruppo militante ha radunato i bambini perché assistessero alla proiezione di video di esecuzioni e li ha costretti in altri casi a partecipare alle lapidazioni. Usaid racconta il suo percorso da un’infanzia non particolarmente devota a jihadista rinchiuso in un carcere iracheno. La sua è una delle rare testimonianze dirette di un soldato bambino dello Stato Islamico. Ora dichiara di essere stato plagiato, ma ammette che una mattina, invece di andare a scuola, prese la via di un campo di addestramento nel deserto. Per circa un mese seguì un programma militare, gli insegnarono a usare il fucile e ad assaltare un edificio. Due pasti al giorno, in genere formaggio e uova. Ben presto però si rese conto «che certe cose che vedevo non corrispondevano all’Islam». A casa aveva visto punire chi veniva sorpreso a fumare sigarette, ma al campo i combattenti fumavano. Racconta di rapporti omosessuali consumati dietro le tende, la notte. Dice poi che era sempre più sconvolto «per come uccidevano persone innocenti». Al termine dell’addestramento gli venne detto che lo volevano far combattere in Iraq. «Io mi offrii volontario come terrorista suicida», dice Usaid. Pensava che quel ruolo offrisse migliori possibilità di defezione. Dopo qualche giorno fu consegnato nelle mani di miliziani e nascosto. Trascorse una settimana a Falluja, in attesa. Infine giunse in un appartamento di Bagdad. Poi fu trasferito in un altro appartamento. A un tratto si sentì scuotere. «Svegliati, forza, è ora di indossare il giubbotto». Gli venne comunicato l’obiettivo: una moschea sciita nel quartiere di Bayaa. All’imbrunire, arrivò all’ingresso del luogo di culto. «Ho aperto la giacca e ho detto: ho un giubbotto esplosivo ma non voglio farmi saltare in aria». La scena successiva, in cui il ragazzo viene liberato dal giubbotto da un agente in borghese, è stata immortalata da uno dei presenti con il cellulare e il video è circolato sui social media.
Che ne sarà di Usaid ancora non si sa. Il ragazzo vorrebbe tornare a casa in Siria, ma le autorità irachene non hanno contattato i familiari. Sostengono di dover raccogliere ulteriori elementi. Usaid non ha rinunciato al suo sogno di fare il medico e spera di poter studiare in Turchia. Gli manca la mamma: «Prima della guerra eravamo una famiglia normale», dice. Il suo futuro dipende da come gli iracheni tratteranno il suo caso: lo considereranno un terrorista o una vittima di sfruttamento minorile? Qualche giorno fa la tv di Stato lo ha mostrato con indosso la divisa gialla dei carcerati. Ma l’ufficiale di intelligence che ha condotto l’interrogatorio del ragazzo ha dichiarato che si opporrà a ogni tentativo di processare Usaid. «Se mai il ragazzo verrà portato in tribunale noi saremo dalla sua parte, perché con il suo gesto ha salvato delle vite».
©2014 The New York Times
(traduzione di Emilia Benghi)