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 2014  dicembre 27 Sabato calendario

ILVA, SALVATAGGIO DA DUE MILIARDI PER RILANCIARE L’ITALIA DELL’ACCIAIO

Vent’anni dopo, l’Ilva riparte dallo Stato. Nel maggio 1995 l’Iri, presidente Romano Prodi, completava la cessione del colosso dell’acciaio al gruppo Riva. Dalla seconda metà di gennaio 2015, invece, l’azienda entrerà in amministrazione straordinaria, con un tris di commissari e due miliardi di euro, un mix di risorse vecchie e nuove, da utilizzare per il rilancio dell’area. Sfumata la possibilità di trovare un compratore - impossibile in queste condizioni - tocca al governo.
IL MODELLO PARMALAT
«Bisogna salvare un polo industriale che è il cuore dell’industria del Mezzogiorno, ma anche molto di più», dice Renzi, che ha messo mano alla legge Marzano sulla crisi delle grandi imprese per organizzare un salvataggio di Stato sul modello Alitalia o, più propriamente, Parmalat. L’azienda, sconvolta dai problemi giudiziari, è produttiva. L’obiettivo è rimetterla in sesto e riconsegnarla al mercato, nel giro di due o tre anni. Non solo per mettere al sicuro sedicimila posti di lavoro, ma soprattutto per non rinunciare ad un settore - quello siderurgico - che vale il 2 per cento del Pil italiano. Con 24,1 milioni di tonnellate prodotte durante lo scorso anno, il nostro Paese, in Europa, è secondo solo alla Germania, e il fatturato delle industrie associate a Federacciai supera i 34 miliardi euro.
UN SETTORE STRATEGICO
Nel ramo, che il ministro dello Sviluppo Guidi definisce «strategico», l’Ilva gioca un ruolo fondamentale: è il principale produttore di prodotti piani, i più utilizzati nell’automotive e nell’industria degli elettrodomestici. «Se Taranto sparisse le industrie italiane diventerebbero completamente dipendenti dai gruppi stranieri», ragiona Gianfranco Tosini, direttore dell’ufficio studi del portale specializzato Siderweb. Rinunciare all’Ilva vorrebbe dire consegnarsi ai francesi, o ai nuovi colossi cinesi che nel 2030 saranno i veri padroni dell’acciaio, con una quota del 51 per cento.
IL GAP DA RECUPERARE
La scommessa dell’esecutivo è impegnativa. «C’è da risolvere il problema ambientale, e in prospettiva serviranno grossi investimenti dal punto di vista tecnologico per mettersi in pari con i competitor globali», dice Tosini. La situazione di mercato, poi, è particolarmente complessa: la domanda stagnante, l’eccesso di produzione, un’Europa che rischia di pesare sempre meno. Il 66% delle aziende italiane attive nella siderurgia nel 2013 ha registrato un calo di fatturato, e negli ultimi anni la grande crisi ha bruciato settemila posti.
L’OTTIMISMO DELL’ESECUTIVO
Eppure i margini per farcela ci sono, spiegano fonti vicine al dossier, perché, a differenza di Terni o di Piombino, l’acciaieria di Taranto oltre ad essere il secondo stabilimento siderurgico d’Europa è anche uno dei più efficienti. Negli anni precedenti alla crisi ambientale l’azienda «guadagnava e guadagnava anche molto» peccato che «risparmiasse sull’ambiente» ha detto il commissario uscente, Pietro Gnudi. Che succederebbe, inoltre, se le aziende italiane dovessero rifornirsi all’estero? Per prima cosa, si troverebbero di fronte a condizioni ben più severe, anche nei pagamenti. «Con l’Ilva puoi saldare a 180 giorni, fuori dai nostri confini sarebbe inimmaginabile», è il ragionamento di Tosini. Non solo. C’è un problema di consegne: l’Ilva, infatti, è una sorta di magazzino di Stato. «Se uno acquista a Taranto - dice l’analista - il materiale arriva nel giro di due settimane. Ovvio che se ci si rifornisse all’estero tutto sarebbe rallentato». Un macigno, per il tessuto imprenditoriale italiano, abituato - o costretto - a lavorare in tempo reale, facendo a meno dei depositi e ordinando quantità molto basse.
L’ANSIA DELL’INDOTTO
Salvando l’Ilva, insomma, si salva un modello industriale, ma pure un pezzo importante del Mezzogiorno: almeno duecento aziende che vivono grazie alle commesse del gigante. È per questo che Enzo Cesareo, presidente di Confindustria Taranto, chiede al governo di «tutelare anche le imprese e i lavoratori dell’appalto, che vivono una fase di grande sofferenza». Ballano fatture non pagate per almeno dieci milioni di euro, ed è uno dei temi che i tecnici affronteranno nei prossimi giorni: il decreto definitivo, infatti, va ancora limato.
IL PIANO AMBIENTALE
Secondo quanto già anticipato dal premier non ci sarà alcuna modifica sulle prescrizioni ambientali previste dall’Aia, anzi proprio l’«urgenza e l’indifferibilità» di queste prescrizioni danno al decreto Taranto «necessità» e «urgenza» come vuole la Costituzione. Le misure, saranno decise dai nuovi commissari, che dovrebbero insediarsi a metà mese: a disposizione, avranno anche il denaro sequestrato ai Riva nel corso nel 2013, che confluirà in una contabilità speciale. Un tesoro di almeno un miliardo e duecento milioni da investire nelle bonifiche.
Giuseppe Bottero, La Stampa 27/12/2014