27 dicembre 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - IL JOBS ACT
Jobs act: ministero Lavoro, decreto non vale per pubblico =
Il Jobs Act e il decreto attuativo sul contratto a tutele crescenti, approvato in Consiglio dei Ministri il 24 dicembre, non è applicabile ai lavoratori del pubblico impiego. Lo precisano dal ministero del Lavoro. La discussione sulla legge delega è stata fatta sul lavoro privato, mentre sul lavoro pubblico c’è in Parlamento una legge delega sulla Pubblica Amministrazione, nell’ambito della quale si potranno eventualmente affrontrare tali tematiche.
REPUBBLICA.IT
ROMA - Riforme e rilancio dell’azione di governo. Dopo la pausa natalizia il dibattito tra i partiti riparte dal consiglio dei ministri del 24 dicembre. Ovvero: Il giorno della "svolta su Taranto, lavoro, delega fiscale, Inps", provvedimenti approvati mentre si chiudevano le vertenze di "Termini Imerese e Meridiana". Così il premier Matteo Renzi su twitter. E annuncia che non ci sarà un nuovo Consiglio dei ministri prima del prossimo anno. Ai critici: "Si arrenderanno di fronte alla realtà". Sul Jobs Act arriva la richiesta di Sacconi: "Sia esteso anche ai dipendenti pubblici".
Agenda di governo via Twitter. E dopo il tweet Renzi scambia sul social network anche alcune "battute" con i cittadini. Rispondendo a un utente sul tema dell’Ilva, il premier scrive: "Il progetto è serio ed è un progetto Taranto (cultura, porto, bonifiche, ospedale). Non solo Ilva". Ancora: "Veramente noi interveniamo pesanti anche sul risanamento ambientale". Poi sulla legge elettorale: "Arriva, arriva. A gennaio siamo in seconda lettura al Senato, ormai ci siamo anche lì #lavoltabuona". E a chi gli chiede se ci sarà un nuovo Consiglio dei ministri orima della fine dell’anno: "Mi pare che abbiamo già dato la vigilia di Natale". Non manca una replica a chi gli chiede dei "gufi". "Si arrenderanno quando non potranno più negare la realtà. Per adesso andiamo avanti". Poi la riforma della giustizia amministrativa: "E’ una delle priorità del 2015".
Sacconi: "Estendere il Jobs Act anche al pubblico impiego". Intanto continua il dibattito sul Jobs Act interno alla maggioranza. E dal Nuovo Centrodestra Maurizio Sacconi chiede che "la riforma del lavoro venga applicata anche al pubblico impiego". Le motivazioni: "Quando presentammo questo criterio di delega fummo indotti a ritirarlo dal governo in quanto esso considerava già vigente l’impegno ad omologare lavoro pubblico e lavoro privato".
Grillo attacca Renzi, Napolitano e Berlusconi. E in un post pubblicato sul suo blog, Beppe Grillo si lancia in un’apologia dell’Uomo Onesto. Di colui che "ogni tanto, si chiede chi glielo fa fare, poi pensa ai figli, all’idea di un mondo migliore e non si fa scoraggiare. La sua adrenalina sono i discorsi di fine anno di Napolitano che raccoglie religiosamente e usa come una droga nei momenti di sconforto, sono le minchiate quotidiane di Renzie e la faccia di Berlusconi".
PEZZI DI STAMATTINA
CORRIERE DELLA SERA
MARIO SENSINI
ROMA «Nessuno ha più alibi per non investire in Italia e nessun lavoratore può dire che lo Stato si disinteressa di lui». Il premier Matteo Renzi presenta così i decreti attuativi del Jobs act approvati dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre, definiti «una rivoluzione copernicana», e frutto di un compromesso imposto nelle ultime ore dallo stesso presidente del Consiglio. Il decreto attuativo del contratto a tutele crescenti, varato insieme al nuovo regime degli ammortizzatori sociali, riscrive le norme sui licenziamenti illegittimi superando l’articolo 18, e le resistenze della minoranza Pd, ma non prevede la possibilità per le imprese condannate di scegliere l’indennizzo al lavoratore al posto del suo reintegro, come chiedevano gli alleati del Ncd.
Al di là della mediazione il Consiglio dei ministri, che ha varato anche il decreto per salvare l’Ilva di Taranto e le norme sull’abuso del diritto tributario, ha introdotto altre novità, come l’estensione del nuovo regime ai licenziamenti collettivi, ai partiti, sindacati e onlus, mentre è «giallo» sull’applicabilità ai nuovi assunti del settore pubblico, come sostiene il senatore pd Pietro Ichino, o meno, come invece dice il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia.
Il provvedimento è stato bollato come «ingiusto, sbagliato e punitivo» dalla Cgil, che ipotizza azioni comuni con la Uil, e accolto con qualche modesta apertura dalla Cisl. Per Sel è il via libera «al contratto a licenziamenti crescenti», per il M5S «una fregatura». Delusi ma non troppo sia la minoranza pd, con Cesare Damiano che parla di un «provvedimento ancora migliorabile», che il Ncd, con Maurizio Sacconi convinto che il governo avrebbe dovuto essere più coraggioso.
Renzi ha aperto a possibili modifiche sulla base dei pareri che le Camere dovranno esprimere entro un mese sui decreti, ma li ha difesi. «Al centrodestra — ha detto — chiedo dove eravate in questi anni, al centrosinistra chi vi ha dato il contratto a tutele crescenti e gli ammortizzatori di 24 mesi».
Il reintegro nel posto di lavoro con il risarcimento del danno resta per i licenziamenti discriminatori o che si richiamano alla giusta causa, in cui viene dimostrata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore. Fermo restando il diritto al risarcimento, quest’ultimo può chiedere, al posto del reintegro, un’indennità pari a 15 mesi di retribuzione. Nei casi in cui il licenziamento per giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, è infondato, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un’indennità (non soggetta a contribuzione) di importo pari a 2 mensilità per ogni anno di lavoro, da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità. Se emerge la prova diretta dell’insussistenza dei fatti contestati, il giudice annulla il licenziamento, condanna al reintegro e al pagamento di un’indennità risarcitoria.
Nel caso di un licenziamento dichiarato illegittimo per vizi formali o procedurali il rapporto di lavoro viene estinto ed il datore di lavoro condannato al pagamento di un’indennità pari a un mese per ogni anno di servizio, da un minimo di due a un massimo di dieci mensilità. Le nuove norme valgono anche per i licenziamenti collettivi dichiarati illegittimi per vizi di procedura. Per le piccole imprese superare la soglia dei 15 dipendenti, che fino a oggi metteva al riparo dall’articolo 18, comporterà anche l’applicazione di un sistema di indennizzi più vantaggioso rispetto a quello attuale. E il nuovo regime si applicherà a tutti i lavoratori, anche quelli assunti prima che l’azienda superasse i 15 dipendenti.
Mario Sensini
Scompare il reintegro per i licenziamenti collettivi
Le nuove regole sui licenziamenti individuali si applicano anche ai licenziamenti collettivi, relativamente ai dipendenti assunti con contratto a tutele crescenti. Ciò significa che, per questi ultimi, eventuali licenziamenti illegittimi non sarebbero sanzionati con il reintegro (tranne che per i casi di discriminazione e di insussistenza del fatto disciplinare) ma con gli indennizzi. La norma potrebbe rivelarsi di difficile applicazione in caso di licenziamento di lavoratori in parte coi vecchi contratti e in parte coi nuovi.
Non si applica l’articolo 18 se si superano i 15 addetti
Il nuovo contratto a tutele crescenti vale con le stesse regole per tutte le assunzioni, senza distinzioni tra aziende con meno o più di 15 dipendenti. Le imprese che supereranno la soglia dei 15 grazie ai dipendenti a tutele crescenti non saranno più soggette ad applicare l’articolo 18 dello Statuto (né sui vecchi né sui nuovi assunti). Le aziende saranno incentivate a crescere, anche perché oltrepassando la soglia dei 15 potranno in certi casi veder scendere l’indennizzo cui hanno diritto i licenziati.
Duello sull’applicazione nel pubblico impiego
Secondo il giuslavorista Pietro Ichino, che ha collaborato all’estensione del testo del decreto legislativo, il contratto a tutele crescenti si applica a tutti i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici. Secondo il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, no. Si ripropone quindi lo scontro già avvenuto in occasione della riforma Fornero dell’articolo 18. In mancanza di norme che facciano chiarezza, la giurisprudenza è tuttora divisa sull’applicabilità delle norme sui licenziamenti ai dipendenti pubblici.
Addio alle vecchie protezioni Indennizzo da 4 a 24 mensilità
Quando il decreto legislativo sarà in vigore (bisogna attendere un mese per i pareri non vincolanti del Parlamento) coloro che verranno assunti (sia per la prima volta, sia perché cambiano lavoro) con il contratto a tutele crescenti non avranno più le protezioni sui licenziamenti previste dall’articolo 18 dello Statuto. Il diritto al reintegro nel posto di lavoro scatterà solo per i licenziamenti discriminatori
e per quelli disciplinari se il giudice accerterà che il fatto contestato non sussiste. Altrimenti
ci sarà un indennizzo da 4 a 24 mensilità.
Arriva la Naspi, l’assegno che può durare 24 mesi
Da maggio debutta la Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego. Si tratta, secondo il decreto approvato «salvo intese», di un’indennità di disoccupazione che sostituisce Aspi e Mini Aspi. Si estende, con il nome di Dis-Coll, per il 2015, ai co.co.co. e co.co.pro. La Naspi durerà al massimo 24 mesi contro i 18 dell’Aspi. La Dis-Coll durerà invece non più di sei mesi. L’importo iniziale sarà pari al 75% della retribuzione fino a un tetto di 1.300 euro. Dal quinto mese scende del 3% al mese.
a cura di Enrico Marro
INTERVISTA A PIETRO ICHINO
ROMA «Certo che le nuove regole saranno applicabili anche ai dipendenti pubblici. Tanto è vero che, quasi all’ultimo momento, è stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione». Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, è tra le poche persone che hanno vissuto dal di dentro la lunga trattativa sul Jobs act , prima come relatore al Senato del disegno di legge delega poi nell’elaborazione collettiva del primo decreto attuativo, quello sul contratto a tutele crescenti, approvato in consiglio dei ministri alla vigilia di Natale.
La questione è tecnica e Ichino, da giuslavorista d’esperienza, entra nei dettagli: «Il testo unico dell’impiego pubblico stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato». Ma c’è chi, come il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia sostiene che gli statali sono esclusi, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse: «Qualche volta — risponde lui — anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità. E sbaglia chi voleva l’espressa esclusione dei dipendenti pubblici, come la minoranza di sinistra del Pd e probabilmente anche qualcuno all’interno delle strutture ministeriali. Non si rendono conto che il contratto a tutele crescenti costituisce l’unica soluzione possibile per il problema del precariato, anche nel settore pubblico. Il precariato è l’altra faccia, strutturalmente inevitabile, dell’inamovibilità dei lavoratori di ruolo».
N el suo blog Ichino scrive che servirebbe un chiarimento fra Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, parla più volte di una «non identificata mano di estensore ostile alla riforma», alludendo a qualche tecnico dello stesso ministero. Perché Poletti ha cambiato linea in questi ultimi giorni? «Questo andrebbe chiesto a lui. Certo è che il 23 dicembre dal suo ministero è arrivata una bozza contenente, insieme ad altre cose incongruenti con la riforma, persino un drastico ridimensionamento della portata dello stesso decreto Poletti sui contratti a termine, emanato neanche nove mesi fa. Se non fossimo riusciti a sventarla, quella follia avrebbe minato la credibilità di tutta la riforma, sottolineandone una volatilità a dir poco patologica». Se questo chiarimento non dovesse esserci Poletti dovrebbe dimettersi? «Non ho detto questo. Però, certo, il governo non può permettersi incoerenze con il proprio programma. Tanto meno sulla riforma del lavoro e su quella delle amministrazioni pubbliche, che ne costituiscono una parte fondamentale sul piano economico e su quello politico, interno ed europeo».
Nel complesso Ichino dà al decreto approvato dal consiglio dei ministri un «sette» perché è un «passo avanti anche se non la riforma organica che avrebbe potuto essere». E, forse a sorpresa, insiste sull’opting out, cioè la possibilità per l’azienda di superare il reintegro diposto dal giudice in caso di licenziamento disciplinare illegittimo pagando un indennizzo più alto. «È sicuramente tramontata la sua versione caricaturale — spiega — che compariva nell’ultima bozza: un opting out che costi all’impresa quasi quattro anni di retribuzione non interessa a nessuno. Resta il fatto che, se vogliamo davvero allinearci agli altri Paesi che applicano, sia pur marginalmente ed eccezionalmente, la reintegrazione nel posto di lavoro, dobbiamo introdurre anche noi questa “valvola di sicurezza”, per evitare che si determinino alcune situazioni paradossali, oggi purtroppo assai frequenti nelle nostre cronache giudiziarie». Non basta, secondo lui, la nuova formulazione che stringe ancora di più la possibilità di reintegro e cioè il fatto che sia «direttamente» dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’applicazione pratica la spiega così: «Quando il lavoratore vince la causa per insufficienza di prove, è giusto che sia indennizzato. Ma gli indizi di colpevolezza che in questo caso pur sempre restano ben possono costituire una giustificazione oggettiva del fatto che l’impresa non rinnovi il proprio affidamento in lui» .
lorenzosalvia
Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, cosa ne pensa del decreto attuativo del Jobs act?
«Squilibrato a favore delle imprese. La dicitura di contratto a tutele crescenti è come si diceva negli anni ‘70, “sedicente”. Dei 6 articoli, 5 e mezzo trattano licenziamenti. E chi è licenziato senza motivo avrà diritto al massimo all’indennizzo di 24 mensilità».
Secondo lei favorirà l’occupazione?
«Un po’. Ma non sarà occupazione aggiuntiva. Il doppio incentivo Jobs act più sgravi della legge di Stabilità assorbirà gran parte dei contratti a termine. Ma solo al terzo anno, finiti gli incentivi da 1 miliardo l’anno, ci sarà la verifica se saranno stabili».
Un voto?
«Quattro. Grave applicare le norme dei licenziamenti individuali a quelli collettivi, che finora seguivano norme di equità e solidarietà. C’è il rischio che l’azienda strumentalizzi la ristrutturazione per mandare a casa chi vuole».
Virginia Piccolillo
Paolo Agnelli, presidente degli industriali manufatturieri Confimi, cosa ne pensa dei decreti attuativi del Jobs act?
«È un’aspirina. C’è la liberalizzazione di qualche forma di licenziamento. Ma il discriminatorio è uguale. Il disciplinare non vedo in cosa cambi. E su quelli di carattere economico non ho mai visto fare reintegre. Perché se un’azienda va male e non può pagarti come fa a tenerti?». Favorirà l’occupazione?
«Assolutamente no. I nostri non sono alibi, come dice Matteo Renzi. Paghiamo l’energia l’83 per cento in più della media Ue e 100 euro in busta ci costano 246 euro per le tasse. Da noi sono al 64 per cento, in Polonia il 18 per cento. Ecco perché si va via. L’azienda Italia non ha più commesse, come può seguire le politiche rigoriste? Renzi deve dirlo all’Europa. Sarebbe come se a uno in fallimento gli chiedi i soldi. Gli strozzini fanno così».
Un voto al decreto?
«Sei, qualcosa è stato fatto. Ma non è risolutivo».
V. Pic.
REPUBBLICA
NAZIONALE - 27 dicembre 2014
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ECONOMIA
LA GIORNATA
Il Jobs Act allargato ai licenziamenti collettivi rivolta dei sindacati
Cgil e Uil sul piede di guerra, dubbi anche della Cisl Fassina: “Renzi segue la Troika”. Sacconi: “Poco coraggio”
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ROMA .
Scoppia il caso dei licenziamenti collettivi. Il governo, infatti, ha deciso che le nuove regole sui licenziamenti si applicheranno sia ai licenziamenti individuali sia a quelli collettivi, cioè riguardanti almeno cinque lavoratori. Quest’ultima è una novità che ha fatto protestare tutti i sindacati, dalla Cgil alla Uil, che già avevano scioperato contro il Jobs Act, fino alla Cisl che invece non l’aveva fatto. A questo punto non è escluso che la partita possa in qualche modo riaprirsi in Parlamento dove i due decreti delegati varati il 24 dicembre (sul contratto a tutele crescenti e sugli ammortizzatori sociali) arriveranno subito dopo la pausa natalizia per ottenere il parere non vincolante delle Commissioni competenti. Il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, esponente di una delle minoranze Pd, ha chiesto esplicitamente di modificare quel passaggio. Il rischio politico è però alto perché se il governo dovesse venire incontro alle richieste che provengono da sinistra (secondo Stefano Fassina i decreti sul Jobs Act sono «un’altra tappa del mercantilismo liberista raccomandato dalla Troika») dovrebbe tener conto anche delle critiche dell’Ncd (sfidata da destra da Forza Italia e dalla Lega) che con Maurizio Sacconi ha parlato di «mancanza di coraggio delle grandi scelte». La destra, infatti, sosteneva la possibilità che il datore di lavoro potesse sempre optare per l’indennizzo monetario al posto del reintegro pagando di più, e chiedeva anche l’introduzione dello “scarso rendimento” tra i motivi del licenziamento economico. Le due richieste non sono passate.
Lo scontro ora si è spostato sui licenziamenti collettivi anche perché, in questo caso, è più evidente la disparità di tutela tra i vecchi assunti e i neoassunti. In estrema sintesi, se un’impresa ha bisogno di ristrutturarsi e di licenziare un certo numero di lavoratori, quelli assunti con le vecchie regole potranno ottenere il reintegro dimostrando l’illegittimità del loro licenziamento (violazione per esempio dell’accordo sindacale), mentre per i neoassunti non ci sarà alternativa all’indennizzo monetario. Ovvio che prima che scoppi un caso del genere ci vorrà un po’ di tempo. Secondo il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy, crisi come quella dell’Electrolux non si risolverebbero più salvando i posti di lavoro ma con «i lavoratori da licenziare scelti senza criteri equi e mandati a casa con una manciata di soldi».
( r. ma.)
INTERVISTA CAMUSSO
ROBERTO MANIA
ROMA .
«Questa partita è solo agli inizi. Continueremo a lottare, a mobilitarci, a scioperare anche contro le aziende perché non può esserci uno che incassa e l’altro che subisce soltanto. Useremo la contrattazione e i ricorsi giudiziari in Italia e in Europa. Utilizzeremo tutti gli strumenti a nostra disposizione per ribaltare un’idea recessiva del lavoro», dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. E questo è il piano d’azione della Cgil, il secondo tempo dello scontro con il governo sul Jobs act.
Camusso, lei ha parlato di “un abominio” nei confronti dei lavoratori a proposito della nuova formulazione dell’articolo 18. Perché?
«Perché il presupposto a queste norme è che i lavoratori abbiano sempre torto e le imprese sempre ragione. Eppure, come è noto, la visione in bianco e nero non funziona. Lo dimostra proprio il “caso Ilva” _: ma si può affidare la politica economica a chi riduce le aziende in quello stato? E poi, tutte le vertenze, che secondo il premier si sarebbero risolte grazie alla bacchetta magica della “fatina governo” mentre è grazie alla lotta dei lavoratori che hanno trovato uno sbocco, non hanno visto alcuna nuova iniziativa imprenditoriale italiana. Gli industriali italiani non investono più, non innovano, a parte coloro che puntano tutto sull’export. E infatti dalle crisi si esce spesso con progetti di imprenditori stranieri. Da noi mancano gli imprenditori capaci di rischiare in proprio, eppure il governo ha delegato a loro le scelte sul futuro dello sviluppo. È una logica che mi fa impressione. Ripeto: ma cosa gli hanno fatto i lavoratori a Renzi?».
Provi lei a dare una risposta.
«Guardi, io penso che in questa scelta ci sia l’incapacità di interpretare le ragioni profonde della crisi strutturale italiana. Che non è figlia del mercato del lavoro bensì di un tasso di investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo, che è letteralmente crollato. Lo diciamo da anni e da anni chiediamo un credito di imposta per questo tipo di investimenti. È vero, qualcosa è stato fatto, ma decisamente troppo poco».
Torniamo al Jobs act. Era prevista la possibilità che le imprese, attraverso l’“opting out”, evitassero sempre il reintegro del lavoratore. Questa ipotesi è rimasta sulla carta. Non è un passo avanti?
«Certo che con quella ipotesi il decreto sarebbe stato ancora peggio. Così come se fosse stato introdotto il principio dello “scarso rendimento” _ come motivo di licenziamento economico. Ma quando il premier Renzi dice che non c’era bisogno di introdurre anche quel principio, ribadisce implicitamente che tutto è già possibile, arriva addirittura a suggerire la strada per licenziare. Con la stessa conciliazione tra lavoratore e datore di lavoro senza alcuna forma di assistenza non siamo molto lontani dall’opting out. Un lavoratore licenziato si troverà sotto una fortissima pressione perché rinunci alla via giudiziaria a tutela di un suo diritto. Tutto viene affidato all’imprenditore che per definizione è superiore. Questo è il punto».
Insomma lei è convinta che quello di Renzi sia un “governo delle imprese?”
«In Europa la grande questione della politica è come riappropriarsi del governo dell’economia. È un tema decisivo, soprattutto per la sinistra. Il nostro governo ha scelto di delegare le imprese. Una sorta di abdicazione, di rinuncia a individuare un proprio modello di sviluppo. E infatti il nostro governo non fa politica industriale ma distribuisce risorse a pioggia. Arriva al punto che le imprese prima prendono gli incentivi per le assunzioni, poi licenziano e ci guadagnano pure».
Come fa a dire che la partita sul Jobs act non è finita quan- do i decreti sono stati approvati e i pareri delle Commissioni parlamentari sono solo consultivi? Quali armi ha in mano il sindacato?
«Ad esempio solleciteremo le Commissioni parlamentari. Renzi, non so se l’abbia detto solo per ragioni diplomatiche, ha sostenuto che terrà conto delle osservazioni che dovessero arrivare dal Parlamento. Sinceramente non so dire se sia bene o un male ma intanto il Parlamento si dovrà esprimere».
Non è molto il pressing sulle Commissioni...
«Bisogna avere rispetto per le procedure istituzionali. Ma non mancheranno la lotta, la contrattazione, i ricorsi giudiziari».
Pensa a un altro sciopero generale?
«Vedremo. Non posso anticipare nulla ma non escludo nulla. Valuteremo con la Uil e coinvolgeremo anche la Cisl».
Che effetto avrà l’applicazione delle nuove norme anche ai licenziamenti collettivi?
«Il governo aveva promesso il superamento del dualismo ma con questo decreto non fa altro che moltiplicare le differenze tra lavoratori e lo fa anche nella stessa impresa di appartenenza. Si potranno ora violare i criteri di legge sui licenziamenti collettivi mascherando le discriminazioni e rischiando solo una “multa”. Un ulteriore colpo basso ai diritti collettivi e alla certezza del diritto. La norma, poi, deresponsabilizzerà le imprese dai processi di riconversione e ricollocazione, anche perché la delega mette a carico della fiscalità generale il costo delle politiche attive per licenziamenti illegittimi o ingiustificati ».
Con il contratto a tutele crescenti e gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato il governo punta ad estendere questi contratti. Non è quello che avevate sempre chiesto?
«Questo contratto a tutele crescenti è un grande bluff. È solo una monetizzazione crescente: “Ti licenzio anche ingiustamente, ti pago pure in modo crescente, quindi adesso taci”, sembra voler dire. Di fatto è l’abolizione dei contratti a tempo indeterminato. Il contratto a tutele crescenti non ha un punto d’arrivo nel quale la situazione si stabilizza. L’Italia sarà così l’unico Paese nel quale la palla non passa mai dalla parte dei lavoratori. Il presunto grande salto nella modernità si traduce nella monetizzazione della dignità del lavoratore ».
Perché ha twittato gli auguri di buon Natale con l’immagine di un gufo?
«Una civetta, non un gufo! Un regalo natalizio... mi è piaciuta molto. Poi, come è noto, le civette portano fortuna».
ECONOMIA
“Il decreto può cambiare con obiezioni fondate e non ideologiche”
VALENTINA CONTE
ROMA . «Siamo pronti a cambiare il decreto, se le obiezioni delle commissioni di Camera e Senato saranno fondate e soprattutto non ideologiche». Il sottosegretario pd al Lavoro, Teresa Bellanova, commenta a caldo i primi due decreti del Jobs act, a partire dalla novità più clamorosa: l’estensione ai licenziamenti collettivi dell’indennizzo al posto della reintegra.
Sottosegretario, ma come il governo fa già marcia indietro?
«Qui non ci sono né marce indietro né avanti. Andiamo nel merito, scaviamo a fondo ed eventualmente modifichiamo. Ma per favore non facciamo battaglie di posizionamento politico sulla pelle dei lavoratori».
I sindacati sono già sul piede di guerra per la questione dei licenziamenti collettivi...
«Valuteremo tecnicamente il decreto durante il percorso parlamentare. La commissione della Camera l’ha già incardinato per il 7 gennaio».
Ma il parere delle commissioni è solo consultivo...
«Ciò non toglie che il governo possa apportare delle modifiche, qualora siano opportune e condivise. Se esiste davvero un peggioramento della condizione dei lavoratori non voluto dal governo, non ci sarà difficoltà a correggere».
Come giudica l’estensione ai licenziamenti collettivi delle regole del Jobs act? Sarà più facile licenziare?
«Assolutamente no. I tavoli aziendali non spariranno. L’impostazione della procedura non sarà intaccata. Qui si parla solo della possibilità di estendere l’indennizzo».
In realtà, anche più lavoratori - e non solo il singolo - potranno essere accompagnati alla porta in modo illegittimo con un po’ di denaro e senza riavere il posto...
«Laddove c’è, la reintegra rimane. La legge 233 del ’91 che regola i licenziamenti collettivi non viene stravolta. Ad ogni modo, cercheremo in queste ore di capire le obiezioni. La linea del governo rimane quella di non mettere in discussione o ledere i diritti dei lavoratori».
Sebbene assumere per poi licenziare a stretto giro sembrerebbe convenire alle aziende, sfruttando bonus e indennizzi...
«Fare questi ragionamenti è un torto all’intelligenza di tutti. Esistono aziende che li fanno e vanno combattute, ma certo non è colpa del Jobs act. Il decreto toglie alibi a chi in questi anni si è mascherato dietro l’articolo 18 per non crescere. Dà l’opportunità alle aziende di avere più contratti a tempo indeterminato. Allunga l’Aspi a 24 mesi. Introduce un assegno per chi rischia di cadere nel baratro della povertà e un sussidio di disoccupazione anche ai precari con contratto di collaborazione. Insomma rende il mercato del lavoro meno ingessato. Anche questi sono segnali positivi e inclusivi da cogliere. Senza focalizzare il dibattito solo sull’articolo 18 che la maggior parte dei lavoratori non ha mai conosciuto».
VALENTINA CONTE
IL JOBS
Act prende corpo con i primi due decreti delegati approvati il 23 dicembre dal Consiglio dei ministri. L’articolo 18 scompare quasi del tutto, sostituito dagli indennizzi. Nascono tre nuovi ammortizzatori sociali: per i disoccupati dipendenti, i disoccupati poveri e i disoccupati precari (quest’ultimo operativo da gennaio, gli altri da maggio). Ma la convenienza ad assumere per licenziare, lucrando sui bonus, rimane.
IL PRIMO decreto
delegato del Jobs Act disciplina il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.
QUALE TIPO DI TUTELA CRESCERÀ?
Non l’articolo 18. Al contrario i neoassunti dovranno farne a meno, nella maggior parte dei casi. Al posto del reintegro nel posto di lavoro, crescerà l’indennizzo, se il licenziamento è illegittimo perché così ha stabilito il giudice.
A QUANTO AMMONTA L’INDENNIZZO?
A 2 mensilità per anno lavorato, da un minimo di 4 a un massimo di 24. Questo significa che il primo anno lavorato vale 4 mensilità, i successivi ne valgono 2, fino al tetto di 24 (ora è 12 o 18 per i lavoratori maturi).
E PER LE AZIENDE SOTTO I 15 DIPENDENTI?
Sono penalizzate rispetto ad oggi, laddove possono contare su indennizzi tra 2,5 e 6 mensilità (decide il giudice indipendentemente dall’anzianità). Da gennaio avranno una mensilità per anno lavorato, con un massimo di 6, e uno scalino il primo anno pari a 2 mensilità. In ogni caso, meno.
SARÀ POSSIBILE LA CONCILIAZIONE?
Sì. Per evitare di andare in giudizio, il datore può offrire al lavoratore un importo, ma esentasse (né Irpef né contributi), novità assoluta del decreto. La somma sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo di 2 a un massimo di 18, concessa via assegno circolare in tempi stretti.
COSA C’È PER LA RICOLLOCAZIONE?
Il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto di ricevere un voucher dal Centro per l’impiego da presentare a una agenzia del lavoro per ottenere il contratto di ricollocazione.
Una triade di sostegni per i disoccupati Naspi, Asdi e Discoll
IL SECONDO
decreto delegato del Jobs Act introduce i nuovi ammortizzatori sociali.
QUALI E QUANTI SONO?
Sono tre: Naspi, Asdi e Discoll. I primi due operativi dal primo maggio 2015. Discoll già in funzione dal primo gennaio.
A CHI SI RIVOLGONO?
La Naspi sostituisce Aspi e mini Aspi attuali ed è destinata a coprire, nei calcoli del governo, il 97,5% dei lavoratori dipendenti qualora perdano il lavoro. L’Asdi è l’assegno di disoccupazione che spetta a chi, esaurita la Naspi, è in condizione di bisogno e non riesce a trovare lavoro. Discoll è invece il sussidio di disoccupazione per 300-350 mila cococo e cocopro, una semplificazione dell’attuale una tantum.
QUALE PERIODO COPRONO E CON QUALE IMPORTO?
La Naspi dura fino a 24 mesi, rispetto ai 12 o 18 attuali e sarà al massimo pari a 1.300 euro al mese. L’Asdi non va oltre i sei mesi e i 500 euro mensili. Discoll ha gli stessi importi della Naspi (massimo 1.300 euro), ma durata non superiore ai sei mesi, comunque il doppio dell’attuale.
SONO STRUTTURALI?
Solo la Naspi. Anche se il decreto dice che nel 2017 la durata massima scende da 24 a 18 mesi. Esiste però un impegno politico del governo a riportarla a 24, trovando le risorse mancanti nella prossima Stabilità (circa mezzo miliardo su due totali). Asdi e Discoll sono misure sperimentali, valgono cioè solo per il 2015. Il primo potrebbe diventare strutturale. Il secondo potrebbe sparire in primavera se il governo, come promesso, cancellerà i contratti di collaborazione.
ESISTONO DEI VINCOLI?
Essenzialmente l’iscrizione nelle liste di disoccupazione, l’accettazione di corsi di formazione e offerte di lavoro.
Diritto a rientrare se c’è discriminazione o accusa infondata
IL PRIMO
decreto del Jobs act riscrive anche l’articolo 18.
IL REINTEGRO RIMANE O SCOMPARE?
Resta solo per tutti i licenziamenti alla cui base c’è una discriminazione (per sesso, orientamento sessuale, appartenenza sindacale o politica, colore della pelle, religione), com’è ovvio. Il contrario sarebbe contro la Costituzione italiana, la Carta Ue e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La tutela reale rimane anche nei licenziamenti disciplinari in cui «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore».
IN TUTTI GLI ALTRI CASI COSA SUCCEDE?
Nei licenziamenti economici e in quelli disciplinari per cui non si riesce a dimostrare l’insussistenza del fatto contestato, il decreto prevede il solo indennizzo, crescente al crescere dell’anzianità di lavoro. Facile immaginare un’esplosione dei licenziamenti per motivo economico (diminuzione di produzione o commesse, ad esempio).
E NEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO?
Il decreto estende anche a questo caso (disciplinato dalla legge 233 del 1991) il regime dell’indennizzo anziché il reintegro. Qualora cioè l’imprenditore (in un’azienda con più di 15 dipendenti) decida di licenziare almeno cinque dipendenti per ragioni economiche e il licenziamento risulti illegittimo, i neoassunti nel 2015 con il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act potranno ottenere solo i soldi dell’indennizzo, non anche il posto che invece spetta agli altri licenziati con il contratto “vecchio”. Anche questa una dicotomia che spacca i lavoratori in due e che esploderà nei prossimi anni.
I premi ad assumere superano ancora i costi dei licenziamenti
L’EFFETTO
combinato delle norme inserite nella Stabilità (sgravi Irap e contributivi) e nel primo decreto delegato del Jobs Act inciderà sulle politiche occupazionali delle aziende.
UN INCENTIVO AD ASSUMERE E POI A LICENZIARE?
La cancellazione dell’articolo 18 per i neo assunti renderà monetizzabile l’uscita e conveniente l’entrata. Ma il primo importo è inferiore al secondo, per molte classi di reddito. Ne deriva un vantaggio per l’impresa.
È POSSIBILE QUANTIFICARE QUESTO VANTAGGIO?
La Uil, Servizio politiche territoriali, l’ha fatto. Il guadagno per l’azienda sarebbe di circa mille euro per un lavoratore con reddito medio (22-25 mila euro annui) licenziato dopo un anno. Tra 12 e 14 mila euro, se licenziato dopo tre anni. Sugli 8-9 mila euro, se messo alla porta dopo 5 anni, quando uno dei bonus non c’è più (lo sgravio contributivo triennale).
SI TIENE CONTO NEI CALCOLI DEL TICKET FORNERO?
Sì. L’imprenditore quando licenzia deve pagare al lavoratore 490 euro per un massimo di 3 anni, oltre all’indennizzo dovuto se il licenziamento è illegittimo. Nonostante questo importo, la convenienza ad assumere per licenziare presto, nel giro di uno o tre anni, esiste.
SI RIDUCE IL COSTO DEL LAVORO. È VERO?
Certo. La deduzione integrale del costo del lavoro dall’Irap è una misura strutturale e benefica per le aziende. I contributi azzerati valgono per tre anni (2015-2017) e si riferiscono solo alle assunzioni del 2015. Se però il governo decidesse di rendere anche questa misura strutturale, potremmo assistere alla fine del contratto indeterminato e all’inizio di un turn over forsennato, favorito dalle leggi e foraggiato dagli incentivi. L’opposto dell’obiettivo.
LA STAMPA
Due giorni dopo il suggello finale del governo, che alla Vigilia di Natale ha deliberato l’ultimo passaggio verso il Jobs Act con l’approvazione dei decreti delegati, non si placano le polemiche. La mossa di Matteo Renzi, il suo «stavolta decido io», gli ha scatenato contro le ire di chi ritiene che la versione finale del Jobs Act sia troppo sbilanciata a favore delle imprese e chi pensa l’esatto contrario. Stefano Fassina, per dire, insiste nel dipingerlo come seguace «della troika». Secondo Maurizio Landini, leader della Fiom, addirittura «questo provvedimento riporta l’Italia al 1800. È inaccettabile». L’intera Cgil è sul piede di guerra: «Più che di rivoluzione copernicana, siamo ad una delega in bianco alle imprese a cui viene appaltata la crescita». All’opposto, Maurizio Sacconi dichiara che «è mancato il coraggio».
Tre le decisioni del consiglio dei ministri della Vigilia. Non solo il Jobs Act, ma l’Ilva: 2 miliardi di euro piovono su Taranto e a gennaio l’acciaieria uscirà dalla fase del commissariamento ed entrerà in amministrazione straordinaria sul modello dell’Alitalia.
Renzi è stato molto chiaro su quello che intende fare per Taranto: da un lato «salvare un polo industriale che è il cuore dell’industria del Mezzogiorno, ma anche molto di più», considerando che in Puglia si produce oggi un quarto dell’acciaio italiano e per addetti l’Ilva è la più grande fabbrica manifatturiera italiana, dall’altro bonificare una città dato che «questo intervento non deve essere fatto a discapito dell’ambiente, non ci sono modifiche al regime di Autorizzazione di Impatto Ambientale».
Terzo provvedimento della Vigilia, la delega fiscale che «rivoluzionerà il rapporto tra cittadini e Stato». Il decreto attuativo della delega, ora all’esame delle competenti commissioni parlamentari, prevede abuso del diritto delimitato, restyling dei reati tributari, e collaborazione fra grandi imprese e fisco. «Ci sarà particolare severità per i furbi, ma senza più la “vis vessatoria” dei governi passati».
Renzi intanto sta preparando la conferenza stampa di fine anno. A compensare le polemiche sul diritto del lavoro, in palese polemica con Susanna Camusso e l’intera Cgil, ricorderà i concreti successi del suo governo nel gestire le crisi aziendali, da Meridiana a Termini Imerese, alla prossima soluzione per la vertenza Moby, e naturalmente all’Ilva.
“Quello che Berlusconi
non era riuscito a fare
lo ha fatto il premier Pd”
Roberto Giovannini
«Ogni anno più di un milione di persone cambia posto di lavoro. Nel giro di pochi anni l’articolo 18 non si applicherà più a nessuno. Quello che non è riuscito a Berlusconi l’ha fatto il governo Renzi».
Segretario Carmelo Barbagallo (Uil), ma il nuovo contratto non creerà occupazione?
«Ha solo monetizzato i licenziamenti. Se vuole vedere come si fa a creare lavoro, vada a fare uno stage negli Usa».
E le correzioni dell’ultimo minuto?
«Non so se è merito nostro o perché hanno capito che sarebbero stati incostituzionali. Va bene non aver dato alle imprese il diritto di monetizzare anche l’eventuale reintegro da licenziamenti disciplinari, e il caso dello “scarso rendimento”. È pericolosa invece la scelta di equiparare i licenziamenti individuali a quelli collettivi».
Per quale ragione?
«Perché così un’azienda in crisi, invece di discutere, può licenziare i dipendenti monetizzando. Comunque, per finanziare la decontribuzione delle nuove assunzioni hanno tolto 3,5 miliardi che erano riservati allo sviluppo del Mezzogiorno. In pratica, con i soldi per lo sviluppo si paga la monetizzazione dei licenziamenti individuali e collettivi. Se qualcuno mi spiega come questo può migliorare la situazione del mercato del lavoro... ho l’impressione che i giovani a cui pensava il presidente del Consiglio quando diceva che voleva dar loro “tutele crescenti” erano sono i giovani imprenditori».
Sui giornali c’è chi dice che le nuove regole sui licenziamenti vanno estese a tutti.
«Ancora? Il premier Renzi aveva detto che non voleva togliere le tutele a chi ce l’aveva, ma darne di nuove ai giovani. Una promessa bugiarda: si toglie gradualmente a tutti l’articolo 18, e ai giovani non si da nulla. A meno che la “tutela crescente” sia considerata ricevere un paio di mesi in più sul bonus con cui vieni licenziato».
Ormai i decreti ormai sono fatti. La vostra protesta a che serve?
«Primo, ancora ci sono le commissioni parlamentari che possono intervenire. Secondo, spero sempre che il governo si renda conto di aver fatto solo un favore alle imprese. Terzo, con le imprese noi dovremo discutere i contratti: alcune cose che il governo ci ha tolto cercheremo di recuperarle nel rapporto contrattuale. E ci batteremo per contrastare i tentativi di questo governo di togliere le conquiste di sessant’anni di attività sindacale e di lotte e dei lavoratori. Se fosse veramente per il bene del paese, per creare lavoro, me ne farei una ragione pure io. Ma la verità è che occupazione per decreto non se ne fa».
“Funzionerà a patto
che assorba tutti
i contratti precari”
La Cisl dice che il «Jobs Act» è migliorabile. Come, e quando?
«Siamo solo all’inizio di un percorso» risponde Annamaria Furlan, leader della Cisl. «Non c’è dubbio che sia nelle audizioni delle Commissioni parlamentari delle due Camere che nel prosieguo del confronto col governo, capiremo meglio alcune cose che ancora non sono chiare e definite. E avremo anche l’opportunità di contribuire a migliorare ciò che va cambiato. Il punto centrale, per noi, è far sì che il contratto a tutele crescenti - che è un contratto a tempo indeterminato assolutamente vantaggioso, che per la prima volta sarà più invitante per le imprese rispetto altre forme contrattuali - non venga affiancato e vanificato dalle tante forme contrattuali precarie oggi esistenti. Parliamo delle partite Iva, dei lavori a chiamata, dei co.co.pro, degli associati in partecipazione: forme che spesso fingono lavori autonomi, ma sono lavori subordinati mal tutelati e mal pagati».
E voi chiedete?
«Che il nuovo contratto assorba quelli precari, e possa così creare più stabilità nei rapporti di lavoro».
Che ne pensate della novità dell’ultim’ora sui licenziamenti collettivi?
«All’ultimo minuto c’era il pericolo che le aziende potessero evitare il reintegro deciso dal giudice per i licenziamenti ingiusti disciplinari. Pericolo scongiurato, come pure la motivazione dello scarso rendimento nei licenziamenti economici. Noi della Cisl eravamo contrarissimi. Rimane aperta la questione dei licenziamenti collettivi: questo è un tema che può essere migliorato in sede di Commissioni parlamentari. Va invece assolutamente modificato il regime che riguarda il subentro delle imprese negli appalti. Oggi l’impresa che vince l’appalto prende in carico anche i lavoratori, ma deve prenderli come lavoratori assunti con le vecchie regole, non come se partissero da zero».
Qualche commentatore dice che bisogna superare il dualismo tra vecchi assunti e nuovi assunti, che non hanno più l’art. 18.
«Noi siamo assolutamente contrari, non è una cosa in discussione. Anzi, credo che sia importante che le nuove regole si applichino esclusivamente alle nuove assunzioni. Per i lavoratori che già oggi hanno i loro contratti di lavoro devono rimanere in vigore le regole precedenti. Sarebbe certamente ottimale se riuscissimo a uniformare i trattamenti per l’intero mondo del lavoro: ma guardando verso l’alto, non guardando verso il basso. È ovvio che se le nuove regole si applicano attraverso un contratto a tempo indeterminato di cui gode chi oggi è del tutto precario, bisognerebbe chiedere ai precari stessi se la novità per loro è da considerarsi positiva».
[R. Gi.]
RIASSUNTO DELLA STAMPA
Prima, con la riforma Fornero, ogni lavoratore dipendente di un’azienda con più di 15 persone (fresco o di grande anzianità) poteva essere licenziato per ragioni «economiche» in cambio di un indennità monetaria. Ma: 1) si doveva passare per un giudice; 2) serviva molto più tempo; 3) l’azienda avrebbe speso di più (da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità, più eventuali incentivi); 4) il giudice avrebbe potuto decidere di restituire il posto di lavoro al lavoratore licenziato, cioè la tutela dell’articolo 18. Le statistiche dimostrano che col vecchio sistema comunque il 75% dei lavoratori licenziati se ne andava in cambio di soldi.
Per i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti (se agricole, meno di 5) valevano le regole stabilite da una legge del 1990. Un datore di lavoro poteva così in ogni momento licenziare il suo dipendente. Se il lavoratore non è d’accordo, può chiedere l’intervento di un giudice per verificare se il licenziamento è illegittimo: il giudice condannerà l’azienda a versare una somma tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità. Normalmente le aziende pagano sempre l’indennità per evitare il passaggio dal giudice. Se il licenziamento è discriminatorio c’è la riassunzione.
Con la legge Fornero in alcuni casi erano i contratti collettivi, in altri un giudice, a stabilire che cosa accadeva a un lavoratore licenziato per ragioni disciplinari, se la sanzione del licenziamento era proporzionata alla colpa commessa o meno. In generale, il lavoratore poteva recuperare il posto se il fatto contestato non esiste oppure rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa. In altri casi il lavoratore perdeva il posto, ricevendo però un’indennizzo dal datore di lavoro, variabile a seconda dei casi da un minimo di 6 a un massimo di 24 mensilità di stipendio.
Se il licenziamento è riconosciuto come discriminatorio (legato a orientamenti sessuali, religione, opinioni politiche, attività sindacale, motivi razziali o linguistici, handicap, gravidanza, malattia, come stabiliscono leggi e Costituzione) il lavoratore oggi viene reintegrato dal giudice nel suo posto di lavoro. In più all’azienda si impone il pagamento dello stipendio maturato nel periodo di assenza obbligata per il lavoratore.
Dopo la riforma, per chi ha già un contratto di lavoro attivo continuano a valere le regole della legge Fornero. Chi verrà assunto con un contratto «a tutele crescenti», è invece facilmente licenziabile: basterà pagare un’indennità che varia da un minimo di 4 mensilità di stipendio, e sale di 2 mensilità per anno di servizio fino a un tetto di 24 mensilità. Non si passa mai per il giudice, a meno che il lavoratore voglia cercare di dimostrare che si tratta di un licenziamento discriminatorio e nullo. La stessa disciplina riguarda anche i licenziamenti collettivi, quelli effettuati in caso di crisi aziendale.
Per tutti i nuovi assunti in una impresa di piccole dimensioni valgono le procedure stabilite per i licenziamenti economici nelle grandi aziende: soltanto che le indennità economiche sono dimezzate. In pratica, si parte da due mesi di stipendio il primo anno, si sale di una mensilità l’anno fino a un massimo indennizzo pari a sei mesi di stipendio del lavoratore.
Adesso per tutti i lavoratori assunti dopo la riforma la reintegra nel posto di lavoro diventa molto più problematica. Resterà infatti in vigore soltanto per i soli casi di insussistenza materiale del fatto contestato, a prescindere da quello che stabiliscono i contratti. Parliamo di un numero estremamente ridotto di casi, dal punto di vista numerico. In tutte le altre situazioni il lavoratore sarà licenziato, e riceverà in cambio una indennità economica. Tuttavia, in caso di licenziamento disciplinare in ogni caso sarà inevitabile un passaggio davanti alla magistratura, che dovrà stabilire chi ha ragione.
In questo caso non cambia nulla. La riforma Renzi però stabilisce che dagli stipendi arretrati il datore di lavoro possa detrarre quanto incassato dal lavoratore licenziato grazie ad altri lavori. Si stabilisce che il risarcimento minimo è di cinque mensilità dello stipendio più contributi arretrati. Il lavoratore, se vuole, oltre al risarcimento potrà decidere di andarsene comunque dall’azienda, in cambio di un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto esente da contributi.