Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 28/12/2014, 28 dicembre 2014
«NOMOFOBIA» E «SVAPARE» ECCO LE PAROLE DI QUESTI 12 MESI
Una sola parola non basta, per fotografare il 2014 che se ne va. Non pensiate che «selfie» sia recente, fu usato per la prima volta in un forum australiano nel settembre 2002 ma è stato accolto nell’Oxford Dictionary solo l’anno scorso. Era dilagato sui giornali italiani il 31 agosto 2013: il giorno prima, un gruppo di giovani piacentini aveva fatto un allegro «autoscatto» con il Papa utilizzando un telefono cellulare. Da allora si parla della «generazione selfie» («generazione» è ormai ai primi posti tra le parole-prezzemolo). L’anno che si conclude rimarrà nei vocabolari, eventualmente, per aver inaugurato la «generazione belfie», l’«autoscatto» che si concentra non sul viso ma sul lato B. Verrà sicuramente la generazione «felfie» quando qualcuno deciderà di far circolare su Internet i propri piedi («feet») rendendone l’uso virale. Per il momento possiamo limitarci a dire che il 2014 è l’anno «belfie», e ognuno interpreti come vuole la passione di mostrare il posteriore.
Restando nell’ambito anglofono (e tecnologico), la «nomofobia» (no-mobile fobia) è una nuova nevrosi ossessiva che chiama in causa il dottor Freud: si tratta dell’ansia da sconnessione che subentra quando ti accorgi che non hai portato con te il telefono cellulare o quando, pur avendolo, ti trovi in una zona priva di campo. Sono queste le parole su cui si sofferma anche Simon Kuper sul Financial Times cercando di fotografare lessicalmente l’anno che sta per finire. Ma non esce dal gergo, per lo più ludico, del digitale. Ecco il «photobomb» (l’intrusione indesiderata nella fotografia di qualcun altro), il «lol», un acronimo di «laughing out loud» («ridere sguaiatamente» o «morire dal ridere»), lo «yolo» («you only live once», variante dell’oraziano «carpe diem»).
L’Oxford Dictionary intanto ha eletto parola dell’anno «vape» (niente a che fare con le zanzare: significa inalare vapore dalla sigaretta elettronica), che ha prodotto l’italiano «svapare», già registrato nello Zigarelli 2015. In Italia, se si esce dalla tecnologia, si torna su vecchi vocaboli che la cronaca (nera, gialla, rosa o bianca) recupera ricaricando di nuova vitalità: per esempio, non è un inedito la «bomba d’acqua», la cui perentorietà definitoria enfatizza come indomabile la violenza di ciò che un tempo si sarebbe detto un nubifragio. Dopo il «femminicidio», di recente le cronache hanno purtroppo riportato in scena il «figlicidio» . I lessicografi segnalano in ascesa «piazza», che dalla sfera metaforica virtuale, dove sembrava confinata da un po’, è tornata in auge nella tradizionale fisicità anche come luogo di protesta (da piazza Tahrir in poi). Stesso destino per le «periferie», rilanciate da un articolo di Renzo Piano («sono le città del futuro») e finite fra le tracce dei temi di maturità: se ha ragione il senatore a vita, di periferie sentiremo parlare a lungo e non solo, come è accaduto quest’anno, in relazione alle occupazioni, agli sfratti e alla presenza di migranti indesiderati. Non a caso papa Francesco, alludendo alla marginalità e alla povertà, ha parlato di «periferie dell’anima». Grande re-inventore di parole, Bergoglio, che a proposito dei morti in mare ha gridato alla «vergogna», parola nettamente in disuso se si eccettua l’ambito giudiziario, dove ogni sentenza viene definita una «vergogna» da chi la subisce.
Poi, in ordine sparso: l’«azzardo» (in alleanza o no con «gioco»), lo «schifo» con cui Matteo Renzi ha bollato lo scandalo romano, interpretando alla perfezione il pensiero dei milioni di indignati del Paese reale. «Paese» è la parola che prevale nettamente nei discorsi del nostro presidente del Consiglio, così come la «politica» contrapposta all’«antipolitica», condannata nei recenti interventi di Napolitano.
Se il «lavoro» sembra «svapare» nei fatti, rimane invece tra le parole più gettonate nei discorsi pubblici, magari mascherata nel «Jobs act» (nuova entrata dell’anno in funzione tecnico-fumosa) o preceduta dal passe-partout «riforma», vera regina del vocabolario istituzionale: riforma del Lavoro, certo, ma anche delle Pensioni, della Scuola, della Giustizia, della Sanità, della Costituzione o dello Stato, del Senato, delle Province, del Sindacato, del Titolo V, dell’Articolo 18, a scendere giù giù fino alla riforma della Rc Auto e del Condominio. Riformare tutto per non riformare niente, direbbe Tomasi di Lampedusa. Riformare «la qualunque». Eccola lì un’altra formula che si affaccia sul podio delle espressioni più gettonate nel linguaggio comune (e da talk show). «La qualunque», come il famoso candidato-sindaco Cetto di Antonio Albanese. Non ancora «qualunquemente» e «tra l’altramente», ma ci siamo vicini.