Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 27 Sabato calendario

FALSE VERITÀ E STUDIATI SILENZI, COSÌ PROSPERA LA CRISI

Il magro bilancio di fine esercizio dipinge l’immagine di un Italia in affanno, alla disperata ricerca di soluzioni impossibili, sbarrata da un nuovo muro che da Berlino va a Bruxelles tagliando fuori Parigi, un’Italia ancora in castigo, colpita da un vigliacco ultimatum. In questi anni sono proliferati studi e dibattiti volti a spiegare le ragioni dell’eurodisastro. Tentativi tutti diversi e tutti uguali: diversi nel proporre tesi fortemente antitetiche, talora condivisibili, talaltra inconcludenti, a volte partorite da infermi colpiti dalla sindrome di Stoccolma; uguali, tranne qualche sparuta, autorevole e perciò inascoltata eccezione, nel pretermettere un profilo viceversa dirimente: la comunicazione, dove per tale s’intenda non già la restituzione giornalistica dell’informazione ma ciò che le fonti ufficiali dicono, o meglio tacciono, sullo stato del Paese e dei partner europei. Sì, perché il modo migliore di disinformare non consiste nel trasmettere dati falsi, bensì nel tacere buona parte dei dati veri che svelerebbero la fragilità dei primi.
Ne abbiamo avuto un recente assaggio con gli stress test bancari, concepiti ad arte (considerazione dei soli attivi creditizi, Basilea III applicata a metà, esclusione di banche presuntamente minori, come quelle dei Länder tedeschi che invece sono banche significative per il Meccanismo Unico di Vigilanza) per proteggere le realtà non italiane più esposte sulla leva finanziaria e accreditare un falso sfascio crescente del cosiddetto Sud. Stress test comunicati al mercato in modo abilmente ritagliato, sicché si è contrabbandata l’impressione che un quinto del sistema bancario europeo fosse in crisi e che di quel quinto un terzo fosse italiano: eccellente cocktail di adulterazione e reticenza. Un altro amuse-bouche ci è pervenuto dalle (ad esser gentili) improvvide dichiarazioni di rischio-Paese, formulate dalla Juncker-Berliner-Kommission, ancillari al declassamento di S&P e concluse con la graziosa concessione di un rinvio a marzo. Ciononostante i mercati non rispondono in coerenza, i titoli italiani sono tra i più solidi, i portafogli esteri tornano a traboccarne, lo spread è bassissimo. Dunque? Dunque è giunto il momento di squarciare questo cascame di prestidigitazioni comunicative e rivelare il trucco. Cominciamo proprio dallo spread. Neanche il principe Myskin, il mite idiota dostoevskijano, potrebbe ormai credere a una tal fesseria. Lo spread Btp-Bund tocca oggi minimi storici, intorno ai 120-130 bp, ben inferiori a quelli del pre-crisi, malgrado debito pubblico dilatato, pil negativo, disoccupazione al 13%. Ciò che preconizzai tre anni fa è oggi una verità matematica: lo spread non misura la salute del Paese ed è stato l’illegale arnese adoperato per stremare l’Italia. La manipolazione di mercato cui vanno ascritti i 14 punti di debito in più rispetto all’estate 2011, non solo è rimasta impunita. Nessuno ne parla più. Berretto d’asino sull’Italia che non ha saputo far altro che aumentare il debito come una scialante cicala, ma si tace che quell’allargamento si deve solo a un monte interessi passato, fra il 2007 e il 2013, a +444 miliardi (+277 in Germania, +331 in Francia) mentre lo stock di debito italiano nello stesso periodo è salito di 392 miliardi, contro i 527 tedeschi e i 611 francesi: in percentuale +27, +34, +57 e di quel 27 almeno 150 miliardi sono secrezioni dello spread. Andando un po’ a ritroso, il rapporto debito/pil fra il 1994 e il 2007 fu ridotto dall’Italia di oltre 17 punti, aumentato dalla Francia di 15 e dalla Germania di 17. Chi è (sarà) peggio? Chi ha dovuto indebitarsi per resistere a un mercato dopato o chi, senza patimenti, ha ingigantito smisuratamente il suo debito a scadenza?
Ancora, il mostro del debito. Ricordiamo che la media europea è del 94%, il che dimostra che la logica di Maastricht (60%) è un lazzo da cappellaio matto. Ma ricordiamo anche che la Germania, col giochetto della KfW, benedetta dagli Esa95, nasconde 400 miliardi abbondanti di debito reale. E il Mip (Macroeconomic Imbalance Procedure) parte del Fiscal Compact cui l’Italia sembra disubbidire? Il Mip stabilisce che il saldo corrente con l’estero deve restare compreso fra il -4 e il +6% del pil, altrimenti detto: non si esporti troppo e si consumi di più all’interno. La Germania lo sfora allegramente dal 2007. Sette anni di peccato e in cambio una raccomandazione per aumentare la domanda interna. Tutto qui e nessuno ne parla.
E poi le riforme, su cui la Commissione sbertuccia l’Italia che fa le leggi ma non i decreti attuativi. Vizio cui la Ue non è immune: la Mifid 2 (Dir. 2014/65 e Reg. 600/2014) non andrà a regime prima del 3 gennaio 2017, perché sia la Commissione che l’Esma dovranno completarla con almeno una quindicina di regolamenti. Ma questo è il meno. La sola verità è che la riforma più importante, ossia quella pensionistica, che incide sulla salute finanziaria a medio-lungo termine, l’Italia l’ha già fatta con lacrime (maggiori contributi) e sangue (allungamento dell’età pensionabile). E i risultati si sono visti. Uno studio della Banca d’Italia del gennaio scorso dimostra che l’indice di sostenibilità della spesa futura (ossia il necessario avanzo primario aggiuntivo senza ulteriori indebitamenti) vede l’Italia come l’unico Paese che può addirittura permettersi di diminuire l’avanzo di 2,3 punti di pil mentre la Germania dovrebbe aggiungercene 1,4, la Francia 1,6, i boriosi Paesi Bassi 5,9 e il Regno Unito, millantata mecca di benessere, 5,2. Ma non basta. Secondo fonti non sospette (Università di Friburgo e Stiftung Markwirstschaft di Berlino), il nostro debito previdenziale è negativo. Sommandolo algebricamente a quello tradizionale, l’Italia ha un debito pubblico esteso (comprensivo del debito previdenziale futuro) del 73%, poco sopra il malefico 60%, mentre la Germania arriva al 154%, la Francia al 449, il Regno Unito al 640, i Paesi Bassi al 574, la Spagna al 672. Italia esclusa, il resto dell’Europa è, a oggi, tecnicamente fallito. Ma a parte un paio di articoli specialistici, il dato piomba nel silenzio.
Allora, invece di farci la morale, Commissione e fratelli d’Europa, dovreste guardarci con simpatia e con affetto, siamo tutti sull’orlo della disperazione, ma voi lo siete più di noi. Presidente Renzi, Lei che ama tanto comunicare, ci faccia un favore: strappi questa pagina e se la metta in tasca. Chissà che al prossimo viaggio a Bruxelles, invece di impetrare flessibilità, non Le venga in mente di dire qualcosa di diverso. Se non Le credessero, lo ripeta ufficialmente il giorno dopo e vedrà cosa capiterà. Indebitandoci verso Edward Murrow, diremo: buon anno e buona fortuna.
Emilio Girino, MilanoFinanza 27/12/2014