Mario Tozzi, La Stampa 27/12/2014, 27 dicembre 2014
QUELLO TSUNAMI CI HA RICORDATO CHE LA NATURA È ANCORA SOVRANA
A pochi giorni dallo tsunami di Santo Stefano del 2004, oltre a contare gli occidentali morti, la gran parte del mondo si preoccupava di risolvere un mistero: dove erano finiti gli aborigeni delle isole più remote dell’oceano Indiano? Nel delirio tecnologico contemporaneo, l’uomo occidentale è portato a pensare che, per il solo fatto di possedere un telefono o un televisore, possa controllare gli elementi naturali, così le tribù più primitive sono state date per spacciate. Del resto se ne vivevano, presumibilmente infelici, in un contesto naturale eccessivo, mentre è noto che l’unico desiderio degli uomini è di possedere quanto prima l’automobile e il forno a microonde. Ma in realtà quasi nessun nativo perse la vita per lo tsunami, mentre furono decine di migliaia i morti fra gli occidentali e gli abitanti delle coste. Perché?
LA MEMORIA DEI «PRIMITIVI»
È una verità scomoda da ammettere, perché implica che chi ha sbagliato nel rapporto con il mare e con gli eventi naturali non furono i «primitivi», ma noi. Chi ha tramandato (oralmente, forse bisogna sottolinearlo) la memoria del pianeta e del mare, sa che le maree quotidiane si contano e quando ce ne è qualcuna fuori tempo, forse è il caso di ritirarsi nell’interno. E, per lo stesso motivo, sa che lungo quelle coste non si deve vivere, casomai pescare o prendere il sole, ma non abitare o dormire. Perché lo tsunami non è un fatto raro, come ci è sembrato nel 2004, quando sembravamo scoprirlo per la prima volta, e, solo negli ultimi duecento anni, se ne contano alcuni catastrofici, come nel 1797, nel 1843 e nel 1861, per non parlare di quello del Krakatoa nel 1883. Quegli uomini hanno conservato la memoria della Terra tramandandola a voce, mentre noi la dimenticavamo negli hard-disk dei nostri computer.
L’UOMO E LA CATASTROFE
E c’è qualcosa in più: dove lo tsunami non ha fatto danni? Solo nelle rare aree tutelate dell’India sud-orientale e nei boschi del Tamil Nadu, dove cioè l’intricata foresta costiera di mangrovie (che in lingua locale significa «albero che difende dall’onda», guarda il caso) non è sta cancellata dai grandi alberghi e dalle vasche di allevamento dei gamberetti, proteggendo l’entroterra delle ondate. Così come alle isole Maldive, dove un’accorta politica di protezione della barriera corallina non ha permesso che fosse danneggiata e l’ha dunque conservata integra. Mentre altrove è stata profondamente intaccata da decenni di turismo incontrollato, dall’inquinamento chimico e dal riscaldamento atmosferico. Ai normali canali di marea si sono affiancati aperture e squarci di varia dimensione e origine. «Solo» 75 morti alle Maldive, appena a sud-ovest delle decine di migliaia di vittime indiane e cingalesi. Non si è trattato di una «catastrofe naturale».
COSA ABBIAMO IMPARATO
Il caso del grande maremoto di Sumatra del 2004 è, a dieci anni di distanza, esemplare. Molti di quei morti potevano essere evitati da un sistema d’allerta efficace e da un’educazione responsabile, ma quale ruolo avrebbero potuto giocare la conservazione del patrimonio naturale e del rapporto che le popolazioni costiere del Sud-Est asiatico avevano originariamente con la madre Terra? I morituri nello tsunami di Sumatra non avevano molte alternative: o si accumulavano in casupole mal costruite accanto ai grandi alberghi di cemento armato degli occidentali bianchi per garantire loro vacanze di sogno in riva al mare, o crepavano di fame. Questa purtroppo è tornata a essere la regola nel Sud-Est asiatico in attesa del prossimo tsunami.
Mario Tozzi, La Stampa 27/12/2014