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 2014  dicembre 27 Sabato calendario

IL MEDICO ITALIANO SOPRAVVISSUTO A EBOLA: «TORNO IN AFRICA E DONERÒ IL MIO SANGUE»

Verso le dimissioni dopo un mese di ricovero in isolamento. «Così ho vissuto come i miei pazienti»
ROMA «Adesso sto bene, presto sarò dimesso. Il mio primo desiderio? Tornare in Sierra Leone. Quella terra ha fatto vibrare le corde più profonde della mia anima».
Già nelle prossime ore il medico di Emergency contagiato da Ebola durante una missione umanitaria potrebbe lasciare l’ospedale Spallanzani. Era stato ricoverato il 25 novembre in una stanza ad alto isolamento. La fase più critica il 6 dicembre, trasferito in rianimazione con i sintomi distruttivi dell’infezione. Emorragie, vomito, diarrea, febbre alta. Il virus stava per prendere il sopravvento. Poi il giro di boa, il recupero, la convalescenza. Mancano i risultati delle ultime analisi per confermare la fine della contagiosità. Fabrizio Pulvirenti, l’infettivologo catanese in forze all’Umberto I di Enna, ha raccontato la sua esperienza in una lettera all’associazione fondata da Gino Strada: «Non sono un eroe, ma un soldato ferito». Ieri ha risposto alle domande del Corriere .
Cosa significa vivere Ebola da paziente dopo aver visto tante persone morire?
«Sperimentare il morso della febbre, provare sulla propria pelle il malessere e la confusione di cui sono stato tante volte spettatore. Significa guardarsi allo specchio e chiedersi “vivrò, morirò?”».
Ha mai pensato di non farcela?
«Fin dal primo momento. Ebola uccide sette volte su dieci. Nel centro di Emergency, a Lakka, abbiamo abbassato la percentuale al 57,4%. Non pensavo di essere un privilegiato solo perché ho la pelle bianca. Le mie possibilità di vivere o morire erano identiche a quelle degli altri».
Ha ricevuto le cure migliori disponibili. Come si sente ora?
«Bene, se Ebola ha causato danni si vedrà in seguito. Se si sopravvive non dovrebbero esserci effetti a distanza, ma è una valutazione empirica. Ciò che è certo è che donerò il sangue allo Spallanzani, potrebbe servire ad altri».
Perché è andato in Sierra Leone?
«È stata la decisione più facile della mia vita. Quando me lo hanno proposto ho risposto subito di sì. Sapevo che in quel posto avrei potuto essere concretamente d’aiuto. Un minimo di assistenza medica, idratazione, controllo della febbre e antibiotici per prevenire le infezioni batteriche fanno la differenza. Il plasma di persone guarite sarebbe fra tutte le terapie quella a portata dei Paesi africani».
Sapeva cosa avrebbe trovato ?
«È impossibile preventivare tutto prima di trovarsi sul campo, specie con un’epidemia di queste proporzioni. La bellezza della Sierra Leone poi ha superato ogni immaginazione, ma è un altro discorso».
Ha idea di come sia avvenuto il contagio?
«Ho seguito con scrupolo le procedure di sicurezza e protezione. Non ho trovato falle. Ma in una situazione del genere la casualità non può essere ignorata».
Qualcuno ha sostenuto che avrebbe dovuto farsi curare in Sierra Leone.
«Credo di essere ancora cittadino italiano».
Che rapporto ha avuto con i colleghi dello Spallanzani?
«Con tutti fin dall’inizio si è stabilito un rapporto di cordialità e stima che presto è diventato affetto. E non esagero. Immagino di essere stato però un paziente fastidioso. Ricordo confusamente che di tanto in tanto discutevo le terapie».
Il momento più critico?
«Quando ho avuto la conferma che ero stato contagiato. Poi i giorni di malessere fisico, febbre altissima. E quando ho realizzato che stavo tenendo la mia vita stretta tra i denti».
Ha fede, ha pregato?
«Non avrei avuto il tempo di pregare. Quando le mie condizioni si sono aggravate sono stato portato in terapia intensiva e sedato per cui non ero cosciente».
Il pericolo Ebola è stato sottovalutato?
«Il rischio che l’epidemia varcasse i confini dell’Africa e arrivasse in Occidente non è stato sottovalutato e infatti gli unici casi europei o americani hanno interessato operatori umanitari contagiati sul campo. È stata sovrastimata invece la possibilità di Uganda, Liberia e Sierra Leone di poter fronteggiare l’epidemia. Paesi con strutture sanitarie troppo fragili. È un dovere aiutarli».
Tornerà in Africa?
«Questa esperienza mi ha toccato il cuore, ha fatto vibrare le corde più profonde dell’anima. Tornerò in Sierra Leone appena potrò».